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Camminare

Henry David Thoreau

 

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Vorrei spendere una parola in favore della Natura, dell'assoluta libertà e dello stato selvaggio, contrapposti a una libertà e a una cultura puramente civili; vorrei considerare l'uomo come abitatore della Natura, come sua parte integrante, e non come membro della società. Desidero fare un'affermazione estrema, e per questo sarò enfatico: la civiltà ha già fin troppi paladini; il pastore, il comitato scolastico, e ciascuno di voi potrà assumersi questo compito.

 

Nel corso della mia vita ho incontrato non più di una o due persone che comprendessero l'arte del Camminare, ossia di fare passeggiate, che avessero il genio, per così dire, del vagabondare, termine splendidamente tratto da "genti oziose che nel Medioevo percorrevano il paese chiedendo l'elemosina con il pretesto di recarsi à la Sainte Terre", in Terra Santa, sin quando i bambini cominciarono a gridare: «Ecco là un Sainte-Terrer», un Vagabondo, un Terra Santa. Coloro che non giungono mai in Terra Santa, nei loro vagabondaggi, come invece pretendono, sono degli autentici oziosi e dei perdigiorno; ma coloro che vi giungono sono Vagabondi come io intendo, nel senso buono. E però altri fanno derivare la parola da sans terre, "senza terra" o "senza casa", e questo, nel senso buono, può significare "sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa in nessun luogo". Ed è questo il segreto dell'autentico vagabondare. Chi se ne sta tutto il tempo seduto in casa può essere il più grande giramondo; ma il vagabondo, nel senso buono, non è più giramondo di un fiume, con le sue anse, alla strenua ricerca della via più breve per giungere al mare. Tuttavia io preferisco la prima derivazione, che è in realtà anche la più probabile. Perché ogni vagabondaggio è una sorta di crociata, predicata dal san Pietro l'Eremita che è in noi, per indurci a uscire e riconquistare la Terra Santa dalle mani degli infedeli.

È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai nostri giorni, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni. Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.

 

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Senza dubbio il temperamento, e soprattutto l'età, hanno la loro importanza. Quando un uomo invecchia, la sua capacità di rimanere seduto quietamente e di svolgere mansioni tra le quattro mura si accresce. Le sue abitudini si fanno vespertine a mano a mano che egli si approssima al crepuscolo della vita, sino a quando esce di casa solo poco prima del tramonto, e tutto il camminare che gli è necessario si riduce a una passeggiata di mezz'ora.

Ma il camminare di cui io parlo non ha nulla a che vedere con l'esercizio fisico propriamente detto, simile alle medicine che il malato trangugia a ore fisse, o al far roteare manubri o altri attrezzi; è, il camminare di cui parlo, l'impresa stessa, l'avventura della giornata. Se volete fare esercizio, andate in cerca delle sorgenti della vita. Come è possibile far roteare dei manubri per tenersi in salute, mentre quelle sorgenti sgorgano, inesplorate, in pascoli lontani!

E dovete camminare come il cammello, l'unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: «Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta».

 

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Alcuni non camminano del tutto; altri camminano lungo le strade maestre; pochi attraversano i campi. Le strade son fatte per i cavalli e per i mercanti. Io, al contrario di loro, non percorro le strade, perché non ho fretta di raggiungere una locanda, o una drogheria, o una stalla, o un magazzino qualsiasi a cui esse conducono. Sono un buon cavallo da viaggio, non sono un cavallo da tiro. Il pittore di paesaggi traccia figure umane per indicare l'esistenza di una strada. Ma della mia persona non potrebbe fare un simile uso. Io cammino nella natura come gli antichi profeti e poeti, Menu, Mosè, Omero, Chaucer. Chiamatela America, se volete, ma non è America; i suoi scopritori non furono né Amerigo Vespucci, né Colombo, né altri. È la mitologia a darne il resoconto più autentico, e non la storia d'America di cui siamo a conoscenza.

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Quí intorno, attualmente, la parte migliore della terra non è proprietà privata; il paesaggio non appartiene a nessuno, e il camminatore gode di una relativa libertà. Ma verrà forse il giorno in cui questa terra sarà smembrata in parchi per così dire di svago, di cui solo pochi godranno in modo limitato ed esclusivo, in cui i recinti saranno moltiplicati, e altre invenzioni respingeranno gli uomini sulla strada pubblica, e camminare sulla terra di Dio significherà attraversare senza permesso la terra di qualche gentiluomo. Godere di qualcosa in modo esclusivo generalmente significa essere esclusi dal suo autentico godimento. Approfittiamo dunque delle opportunità a noi offerte, prima che giungano tempi peggiori.

