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Lunedì 14 novembre 2016

 

A Bangui c’è poca profezia

di Elianna Baldi

 

Un anno è trascorso dalla visita di papa Francesco qui a Bangui, in Repubblica Centrafricana. Su come vanno le cose da queste parti, le risposte potrebbero essere molto diverse. Dipende con quali occhi si guarda a questo paese: come si vorrebbe che fosse, com’è, come si minaccia che sarà.

Diamo uno sguardo. Si vuole credere che c’è la pace e che le cose adesso vanno bene. Si moltiplicano gli investimenti e la corsa agli aiuti. Le imprese cinesi sono arrivate in massa e fanno bottino di oro e diamanti, con metodi che andrebbero sanzionati per violazione dei diritti umani. Il Qatar organizza parecchi voli settimanali per svuotare il nord. Le organizzazioni non governative sono ovunque con programmi di coesione sociale e con un budget commisurato ai loro salari. Non si fa che parlare della Conferenza dei finanziatori, prevista a Bruxelles il 17 novembre. Nelle loro conferenze stampa, Missione Onu (Minusca) e governo continuano a lodare gli sforzi e i segni positivi.

Ma se mettiamo meglio a fuoco, ci s’accorge che la gente continua a morire, a fuggire, a mancare terribilmente di denaro, a scioperare, a non poter spostarsi in certe aree del paese o in certi quartieri di Bangui, mentre la situazione sanitaria è degradata e rimane preoccupante. La Minusca lancia regolarmente ai suoi dipendenti il messaggio di vigilare e di rifornirsi di beni di prima necessità perché la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro.

I ribelli Seleka continuano a controllare il nord e l’est del Centrafrica, fino al territorio in mano al gruppo ribelle ugandese Lord Resistance Army. I Seleka minacciano la divisione del paese, che continua a non avere un esercito. Un anno fa si implorava la Minusca, con le lacrime agli occhi, di intervenire per bloccare i massacri nel quartiere di Fatima (a Bangui). Oggi la popolazione esasperata chiede alla Minusca di eseguire il suo mandato di proteggere i civili o di andarsene.

Il presidente Faustin-Archange Touadéra, in carica da marzo, e il suo governo rifiutano di ricevere i rappresentanti della società civile e i sindacati. Mentre moltiplicano inutili incontri con i capi ribelli, permettendo loro di mettersi in salvo e assistendo a un massiccio riarmo: negli ultimi tre mesi la Seleka ha ripreso posizioni, acquistato nuove armi, mentre continua a reclutare uomini, a comprare automezzi, ad arricchirsi con il racket e il pagamento forzato di tasse su tutto.

Un anno fa, la Chiesa stava preparando un documento per interpellare governo e Minusca, e per denunciare le continue uccisioni e vessazioni. Ma per non frustrare gli unici partner che rendevano possibile l’arrivo del papa, avevano rimesso il testo nel cassetto, insieme all’abituale e cospicua offerta presidenziale. Oggi la Chiesa rimane muta di fronte alle continue sofferenze del suo popolo col pretesto di voler andare con passo deciso verso la pace. Ma dialogo, coesione e riconciliazione non sono possibili senza verità e senza giustizia.

Il clero e i religiosi dicono di non voler partecipare a incontri o iniziative cittadine perché, affermano, sarebbe “fare politica”. Che ne è di decenni di dottrina sociale della Chiesa?

Noi comboniane e comboniani siamo altrove motori di riflessione e di azione, mentre qui sembriamo faticare per mantenere in vita realtà di servizio molto belle, ma senza trovare ossigeno per una dimensione carismatica e profetica più che mai necessaria e attuale.

Il papa, la cui visita è stata considerata un miracolo, ci invita a sporcarci le mani, a osare, a uscire, ad ascoltare il grido dei piccoli e oppressi. Come rispondiamo? L’augurio è che anche i centrafricani riescano a fare il loro proprio miracolo.

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