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Lunedì 29 agosto 2016

 

Se il peacekeeper sta a guardare

di Vincenzo Giardina

 

Stragi e stupri sotto gli occhi dei caschi blu. In Sud Sudan, ma non solo. Le missioni di pace dell’Onu sono impotenti anche in altri paesi africani, dal Congo al Mali. Perché a inviare soldati, spesso sotto-equipaggiati, sono per lo più governi con disponibilità ridotte. Mentre le grandi potenze guardano altrove.

 

“C’erano solo lamiere annerite e terra bruciata” racconta a Nigrizia chi ha visitato Malakal pochi giorni dopo l’ennesima strage sotto gli occhi dei caschi blu. Sud Sudan, regione dell’Alto Nilo, 17 febbraio 2016. Militari fedeli al presidente Salva Kiir vanno all’assalto di un campo profughi gestito da Unmiss, la missione di peacekeeping dell’Onu. I caschi blu chiedono “un’autorizzazione scritta” per affrontare gli assalitori. Nel frattempo è dato alle fiamme un terzo del campo e sono uccisi almeno 30 profughi, quasi tutti Nuer, l’etnia del capo ribelle Riek Machar accusata di contrapporsi ai Dinka di Kiir.

 

Un episodio come tanti nel Sud Sudan della guerra civile: dove la missione di pace conta zero. “Tante volte i soldati avevano aspettato che le donne nuer, alla fame, si spingessero all’esterno del campo in cerca di qualcosa da mangiare” racconta la fonte di Nigrizia, che a Malakal ha vissuto anni e le vittime degli stupri le ha conosciute. Violenze, umiliazioni, esecuzioni sommarie: nonostante la presenza dei caschi blu e il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che li autorizzerebbe a usare la forza in caso di minaccia per la sicurezza dei civili.

 

È accaduto anche a Juba, la capitale, a un chilometro da una base di Unmiss. È l’11 luglio e i soldati fanno irruzione al Terrain Hotel. Un giornalista è ucciso a colpi di pistola perché Nuer, le cooperanti delle ong straniere sono stuprate e tenute in ostaggio per ore. Racconteranno che le chiamate e gli sms ai comandi Onu vanno a vuoto.

 

La risposta internazionale? Una riunione del Consiglio di sicurezza, il 12 agosto. È autorizzato l’invio di 4000 soldati, parte di una “forza regionale” chiamata a coadiuvare i 12.500 peacekeeper già dispiegati prima e dopo l’inizio del conflitto civile nel 2013. L’incarico è difendere i civili, e anche il presupposto resta lo stesso: operare d’intesa con il governo di Kiir, corresponsabile delle stragi e del naufragio dell’accordo di pace di un anno fa.

 

A Juba non si fanno illusioni. “I funzionari Onu sottolineano che mancano armi ed equipaggiamenti per potersi contrapporre alle unità dell’esercito” spiegano a Nigrizia; “E poi in una guerra civile le persone da proteggere sono centinaia di migliaia e i territori da pattugliare enormi”.

 

A 20 anni dagli orrori di Srebrenica e del Rwanda, l’Onu rischia di fallire ancora. In Sud Sudan, ma non solo, i caschi blu sono sotto-equipaggiati e a metterli a disposizione sono per lo più Stati con risorse ridotte. Statistiche alla mano, a livello globale Bangladesh, Etiopia, India, Pakistan e Rwanda forniscono il 36 per cento dei soldati. I risultati si vedono, soprattutto in Africa: in Sudan, nella mai pacificata regione del Darfur; nell’est del Congo, dove nonostante un mandato rafforzato continuano le incursioni dei ribelli; in Mali, con gli islamisti pronti a rivendicare nuovi attentati; in Centrafrica, con i caschi blu accusati di abusi sessuali ai danni di chi avrebbero dovuto difendere.

 

Troppo, anche per gli esperti dell’Onu. “Le missioni sembrano ormai una risposta scontata a conflitti che i membri permanenti del Consiglio di sicurezza ritengono di importanza secondaria” ha sottolineato Charles Petrie, ex vice-segretario generale delle Nazioni Unite. Incaricato di studiare una riforma del peacekeeping, è convinto che il nodo sia il declino del multilateralismo: “Dall’11 settembre in poi è stato sostituito dalle ‘coalizioni dei volenterosi’, come in Siria e in Iraq”.

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