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Venerdì 16 dicembre 2016

 

Spegnere il conflitto e prevenire il genocidio

di Bruna Sironi

 

La guerra civile sud sudanese compie tre anni con un bilancio di circa 300.000 morti e più di 3 milioni di sfollati e rifugiati. Per trovare una via di pacificazione il presidente Salva Kiir ha proposto l’avvio di un dialogo nazionale. Analisti ed attivisti sud sudanesi ne hanno parlato ieri in una conferenza organizzata dal Rift Valley Institute a Nairobi.

 

Il 15 dicembre, cadeva il terzo anniversario dello scoppio della guerra civile in Sud Sudan. Tre anni fa in queste ore a Juba migliaia, forse decine di migliaia, di nuer, il gruppo etnico di appartenenza del vice presidente Rieck Machar, venivano massacrati. Altre decine di migliaia scampavano alla morte perché la missione di pace apriva loro i cancelli dell’accantonamento delle sue truppe nei pressi dell’aeroporto, prendendoli direttamente sotto la sua protezione.

I fatti, a lungo negati dal governo, sono stati ormai confermati da numerose inchieste e rapporti, primo fra tutti quello commissionato dall’Unione africana. In quei documenti si chiarisce anche che la maggior responsabilità di quanto successo è dei combattenti della milizia privata conosciuta come Mathiang Anyoor, composta da dinka del Bahr el Gazal, fedeli al presidente Salva Kiir e all’attuale capo di stato maggiore Paul Malong Awan.

Quanto successo a Juba ha causato una catena di altri massacri in ritorsione. Episodi gravissimi che hanno segnato i tre anni di guerra civile e che potrebbero segnare il futuro stesso del paese. Da qui bisogna probabilmente partire per disegnare una strategia capace di prevenire un possibile genocidio, per cui l’Onu ha dato ripetutamente l’allarme nelle scorse settimane, e per trovare una via di uscita dalla crisi che rischia di far implodere il paese.

Il progetto di un dialogo nazionale, lanciato nei giorni scorsi dal presidente Kiir, non sembra adeguato ed è certamente prematuro, affermano diversi analisti e attivisti sud sudanesi. Nyagoah Tut, ricercatrice di Amnesty International, in un’affollata conferenza organizzata dal Rift Valley Institute a Nairobi, ha sottolineato come non ci siano le condizioni minime per un esercizio del genere, che deve partire da un’assunzione di responsabilità, per ora fuori questione. Nessuno ha pagato per le atrocità commesse e il tribunale ibrido – formato da giudici sud sudanesi e internazionali – previsto dagli accordi di pace è stato finora strenuamente osteggiato dal governo. Nyagoah Tut ha posto cioè con forza la questione dell’assunzione di responsabilità come fondante di un dialogo nazionale che porti alla riconciliazione, in questo supportata dall’altro analista sud sudanese presente, Peter Biar Ajak.

 

Rispondendo ad una domanda dell’ambasciatore di Juba in Kenya che si chiedeva se non era il caso di privilegiare il raggiungimento della pace, Peter Biar Ajak osservava che non sarebbe stato possibile neppure a livello di villaggio, dove la composizione di un conflitto passa prima di tutto per il riconoscimento del responsabile e per il pagamento della compensazione. Solo questo apre la strada alla riconciliazione. Inoltre, ha sottolineato Nyagoah Tut, un dialogo nazionale deve essere per forza di cose inclusivo e non può escludere a priori Riek Machar, capo dell’Splm-Io, la più importante forza di opposizione e uno del politici di maggior peso del paese. Il governo di Juba, invece, da luglio in avanti ha fatto ogni sforzo per metterlo fuori combattimento, dandogli la caccia perfino con elicotteri militari e, per isolarlo, chiedendo ai paesi della regione di dichiarare il suo movimento come una forza negativa per il Sud Sudan e l’area intera.

L’altro punto cruciale del dibattito di questi giorni sul martoriato paese è la prevenzione di un ripetutamente paventato genocidio. Anche su questo punto Peter Biar Ajak è stato deciso. L’indice non sono tanto gli episodi, seppur gravissimi, che hanno costellato il conflitto e che continuano ad insanguinare il paese e ad avvelenare i rapporti tra i diversi gruppi etnici, quanto il reclutamento di milizie su base etnica, che continuano anche in questi giorni. E per il reclutamento si usano metodi fondati su interessi particolari – l’uso di un pozzo o di un pascolo – da sfruttare in chiave di potere da parte delle leadership, mettendo le premesse a conflitti locali senza fine.

Ma il genocidio a lungo annunciato può, o potrebbe, essere evitato. John Prendergast, il terzo relatore della conferenza, noto attivista americano, fondatore dell’organizzazione “Enough” per la prevenzione dei genocidi, esperto dei conflitti in Sudan e Sud Sudan, si è detto convinto che gli strumenti ci sono, e sono gli stessi messi a punto per la prevenzione degli atti terroristici. Un genocidio, o comunque un conflitto refrattario alle mediazioni come quello sud sudanese va preparato con dispendio di risorse umane e finanziarie e va contrastato impedendone l’uso e l’accesso. “Bisogna seguire i soldi” ha ripetuto durante il suo intervento, dicendo che in Sud Sudan sono spariti miliardi di dollari. Ha promesso la prossima diffusione di un secondo rapporto del progetto “Sentry”, molto più approfondito di quello pubblicato in settembre, War Crimes Shoulnd’t Pay, che ha dimostrato come la corruzione abbia finanziato il conflitto sud sudanese.

La conferenza si è conclusa con una battuta di Peter Biar Ajak, che ha invitato i giovani sud sudanesi presenti a preparare la successione della classe politica che guida ora il paese, che si è dimostrata inadatta al compito ricoperto. Una battuta ma soprattutto un invito a chiedere il testimone per governare il paese su basi diverse da quelle che hanno portato a questa crisi di cui, per ora, non si vede una via d’uscita.

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