Fonte: Corriere della Sera

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05/06/2016

 

Eroica e umana. La guerra di Ernst Jünger

di Ben Pastor 

 

«Cadrò a terra subito, come ho già visto fare a molti. È finita. Fisso la strada e riconosco le pietre sul suo fondo giallo…». Questa citazione è tratta dal breve romanzo di guerra che Ernst Jünger pubblicò per la prima volta nel 1925, col titolo originale di Feuer und Blut .

Ogni scritto, si dice, appartiene al suo tempo. Ma cosa accade quando la vita di un autore supera il secolo, e le riedizioni dei suoi lavori si susseguono incessantemente?

Il destino del visionario, avvincente Fuoco e sangue non è separabile dalle sue riscritture. Pubblicato originalmente come commento romanzato sulle trincee della Grande guerra, viene rieditato l’anno dopo, e poi, a distanza di più di mezzo secolo, nel 1978. Sono rimarchevoli la freschezza che il testo conserva, le immagini indimenticabili che ricordano i quadri futuristi con il loro elogio grafico della velocità, e al contempo la precisione attonita di un ralenti cinematografico: «…un elmetto piatto… sale in alto nell’aria, ruotando». Per contrasto, viene in mente il romanzo anti-jüngeriano per eccellenza, Niente di nuovo sul fronte occidentale (del cui successo planetario il pur notissimo Jünger ebbe invidia), ma anche, à rebours , l’impressionistico antenato moderno della prosa di guerra, Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane, pubblicato proprio nell’anno di nascita di Jünger, il 1895.

Quando dà alle stampe per la prima volta Fuoco e sangue , lo scrittore tedesco, benché non iscritto al partito nazista (e mai lo sarà), scrive già da due anni sul «Voelkischer Beobachter», l’organo del Nsdap. Il reduce trentenne, che ha già al suo attivo due testi di successo ( Nelle tempeste d’acciaio e Il tenente Sturm ), si augura, pur vivendo da bohémien con la giovane moglie a Lipsia, che dopo gli stanchi giorni della Repubblica di Weimar la dittatura sostituisca «la parola con il gesto». L’edizione dell’anno dopo coincide con la non-uscita di un grande romanzo annunciato ( Ferdinand Dark, il lanzichenecco e sognatore ).

Nel 1935 (terza edizione), molta acqua è passata sotto i ponti, politicamente e personalmente: il quarantenne Jünger ha già due figli, si risente dei critici che lo danno come «finito», è profondamente turbato dalla fine cruenta delle SA nella «Notte dei lunghi coltelli» e dalla mancata realizzazione da parte di Hitler della «democrazia operaia». La Gestapo lo tiene d’occhio.

Quarantatré anni più tardi, nel ’78, esce la quarta e ultima edizione di Fuoco e sangue . Siamo a un decennio dalla contestazione studentesca. Jünger è ottantatreenne. Ha perso la prima moglie e l’amato primogenito (quest’ultimo sul fronte italiano della Seconda guerra mondiale), ma in quel lungo lasso di tempo ha anche prodotto alcuni dei diari e dei saggi più straordinari della sua carriera, nonché della letteratura occidentale. Qualche mese prima era morto anche il fratello Friedrich Georg, nel trentatreesimo anniversario dell’attentato contro Hitler (Operazione Valchiria), in cui Ernst — uomo sempre ambiguo e geniale — aveva giocato un ruolo forse periferico negli atti, ma dominante nell’ideologia resistenziale conservatrice.

A mio avviso, Fuoco e sangue va letto in quest’ottica cronologica, per capirne il posto all’interno dell’opera jüngeriana. È una fortuna averne il testo (Guanda), magistralmente reso in italiano da Alessandra Iadicicco, a ben novantuno anni dall’edizione originale tedesca!

Si legge con gusto, rapidamente. È scorrevolissimo, ricco di immagini vivide, di pensieri straordinariamente acuti e profondi. Va letto e riletto, per apprezzarne appieno il valore. I topoi jüngeriani che lo caratterizzano colpiscono al cuore i lettori: l’ansia gioiosa della morte in battaglia, la «grandezza e purezza» dei combattenti in marcia, la potenza titanica del «materiale», l’ebbrezza «senza vino» dei combattenti, il cui destino non è quello di morire in un letto. Al contempo, questa prosa elastica, sensibile, non è solo una celebrazione marinettiana della guerra come igiene del mondo. Se è vero che a un certo punto i ragazzi del Kaiser sentono che è il «momento giusto» e che sono «invincibili», c’è anche la sobria considerazione che la guerra è un mattatoio. Il micidiale cecchino inglese viene finalmente ucciso, e la sua arma «è quasi del tutto ricoperta da una montagna splendente di cartucce vuote. L’aria che avvolge la canna rovente ancora trema». Come non pensare al grande tumulo funebre di Achille, violentatore di città, visibile dal mare ai naviganti greci? E ancora: ferito gravemente, il giovane ufficiale protagonista del racconto considera: «Cadrò a terra subito, come ho già visto fare a molti. È finita. Fisso la strada e riconosco le pietre…, scuri frammenti di pietra focaia e un bianco ghiaietto levigato. In mezzo alla tremenda confusione noto ciascuna di esse, e le loro costellazioni si imprimono nella mia mente. Non prendo più parte all’attività assassina che si svolge intorno a me».

Dunque, la guerra è una folle celebrazione di vita, ma anche un abisso in cui il nemico abbattuto mostra tremante la fotografia dei suoi cari per essere risparmiato. Per chi scrive romanzi di guerra, come me, è impossibile prescindere da Ernst Jünger, e non solo perché anche il mio protagonista, Martin Bora, è un ufficiale tedesco (e nell’imminente I piccoli fuochi , per Sellerio, incontrerà proprio Jünger nella Francia del 1940). Soprattutto perché chiunque voglia conoscere i sentimenti e le reazioni emotive e intellettuali di un soldato sotto il fuoco nemico, nell’ansia prima dell’attacco, o nella tristezza delle notti che forse non vedranno mattino, deve leggere Jünger. E se non l’ha ancora fatto, conviene che inizi proprio da Fuoco e sangue .

Viviamo in tempi ciecamente violenti, che Ernst Jünger avrebbe letto con pessimismo, sia pur moderato dalla sua fede nelle qualità rigeneratrici della volontà e dello spirito. Fuoco e sangue , travalicando la celebrazione estetizzante della violenza, ci ricorda il valore imperativo della nostra umanità.

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