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11 settembre 2015

 

La crisi dei rifugiati: attenti ai tamburi di guerra

di Jelle Bruinsma

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Centinaia di migliaia di rifugiati da paesi devastati dalla guerra sono entrate quest’anno in Europa. Mentre prosegue il dibattito sulla responsabilità dell’Europa di consentire l’ingresso di questi profughi, appelli alla solidarietà umana si sono accompagnati a un’allarmante e prevedibile risposta dell’occidente. Dopo il cinico adagio che non si può far finire nella spazzatura una buona crisi, intellettuali e stati sono stati ugualmente lieti di utilizzare la crisi per rinnovati appelli all’intervento militare occidentale.

Il predicato degli argomenti è che l’occidente, pur sollecitando dal 2011 le dimissioni di  Assad, non ha fatto nulla per averne ragione e in tal modo ha “abbandonato” il popolo siriano. Adesso dobbiamo intervenire e accettare questo fardello, dicono i guru.

L’editoriale del The Guardian ha rimproverato l’Europa la settimana scorsa per la sua “paralisi”, “inerzia” e “anni di mancato confronto con il sanguinoso collasso della Siria”.  L’editorialista del New York Times Nicholas Kristof è in larga misura d’accordo, mentre il suo collega Ross Douhat vede la Siria come un’”odiosa frattura” in quella altrimenti ammirevole e “ben consapevolmente accettata gestione della stabilità globale” che è la Pax Americana.

Anche Anne Applebaum del Washington Post è d’accordo, e definisce i profughi una “crisi della sicurezza”, la “conseguenza” dell’inazione dell’Europa. Edward Luce, sul Financial Times, ripete l’affermazione che anche gli USA hanno la responsabilità della crisi, poiché hanno abbandonato il loro ruolo di “faro”, astenendosi anziché intervenire, non avendo fatto “quasi nulla” per cacciare Assad.

La realtà non conta.

La realtà è, come ci ricorda Adam Johnson dell’osservatorio mediatico FAIR, che il predicato che gli stati occidentali non hanno fatto nulla in Siria è pura fantasia: “Gli USA stanno ‘intervenendo’ nella guerra civile siriana, in modi considerevoli e misurabili, almeno dal 2012, più notevolmente armando, finanziando e addestrando forze anti-Assad”. Johnson cita un articolo del Washington Post di solo un paio di mesi fa:

“Al livello di un miliardo di dollari, le operazioni collegate alla Siria rappresentano un dollaro ogni quindici del bilancio totale della CIA, a giudicare dai livelli di spesa rivelati in documenti che il Washington Post ha ottenuto dall’ex collaboratore esterno dei servizi segreti statunitensi Edward Snowden. Dirigenti statunitensi hanno affermato che la CIA ha addestrato ed equipaggiato quasi 10.000 combattenti inviati in Siria negli ultimi anni, il che significa che l’agenzia sta spendendo circa 100.000 dollari l’anno per ogni ribelle anti-Assad che è passato attraverso il programma.”

 

Il New York Times dettaglia ulteriormente come il Pentagono sta pianificando di “rilanciare il programma” in parte “accrescendo la dimensione dei gruppi di ribelli addestrati rimandati in Siria”. E a parte l’armamento, il finanziamento e l’addestramento di questi gruppi, sono anche forniti come supporto droni Predator statunitensi.

Ciò nonostante questi sforzi non saranno sufficienti a fermare le moltitudini che “scuotono i cancelli dell’Europa”, è l’opinione del The Guardian. Un qualche altro genere di “intervento internazionale” è “inevitabile”. E anche se “non c’è alcuna formula evidente per intervenire in stati a pezzi” e “nessun precedente soddisfacente per il dispiegamento del potere occidentale a sostegno della democrazia”, dovremmo comunque arrivarci.

Questi appelli alla guerra non sono intesi a rendere gli stati occidentali responsabili e a far loro adempiere i propri obblighi, come alcuni vorrebbero. Invece essi cancellano dalla memoria le nostre vere responsabilità per aver causato l’attuale catastrofe. Concentrano la loro attenzione sulla nostra mitica inazione, essi insabbiano la storia e la spurgano dei dettagli delle nostre azioni nel mondo reale.

La storia espurgata comprende i nostri interventi goffi in Siria, che hanno contribuito a renderla uno “stato a pezzi”, ma si spinge anche molto più in là.

