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28/07/2016

 

Borges: la letteratura come battaglia e i magnifici idioti

di Livio Santoro

 

Sono passati trent’anni da quando Jorge Luis Borges si è spento a Ginevra, lontano dalla sua Buenos Aires ma al centro di un’Europa altrettanto sua. A celebrare l’anniversario con un omaggio di rilievo allo scrittore ci hanno pensato le edizioni SUR, traducendo un volume utilissimo a chi voglia cercare di orientarsi nel mondo eclettico e vertiginoso di Borges. Si tratta de “Il fattore Borges” di Alan Pauls, pubblicato nel 2016 con la traduzione italiana di Maria Nicola.

 

Come molti scrittori argentini nati dopo il 1950 e incapace di rispettare il desiderio di Borges di essere dimenticato una volta sopraggiunta la morte, Pauls ha dovuto scrivere del maestro, e lo ha fatto con l’inclinazione di chi, al cospetto di un’opera multiforme, voglia offrire un indirizzo di lettura a coloro che vi si avvicinino, una mappa per orientarsi in un mondo sublime, per quanto esteso e complesso, che lungi dall’appartenere all’astrattezza delle immutabili regioni delle idee dimostra invece una profonda contestualizzazione militante nello spazio e nel tempo, una disposizione combattiva a «trasformare la letteratura in campo di battaglia, i libri in armi, le parole in fendenti». La letteratura, per il Borges di Pauls, serve a mettere in chiaro che il pensiero, quando si fa dominante, unico, è faccenda assai frustrante, e va combattuto.

A tale disposizione combattiva si presta infatti una lunga panoplia che in sé compendia diverse possibilità che la letteratura ha di darsi; perché la produzione dello «scrittore più battagliero della letteratura argentina» ha spaziato dalla poesia al racconto breve e brevissimo, dal commento alla recensione, dall’antologia alla saggistica, dal prologo alla traduzione, lasciando consapevolmente da parte l’arma totale e definitiva del romanzo, quasi a voler sostenere che questo, dominatore assoluto dell’agone letterario ottocentesco, non sia adeguato a supportare una metodologia letteraria che fa della guerriglia del pullulare dei discorsi il suo primo motivo.

Nel raccontare Borges, Pauls comincia proprio dal principio, ossia dal 1899, anno di nascita dello scrittore, tempo postremo del morente secolo del romanzo che ha cercato con un colpo di coda di appropriarsi del maestro. Da giovane, ricorda Pauls, Borges dichiarò in più occasioni di essere nato invece nel Novecento (esattamente nel 1900), come se questa breve traslazione anagrafica, atto di volontà poetica, potesse collocarlo nell’era che, in modo più o meno pertinente, viene chiamata modernità:

 

Modesta o superflua […], l’Operazione Ringiovanimento soddisfa tutte le condizioni perché uno stratagemma possa definirsi borgesiano. È un intervento sul passato, la prova domestica che il tempo […] è fatto di pieghe e anfratti, di anacronismi, di piccoli prodigi retrospettivi. È un intervento minimo, discreto, decisamente antispettacolare; […] mobilita il minimo delle forze per ottenere il massimo dell’effetto, e in questo potrebbe essere il paradigma assoluto dello stile: cambiare il mondo toccando appena una virgola. Ed è un intervento vagamente delittuoso: alterando la lettera di ciò che è scritto, Borges intende cancellare un destino fatale e sostituirlo magicamente con un altro, dettato dalla convenienza, modellato sulle esigenze del presente. […] L’anno guadagnato da Borges per la sua biografia è esattamente l’anno che gli serve per essere moderno.

 

La piccola menzogna borgesiana, detta quando lo scrittore aveva circa venticinque anni, quindi in pieno afflato avanguardista, è dunque per Pauls la cifra di tre elementi che strutturano l’opera di Borges: il tempo, il dettaglio e il delitto. Tre elementi che, coniugati in maniera pertinente, aiutano a interpretare quanto è uscito dalla penna di Borges.

 

Il delitto, per esempio, che quando si fa duello (la danza di coltelli nella pampa gauchesca o nel suburbio bonaerense che popola le pagine dell’argentino dagli esordi fino alla maturità) rappresenta per Borges «la versione in miniatura della narrazione», perché in grado di racchiudere in un singolo evento, minimo e circoscritto, un’intera biografia, condensando così nella ristrettezza della poesia o della narrazione breve interi percorsi biografici di personaggi veri, presunti o semireali (la «riduzione dell’intera vita di un uomo a due o tre scene», scrive Borges nella sua prefazione a Storia universale dell’infamia). E forse è proprio da questa costante fascinazione verso il delitto e la centralità dell’attimo esemplare che in Borges nasce e si struttura l’amore per il poliziesco inteso quale metodologia tesa a dipanare le linee convergenti nella totalità dell’attimo delittuoso, nella sfida che esso presuppone e su cui si adagia.