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Lasciatemi vivere dove desidero, da questa parte c'è la città, da quella la natura selvaggia, e con sempre maggior frequenza io lascio la città e m'inoltro nella natura. Non insisterei tanto su questo se non fossi certo che qualcosa di analogo accade alla maggior parte dei miei conterranei. Devo camminare verso l'Oregon, non verso l'Europa. E in quella direzione si muove la nazione; oserei dire che l'umanità progredisce dall'est verso l'ovest. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un fenomeno migratorio verso sudest, nella colonia australiana; ma questo ci interessa solo in quanto movimento retrogrado e, a giudicare dalle qualità fisiche e morali della prima generazione di australiani, non sembra che l'esperimento abbia avuto successo. I tartari orientali ritengono che non vi sia nulla a ovest, oltre il Tibet. «Il mondo finisce qui,» dicono «più oltre vi è soltanto un mare sconfinato.» Quello in cui vivono è un Oriente assoluto.

Andiamo a est per comprendere la storia, per capire le opere artistiche e la letteratura, percorrendo a ritroso il cammino della razza; andiamo a ovest come verso il futuro, con spirito intraprendente e avventuroso. L'Atlantico è una sorta di fiume Lete, e l'attraversarlo ci ha consentito di dimenticare il Vecchio Mondo e le sue istituzioni. Se non riusciamo questa volta, c'è forse un'ultima possibilità prima che la razza umana approdi alle rive dello Stige; e questa possibilità è il Lete del Pacifico, tre volte più vasto.

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Humboldt venne in America inseguendo il sogno giovanile di una vegetazione tropicale, e lo realizzò compiutamente nell'incontro con la foresta originaria dell'Amazzonia, il luogo più grandiosamente selvaggio della terra, che egli ha poi descritto con tanta eloquenza. Il geografo Guyot, anch'egli europeo, si spinge più lontano, più lontano di quanto io sia in grado di seguirlo, se non quando dice: «Come la pianta è fatta per l'animale, come il regno vegetale è fatto per quello animale, così l'America è fatta per il Vecchio Mondo... L'uomo del Vecchio Mondo intraprende il suo cammino. Dopo aver lasciato gli altopiani asiatici, si avvicina per tappe successive all'Europa. Ogni avanzamento è caratterizzato da una civiltà superiore alla precedente, da una maggiore capacità di sviluppo. Giunto all'Atlantico, egli sosta sulle rive di questo oceano sconosciuto, di cui ignora i confini, e ritorna per un istante sui suoi passi». Dopo aver esaurito il ricco suolo dell'Europa, e aver rinvigorito se stesso, «riprende dunque la sua corsa avventurosa verso Occidente, come nelle epoche passate». Questo sostiene Guyot.

 

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La vita è stato selvaggio. Quel che è più vivo è più selvaggio, e quel che non è ancora soggetto all'uomo lo rinvigorisce. È come se colui che si è spinto avanti incessantemente, senza mai cercare riposo dalle proprie fatiche, crescendo saldo e chiedendo molto alla vita, si fosse trovato sempre in paesi sconosciuti, in luoghi selvaggi, circondato dal materiale grezzo della vita. Come se si fosse inerpicato sui rami degli alberi della foresta primitiva.

La speranza e il futuro per me non sono nei prati e nei campi coltivati, non sono nei villaggi e nelle città, ma nelle paludi mobili e impervie.

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Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere o a cui possano far ricorso. Lo stesso accade per l'uomo. Un centinaio di anni fa lungo le strade si vendeva la corteccia degli alberi delle nostre foreste. Nella semplice scorza di quegli alberi ruvidi e primitivi c'era, io ritengo, qualcosa di fondamentale che rinvigoriva e consolidava le fibre del pensiero umano.

Ah, rabbrividisco se confronto quel tempo all'attuale degenerazione della vita nel nostro villaggio, in quest'epoca in cui non si è in grado di raccogliere un pezzo di corteccia di spessore adeguato, e in cui non si producono più né pece né terebinto!

Le grandi civiltà — la Grecia, Roma, l'Inghilterra — sono sorte sul terreno imputridito delle antiche foreste primitive, e da esso hanno tratto nutrimento. Esse sopravvivono sin tanto che la terra non si esaurisce. Povera cultura umana! Ben poco si può sperare da una nazione che abbia esaurito la propria matrice vegetale e che sia costretta a far concime delle ossa dei suoi padri, dove il poeta si nutre solo del proprio grasso superfluo e il filosofo del proprio midollo.

 

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In letteratura ci attrae solo ciò che è selvaggio. Quel che è domestico annoia. E il pensiero selvaggio, libero dagli schemi della civiltà, che ci affascina nell' Amleto, nell' Iliade, nelle Scritture e nelle mitologie, e non è qualcosa che si impari nelle scuole. L'anatra selvatica è più veloce e più bella dell'anatra domestica, e ugualmente può dirsi del pensiero libero che, come l'anatra selvatica, al calar della rugiada si leva alto sopra la palude. Un libro veramente buono è qualcosa di naturale, di insospettatamente e inesplicabilmente puro e perfetto, come un fiore cresciuto nelle praterie dell'Ovest o nelle giungle dell'Est. Il genio è una luce che squarcia le tenebre, come il balenare del fulmine, che può distruggere il tempio stesso della conoscenza; non è un lumicino acceso al focolare della razza umana, che impallidisce al sopraggiungere della luce di un giorno qualunque.

 

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