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Martedì 16 agosto 2016

 

Un fiume d'oro verso la Cina

di Vincenzo Giardina

 

Tangenti ai funzionari, minacce ai minatori, stipendi e Ak-47 ai miliziani per contrabbandare pepite d’oro, senza che nelle casse dello Stato congolese entrasse un solo dollaro. A Shabunda, sul fiume Ulindi, la società cinese Kun Hou Mining si è arricchita così. Come ha documentato l’ong Global witness, verificando le denunce della società civile.

Niente strade, figurarsi acqua corrente o elettricità. A Shabunda dopo la corsa all’oro non è rimasto nulla. Anzi, peggio: con l’arrivo dei minatori sono aumentati prezzi dei generi alimentari e casi di malnutrizione. A ricostruire l’ennesimo paradosso africano dell’abbondanza, nell’est della Repubblica democratica del Congo, è stata l’organizzazione non governativa Global witness. Autrice di un rapporto, “River of gold”, dedicato al boom dell’estrazione di sabbie aurifere lungo il corso dell’Ulindi tra il 2013 e il 2015: una disgrazia per la comunità locale e i minatori al lavoro sotto la minaccia degli Ak-47; un affare per le bande armate e le società estrattive che ne hanno acquistato i servigi.

A denunciare per primi gli abusi erano stati in realtà, in un rapporto pubblicato un anno fa, gli attivisti della Coalition de la société civile des la région des Grands Lacs (Cosoc-Gl). Global witness, che ha la sede centrale a Londra ma monitora l’est del Congo da almeno 15 anni, ha verificato, ripreso e approfondito. Lo studio è fondato su nuove fonti, 80 tra minatori, dragatori, commercianti, funzionari, miliziani ed esponenti di società estrattive. Le conclusioni? A Shabunda si sono arricchiti tutti tranne chi ne avrebbe avuto diritto.

Solo nel 2014 lungo il corso del fiume è stata estratta oltre una tonnellata d’oro, per un valore di circa 38 milioni di dollari. Quasi la metà di questa ricchezza è finita nelle mani di una società cinese, Kun Hou Mining, per poi scomparire all’estero senza lasciare un dollaro nelle casse dello Stato congolese.

 

La dinamica degli illeciti sarebbe stata questa: i cinesi pagavano sia miliziani locali - perché garantissero l’accesso ai giacimenti e la sicurezza - sia funzionari dell’amministrazione provinciale del Sud Kivu, intervenuti a più riprese per difendere gli interessi della compagnia e addirittura falsificare i dati sull’origine dei minerali. Sì, perché le norme per impedire che il commercio dell’oro finanzi conflitti armati e violazioni dei diritti umani esisterebbero. Le hanno approvate nel 2010 le Nazioni unite e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), puntando a favorire tracciabilità e “sfruttamento responsabile”. La legge congolese rimanda espressamente a questi obblighi ma, denuncia Global witness, resta di fatto inapplicata. Più o meno lo stesso accade con le “linee guida” per le aziende cinesi, almeno nel Sud Kivu.

Per rendersene conto basta leggere “River of Gold”, anche soffermandosi su episodi in apparenza marginali. Come la vendita di 12 chili d’oro da parte dei miliziani di Raia Mutomboki, gruppo armato in affari con Kun Hou Mining capace di incassare mezzo milione di dollari vendendo a Dubai attraverso canali ufficiali. O le forniture cinesi di Ak-47, strumento di un racket da 25 mila dollari al mese ai danni dei minatori. “Solo nella città di Shabunda nel 2014 ci sono stati oltre 500 casi di malnutrizione” ha denunciato Sophia Pickles, di Global witness: “Nel frattempo i grandi profitti generati dal boom aurifero hanno arricchito gruppi armati e società predatorie”.

Ma il problema non riguarda solo l’Ulindi. Ogni anno il contrabbando di oro sottrae al Congo e alle sue popolazioni centinaia di milioni di dollari. Tra i Paesi di transito e smercio figurerebbero Uganda, Emirati Arabi Uniti e Svizzera. Come dire che l’ultimo anello della catena è il cuore dell’Europa.

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