Originale: The Guardian

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10 dicembre 2016

 

La teoria degli archi d’oro a proposito del declino

di George Monbiot

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Un’ondata di disgusto percorre il mondo. Le percentuali di approvazione dei leader in carica stanno crollando dovunque. Simboli, slogan e sensazioni sovrastano i fatti e i ragionamenti sofisticati. Uno statunitense su sei ritiene oggi che un governo militare sarebbe una buona idea. Da tutto ciò io ricavo la seguente peculiare conclusione: nessun paese con un McDonald’s può restare una democrazia.

Vent’anni fa l’editorialista del New York Times Thomas Friedman propose la sua “teoria degli archi d’oro sulla prevenzione dei conflitti”. Essa afferma che “nessuna coppia di paesi che hanno entrambi un McDonald’s ha mai combattuto una guerra reciproca da quando hanno avuto il loro McDonald’s”.

Quella di Friedman era una tra numerose narrazioni di ‘fine della storia’ che suggerivano che il capitalismo globale avrebbe condotto a una pace duratura. Egli affermava che poteva creare “un punto di svolta in cui un paese, integrandosi nell’economia globale, aprendosi agli investimenti stranieri ed emancipando i propri consumatori, limita permanentemente la sua capacità di creare problemi e promuove gradualmente la democratizzazione e la diffusione della pace”. Non intendeva che McDonald’s pone fine alla guerra, bensì che il suo arrivo in una nazione simboleggia la transizione.

Usando McDonald’s come abbreviazione delle forze che fanno a pezzi la democrazia anch’io, come lui, scrivo metaforicamente. Non intendo dire che la presenza della catena di hamburger è di per sé la causa del declino di società democratiche aperte (anche se ha fatto la sua parte in Gran Bretagna, sfruttando le leggi sulla diffamazione contro i propri critici). Né intendo dire che i paesi che ospitano McDonald’s si trasformeranno necessariamente in dittature.

Quello che intendo è che, sotto l’offensiva del capitale transnazionale ubiquo che McDonald’s esemplifica, la democrazia, come sistema vitale, avvizzisce e muore. Le vecchie forme e sedi continuano a esistere – parlamenti e Congressi restano in piedi – ma il potere che un tempo contenevano ne fuoriesce, riemergendo dove non possiamo più raggiungerlo.

Il potere politico che dovrebbe appartenere a noi ha imboccato riunioni confidenziali con i lobbisti e i donatori che determinano i limiti del dibattito e dell’azione. E’ scivolato nei diktat del FMI e della Banca Centrale Europea, che non rispondono al popolo, bensì al settore finanziario. E’ stato trasportato, sotto scorta armata, nella roccaforte gelata di Davos, dove Friedman è accolto così calorosamente (anche quando spara cazzate).

Soprattutto, il potere che dovrebbe appartenere al popolo è schiacciato da trattati internazionali. Contratti quali NAFTA, CETA, i proposti Partenariato Transpacifico e l’Accordo sullo Commercio di Servizi e il fallito Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti sono elaborati dietro porte chiuse in discussioni dominate dai lobbisti dell’industria. Essi sono in grado di infilare clausole che nessun elettorato informato approverebbe mai, quali la creazione di opachi tribunali all’estero, attraverso i quali le imprese possono aggirare i tribunali nazionali, contestare le leggi nazionali e pretendere risarcimenti per le conseguenze di decisioni democratiche.

Questi trattati limitano il campo della politica, impediscono agli stati di cambiare le situazioni sociali e abbattono i diritti dei lavoratori, la protezione dei consumatori, la disciplina della finanza e la qualità delle aree. Si prendono gioco della sovranità. Chiunque dimentichi che abbatterli è stata una delle principali promesse di Donald Trump non capirà perché la gente sia stata disposta a rischiare così tanto eleggendolo.

Anche a livello nazionale il modello McDonald’s distrugge la democrazia significativa. La democrazia dipende da un senso reciproco di fiducia e appartenenza: la convinzione che appartieni alla nazione e che la nazione appartiene a te. Il modello McDonald’s, sradicando l’attaccamento, non avrebbe potuto essere progettato meglio di così per cancellare tale percezione.

Come Tom Wolfe osserva nel suo romanzo Un uomo vero, “il solo modo in cui potevi dire di aver lasciato una comunità ed essere entrato in un’altra era quando le catene in franchising cominciavano a ripetersi e individuavi un altro 7-Eleven, un altro Wendy’s, un altro Costco, un altro Home Depot”. L’alienazione e l’anomia che questa distruzione dei luoghi promuove sono rafforzate dalla precarietà del lavoro e da un regime demoralizzatore di controllo, quantificazione e valutazione (in cui capita che McDonald’s eccella). Disastri della salute pubblica contribuiscono al senso di rottura. Dopo essere scese per decenni, ad esempio, le percentuali di mortalità tra gli statunitensi bianchi di mezza età stanno ora salendo. Tra le cause probabili ci sono obesità e diabete, dipendenza da oppiacei e malattie del fegato, malattie i cui vettori sono le industrie.

Le industrie, sciolte dai limiti democratici, ci conducono al disastro climatico, una minaccia urgente alla pace globale. McDonald’s ha fatto più della sua parte: la produzione di carne è tra le cause più potenti del cambiamento climatico.

Nel suo libro ‘Il paradosso della globalizzazione’  l’economista di Harvard, Dani Rodrik, descrive un trilemma politico. Democrazia, sovranità nazionale e iper-globalizzazione sono mutuamente incompatibili. Non si possono avere contemporaneamente tutte e tre. La McDonaldizzazione toglie spazio alla politica nazionale. Incoerente e pericoloso come spesso è, il contraccolpo globale contro i politici convenzionali è, al suo centro, un tentativo di riaffermare la sovranità nazionale contro le forze della globalizzazione antidemocratica.

Un articolo di Matt Stoller sulla storia del partito Democratico sulla rivista The Atlantic ci ricorda che una scelta simile fu articolata dal grande giurista statunitense Louis Brandeis. “Possiamo avere la democrazia, oppure possiamo avere una ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”. Nel 1936 il membro del Congresso Wright Patman riuscì a far approvare una legge contro la concentrazione del potere industriale. Tra i suoi bersagli c’era l’A&P, la gigantesca catena di supermercati del suo tempo, che stava svuotando cittadine, distruggendo dettaglianti locali e trasformando “commercianti indipendenti in commessi”.

Nel 1938 il presidente Roosevelt avvertì che “la libertà di uno stato democratico non è sicura se il popolo tollera la crescita del potere privato a un punto in cui diviene più forte di quello del suo stesso stato democratico. Ciò, in essenza, è fascismo”. I Democratici consideravano il potere delle imprese come una forma di dittatura. Scissero banche e imprese giganti e incatenarono le catene di negozi. Ciò che sapevano Roosevelt, Brandeis e Patman è stato dimenticato da quelli al potere, compresi giornalisti importanti. Ma non dalle vittime di questo sistema.

Una delle risposte a Trump, Putin, Orban, Erdogan, Salvini, Duterte, Le Pen, Farage e alle politiche che rappresentano consiste nel salvare la democrazia dalle imprese transnazionali. Consiste nel difendere la cruciale unità politica che è sotto attacco da parte delle banche, dei monopoli e delle catene commerciali: la comunità. Consiste nel riconoscere che non c’è un pericolo maggiore per la pace tra le nazioni che un modello industriale che schiaccia la scelta democratica.

 


Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-golden-arches-theory-of-decline/

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