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Lunedì 28 novembre 2016

Non solo libiche le armi nel Sahel
di Marco Simoncelli

Una delle più approfondite ricerche sui flussi illeciti di armi nella regione del Sahel degli ultimi anni, ha confermato che il saccheggio senza freni dell’imponente arsenale libico, dopo la cacciata del colonnello Mu'ammar Gheddafi nel 2011, ha alimentato organizzazioni terroristiche, insurrezioni e conflitti in tutta l’Africa settentrionale e occidentale. Ma il flusso di armamenti libici è diminuito negli ultimi due anni, e gruppi jihadisti e combattenti Tuareg avrebbero trovato nuove fonti di approvvigionamento.

Lo studio, intitolato Investigating Cross-Border Weapon Transfer in the Sahel”, è stato pubblicato pochi giorni fa dal Conflict Armament Research (Car), un’organizzazione indipendente con sede a Londra, specializzata nei movimenti illeciti di armi. L’obiettivo era quello di scoprire in quali mani fossero finiti gli stock di materiale militare gheddafiano e tracciare le rotte di trasferimento utilizzate dai gruppi terroristici nell’ultimo biennio. Armi e legami sospetti sono stati individuati in almeno sei nazioni tra Africa e Medio oriente.

Armi rinvenute
Gli investigatori del Car affermano che i diversi gruppi attivi nelle regione siano in possesso di materiali bellici libici composti prevalentemente da armi leggere di fabbricazione russa e polacca (fucili degli anni 70 con marchi in lingua araba), ma anche da razzi prodotti in Corea del Nord, oltre ad alcuni mortai di creazione francese e belga. Gli jihadisti del Sahel sono pure in possesso di mine anticarro e Rpg, sempre di origine libica. Inoltre, molte di queste armi presentano numeri di serie riconducibili ad altri, rinvenuti in Siria e Libano.
La novità, però, è rappresentata dalla scoperta di materiale di differente origine. Parliamo di munizioni di piccolo calibro di fabbricazione sudanese (prodotte tra il 2011 e il 2014), russa e cinese (2012). Ma soprattutto sono rilevanti le cartucce utilizzate da combattenti islamisti che corrispondono a quelle in circolazione (legale e illecita) in Burkina Faso e Costa d’Avorio. Ciò suggerisce l’esistenza di catene di approvvigionamento nel sud e nell’ovest del Sahel.
È ancor più sorprendente poi, che dalla metà del 2015 i ricercatori abbiano iniziato a trovare fucili di fabbricazione irachena e degli altri, prodotti in Cina, che appaiono identici (stesso modello e stesso anno di fabbricazione) a quelli sequestrati allo Stato Islamico a Kobane in Siria.

Nuove catene di rifornimento
Per il Car, il fenomeno riflette una diminuzione progressiva della disponibilità di materiale bellico di era gheddafiana, che sarebbe dovuta a due fattori: prima di tutto all’efficacia degli sforzi internazionali d’interdizione dei traffici illeciti sulle rotte di transito nella regione (in Niger, Algeria e Ciad), e in secondo luogo ad un aumento della domanda interna in Libia, a causa di un conflitto sempre più intenso e complicato.
Mentre a partire dal 2011 l’arsenale libico era fonte primaria per alimentare conflitti tra Africa e Medio Oriente (come quello maliano del 2012 o l’inizio della rivolta in Siria) ora le cose stanno cambiando.
Gli jihadisti della regione hanno iniziato a diversificare le fonti di rifornimento. Il Sudan, per esempio, dal 2015 emerge come fonte molto rilevante di munizioni in tutta la regione, mentre prima si limitava alla Libia. Sempre più importanti si dimostrano poi, i flussi che arrivano da scorte nazionali non adeguatamente protette, le quali vengono facilmente saccheggiate dai gruppi ribelli, a causa di apparati statali resi fragili da corruzione o crisi interne. Facili gli esempi di Mali, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso e Costa d’Avorio.

Una rete unica?
C’è poi un’altra scoperta dei ricercatori che conferma questo mutamento. In tutti i gravi attentati a Hotel internazionali rivendicati da al Qaida, avvenuti tra il 2015 e il 2016
in Burkina Faso, Mali e Costa d’Avorio, , sono state utilizzate le sopracitate armi leggere irachene e cinesi, usate anche dall’Isis in Siria e Iraq.
Questo elemento, unito al quadro generale allarmante già delineato, potrebbe indicare che i vari gruppi terroristici della regione si appoggino ad un unico rifornitore di armi o che costituiscano essi stessi un’unica cellula. Inoltre, dimostrerebbe l’esistenza (a più riprese sospettata) che esistano stretti legami tra i combattenti dell’Africa dell’ovest e quelli di Iraq e Siria.

Per più di 40 anni durante la Giamahiria di Gheddafi, la Libia aveva creato uno dei più grandi e diversificati arsenali d’Africa. Con quelle armi, il regime ha combattuto conflitti transfrontalieri e aiutato governi amici e gruppi ribelli in varie parti del mondo. Una volta caduto Gheddafi nel 2011, molti gruppi ribelli hanno preso possesso di buona parte di questo arsenale che ha iniziato a circolare per Africa e Medio Oriente. E non si è ancora in grado di stabilire con certezza che fine abbia fatto. Cinque anni dopo la Libia non è più uno stato unitario e non c’è alcun controllo sulle armi. Dal 2014, lo scoppio di una seconda guerra civile ha frammentato ulteriormente il controllo militare e territoriale, e il governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dall’Onu, non riesce ancora a riprendere in mano le redini del paese.

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