Infatti il poliziesco, in Borges, nasconde proprio la necessità di dar peso al secondo degli elementi sopra richiamati: il dettaglio. Praticare il genere del crimine, con la sua tensione verso il chiarimento dell’elemento apparentemente irrilevante e marginale, è anche dar seguito alla furente disposizione «kamikaze» alla lettura che Borges ha sempre manifestato con fierezza, perché prima di essere scrittore, egli era infatti monastico lettore («gli altri si vantino per le pagine che hanno scritte; / io vado orgoglioso per quelle che ho lette», scrive in Un lettore, incluso in Elogio dell’ombra). Il lettore, come dirà poi Roberto Bolaño, è il vero poliziotto. Leggere allora vuol dire proprio indagare, scomporre il mondo, sottoporlo a critica costante (spesso per assurdo), assegnare la giusta misura al dettaglio, a quel formidabile punto di vista offerto dall’elemento minuscolo che dietro di sé cela le parti oscure del non detto – del non pensato – rendendosi strumento necessario dell’ellissi e portandoci alla consapevolezza che al di là di una singola cosa ce ne sono innumerevoli, spesso contraddittorie eppure concorrenti in un unico disegno di sintesi. «Borges – scrive Pauls – fin dai suoi primi anni associa la lettura alla percezione, all’identificazione e alla cattura di ciò che è minuscolo. […] Nel caso di Borges non c’è lettura che non richieda una sensibilità microscopica, un’attenzione scrupolosa al dettaglio, un’avidità per questi semi infimi, quasi impercettibili, in cui le pagine dei libri depositano la loro carica di senso».

L’attenzione al dettaglio, in questo senso, può essere intesa come atto di resistenza, come rifiuto della totalità definitivamente considerata. E proprio nell’arte della lettura, prima ancora che in quella della scrittura, Borges palesa la sua dimensione militante, terribilmente moderna e antimoderna allo stesso tempo. Perché il dettaglio, una volta letto e scovato, può essere usato proprio come arma: conferisce senso alla totalità e, quando sostituito, la riveste di un significato nuovo. «Leggere, indubbiamente, non è altro che promemonizar, dettagliare: smontare un tutto nelle sue parti e seguire passo passo i fili di senso che si tendono tra le diverse parti». In quest’ordine di idee, non vi è nulla di definitivo, nulla che non modifichi il proprio senso mutando di contesto: il dettaglio è in Borges misura del tutto. È così che una recensione può diventare racconto in base al volume in cui il testo è raccolto (si prendano le vicissitudini de L’accostamento ad Almotasim), che una pedissequa opera di copiatura può tramutarsi in scrittura (si legga Pierre Menard, autore del Chisciotte), che la finzione può tramutarsi in realtà (come nel caso degli hrönir in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius).

 

È esattamente nella fertilità del dettaglio che Pauls legge in sottotraccia tutto il maestro. Fino a ventilare in conclusione l’affascinante ipotesi che l’esoterico Borges, uomo accecato dalle profonde e perturbanti luminosità libresche, sia stato in realtà soprattutto un divulgatore, un evangelizzatore dell’arte sovversiva (né obbligatoria né necessaria) della lettura: l’unica in grado di maneggiare il dettaglio stesso, di dargli il giusto peso in ragione di una sorta di etica investigativa. Ipotesi che, seguendo esattamente la metodologia veritativa borgesiana, pur entrando in conflitto con altre ipotesi concorrenti (quelle che comunemente si utilizzano per interpretare il Borges esoterico), potrebbe convivervi senza problemi. L’essenza della contraddizione proposta da Borges e discussa da Pauls parla così di un mondo nuovo, un altrove appena percepibile che si trova al di là del sistema di pensiero su cui si fonda l’Occidente (il centro dell’Occidente), uno spazio posto appena oltre il margine della nostra coerenza in cui trovare, tramite l’umorismo, il gioco, il dislocamento e l’irriverenza (arti dell’azione sul dettaglio care a Borges) nuove possibilità di pensiero insature e molteplici, allo scopo di diffondere una sorta di agnosticismo pratico in grado di sminuire il valore degli universali e di qualsiasi concetto definitivo. Non è infatti un caso, come ricorda in chiusura del suo volume Pauls, che da uno dei giochi sovvertitori e irriverenti di Borges (la tassonomia di animali ne L’idioma analitico di John Wilkins), dalla risata da esso provocata nell’illustre lettore, sia nato uno dei libri più influenti del pensiero occidentale contemporaneo: Le parole e le cose di Michel Foucault.

Spingendosi così in un simile scenario adatto alla pratica del disorientamento, Borges popola la sua letteratura di personaggi testardi, apostoli abbacinati dal dettaglio, innovatori inveterati alle prese con la totale riformulazione delle categorie condivise dalla contemporaneità (per citare solo i più celebri si ricordino: Nils Runeberg, sostenitore dell’identità tra Giuda e Dio; Pierre Menard, copista e autore del più famoso libro di Cervantes; Ireneo Funes, ideatore di un inutile sistema di enumerazione). Personaggi che proprio per la loro testardaggine, per la loro inclinazione a rifiutare l’impianto del pensiero comune partendo dal dettaglio, altro non sono che magnifici idioti, predicatori cocciuti e irriverenti di idee che stanno al margine delle cose per come le conosciamo. Ed è qui che ritroviamo anche la vocazione borgesiana al fantastico, perché proprio in tale sconvolgimento c’è il perturbante, la reazione dei lettori che rivendicano tenaci l’arte minima dell’interrogazione impertinente non adattandosi al mondo concluso dato loro in dotazione. Si tratta di avanguardisti dell’ironia, pazzi di furia intellettuale inclini allo sperimentalismo. Dipingendo simili caratteri al modo di idioti inveterati, sostiene Pauls, Borges non intende scagliarsi contro gli «“sperimentalismi” delle avanguardie, quanto piuttosto [contro] l’arrogante, lunatica fertilità di un’epoca [la nostra] che preferisce considerarli dimenticati».

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