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Lunedì 03 ottobre 2016

 

Africa e jihad

di Azzurra Meringolo

 

L'estremismo islamico armato si diffonde nel continente trovando terreno fertile in una generazione di giovani senza prospettive di futuro che vivono in paesi in cui mancano servizi, strutture educative e democrazia. La religione c'entra solo in parte, l’interesse principale è la conquista di nuovi territori in cui instaurare il proprio governo. Se ne è parlato al festival Internazionale di Ferrara.

 

Il primo iconoclasta della storia condannato per crimini di guerra la settimana scorsa dalla Corte penale dell’Aia (Cpi) è un jihadista africano, assoldato da quanti hanno trovato nel Sahel Occidentale terreno fertile per reclutare trafficanti. Il maliano Ahmad al Faqih al Mahdi era infatti una guida turistica, quando è stato assoldato dai jihadisti di Ansar Dine, sigla terroristica affiliata alla più famosa al Qaida nel Magreb islamico. I suoi nuovi capi gli avevano chiesto di distruggere le moschee e i mausolei di Timbuctu, la città dei 33 santi simbolo di un islam aperto e pluralista, quindi invisa agli estremisti intolleranti che in questi anni stanno proliferando nel continente.

 

Un universo di diverse sigle sparse per l’Africa e troppo semplicisticamente catalogate da osservatori occidentali attratti dalla semplificazione di brand internazionali del terrore. Anche se hanno spesso una matrice religiosa e si muovono per conquistare territori e instaurare governi su una visione estremista dell’islam, «queste cellule non si possono comprendere fino in fondo se non sono analizzate nel contesto peculiare nel quale nascono ed agiscono. I brand forti funzionano e tutti hanno quindi interessi a mostrarsi collegati tra di loro, ma ogni gruppo affonda le radici nella sua terra di origine» spiega Emilio Manfredi, giornalista e ricercatore con una lunga esperienza sul campo, che è intervenuto al convegno sull’Africa e il jihadismo che si è svolto al festival di Internazionale, tenutosi a Ferrara lo scorso fine settimana. Oltre ai gruppi che si riconoscono in al Qaida, come quello a cui ha giurato fedeltà al Mahdi, ci sono quelli ora leali all’autoproclamatosi “stato islamico” e quelli nati dalla dissoluzione di paesi come Libia e Algeria, e da queste terre penetrati nel cuore del continente.

 

Gruppi più o meno noti per i rapimenti e per le stragi che portano la loro firma (si pensi a Boko Haram) che pur essendo riconosciuti per la violenza distruttrice, riescono a godere di un certo sostegno popolare. «Non sono solo religiose le motivazioni che spingono la gente a tifare per loro. Sono tanti i problemi tutt’ora irrisolti nei paesi dove queste sigle agiscono. Dalla mancanza di governance e democrazia, al sottosviluppo. I problemi di questi paesi, in mano a leader spesso alleati dell’Occidente, sono così tanti che non è difficile capire perché un giovane trovi attraente il messaggio dei terroristi» puntualizza Confort Ero, direttrice dell’unità africana dell’International Crisis Group.

 

Anzi, non sono pochi i casi in cui l’arruolamento è motivato proprio da una rivolta generazionale. «In alcune circostanze, soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione, l’arruolamento è il tentativo estremo di ribellarsi a governi che non sono riusciti a proporre prospettive di crescita» aggiunge Manfredi.

 

Considerando che nella regione circa il 60-70% della popolazione ha meno di 20 anni e non vede altro futuro oltre a quello dell’emigrazione, non è complesso capire come sia possibile che i giovani si radicalizzino. In alcuni casi, questo processo è rapidissimo. Bastano quattro giorni per trasformare un sufi in un terrorista pronto a farsi esplodere in un mercato affollato. E in men che non si dica, il jihad al bordo del deserto diventa un fenomeno urbano che prende di mira resort e centri commerciali, proprio come avviene in Occidente.

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