Le nostre “responsabilità” hanno una lunga storia – una storia con conseguenze durature – e seguono uno schema familiare. Durante la colonizzazione il Medio Oriente e l’Africa sono stati divisi tra le potenze europee, tracciando confini e incitando gruppi etnici gli uni contro gli altri. Una volta cacciate si sono lasciate dietro tensioni etniche e povertà.

In anni successivi hanno mantenuto al potere dittatori e hanno contribuito a reprimere rivolte democratiche, combattuto guerre contro chi disobbediva e imposto una politica economica a molti stati che assicuravano l’accesso occidentale a risorse naturali e hanno in larga misura bloccato lo sviluppo economico in queste società post-coloniali.

Questa storia non è terminata; non è il materiale di libri di testo impolverati. Prosegue tuttora. Le guerre in Iraq, Afhganistan, Libia e Yemen hanno tutte costretto tali paesi a liquefarsi e “destabilizzarsi”. Un rapporto di Physicians for Social Responsability [Medici per la Responsabilità Sociale] sulle vittime di più di dieci anni della “guerra al terrore” conclude “che la guerra ha ucciso, direttamente o indirettamente” circa un milione di persone in Iraq, 220.000 in Afghanistan e 80.000 in Pakistan, cioè un totale di 1,3 milioni”.

Ma invece di essere usato come argomento contro gli interventi occidentali il caos conseguente è a sua volta utilizzato, nelle parole di Glenn Greenwald, per “giustificare una guerra interminabile da parte dell’occidente”.

E, come sempre, gli intellettuali e lo stato sono strettamente allineati. La verniciatura mediatica prepara il terreno per l’intervento statale. Il presidente francese Francois Hollande, cogliendo l’occasione, ha annunciato questa settimana il suo ordine di preparare attacchi aerei contro le forze dell’ISIS in Siria, in plateale violazione della legge internazionale. Il governo britannico sta pensando di seguirne l’esempio e giornali hanno appena rivelato che droni britannici sorvolano dal mesi la Siria, bombardando in base a una “lista dei condannati”. Anche l’Australia sta programmando attacchi con i bombardieri in Siria e anche la maggioranza del parlamento olandese appoggia gli attacchi sulla Siria.

“Dirigenti di Washington e di capitali europee” citati dal New York Times concordano con i redattori progressisti del The Guardian e “riconoscono che fermare questa migrazione di massa richiede uno sforzo internazionale complessivo di portare pace e stabilità nelle aree da cui quei profughi stanno oggi fuggendo”. I tamburi della guerra stanno rullando di nuovo e faremmo meglio a svegliarci e a sentirli.

La prosecuzione delle politiche estere occidentali creerà inevitabilmente la prossima ondata di miseria e di profughi negli anni a venire. Le prerogative degli stati occidentali dovrebbero rendere ciò di una chiarezza cristallina. Mentre i leader ora proclamano di stare con le “accerchiate masse siriane”, le organizzazioni per i rifugiati sono alla disperata ricerca di fondi. L’UNHCR, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati che ha “il mandato di guidare e coordinare gli interventi internazionali per proteggere i profughi e risolvere i loro problemi in tutto il mondo” è drammaticamente sottofinanziata.

Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) ha dovuto, nelle settimane scorse, tagliare i sussidi a centinaia di migliaia di profughi siriani in Giordania, riducendo la loro sicurezza alimentare, secondo la direttrice esecutiva del WFP Ertharin Cousin. Mentre questi organismi dell’ONU lottano per trovare finanziamenti sufficienti, il fatto innominabile è che i soldi spesi per i nostri interventi militari potrebbero facilmente appianare il deficit. L’allocazione pianificata delle risorse finanziarie dovrebbe indurci a riflettere chiedendoci quali siano i veri motivi e obiettivi.

Il cantautore belga Jacques Brel notoriamente sognava un mondo in cui il potere dell’amore fosse sufficiente per bloccare i tamburi della guerra. Il popolo dell’Europa ha testimoniato questo potere dell’amore in sforzi di aiutare e accogliere i profughi. Ma se tale amore non sarà accompagnato dalla comprensione delle cause della crisi e dalla richiesta di fermarle e alleviarle, la prossima è già in preparazione.

 


Jelle Bruinsma ha un dottorato di ricerca in storia presso l’Istituto Universitario Europeo ed è redattore di ROAR Magazine.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-refugee-crisis-beware-the-drums-of-war/

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