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Fonte: http://www.liberazione.it

31 maggio 2009

 

Doppio stato, storia e memoria

di Marco Clementi

 

Lo Stato imperialista delle multinazionali non esisteva. Le Br cominciarono ad averne un chiaro segnale nei giorni del rapimento di Aldo Moro, quando il loro ostaggio rispondeva alle domande del processo senza cogliere gli intrecci che sottintendevano i brigatisti. Essi pensavano che ci fosse non già uno Stato nello Stato, ma un Sovrastato, potenziato e guidato dagli Stati Uniti, in grado di coordinare le politiche nazionali dei vari paesi del blocco occidentale. Quel mondo, pensavano i rapitori di Moro, stava andando verso una svolta strutturale che ne avrebbe mutato alle fondamenta le caratteristiche. Sarebbe cominciata la delocalizzazione del lavoro, la ristrutturazione della produzione e il primato del capitale finanziario su quello produttivo. Ma il processo non era irreversibile. Nella loro ipotesi, bastava scoprire gli ingranaggi, gli uomini, i referenti dello Sim per fermarlo e Moro era uno di questi.

Si trovano, nella teorizzazione dello Sim, grandi intuizioni e capacità di lettura della realtà (fu ipotizzata nel 1975), ma anche terribili ingenuità. La divisione del mondo in buoni e cattivi, in sodali e vittime innocenti non appartiene a una realtà complessa, che deve sempre tenere conto di moltissime forze, spesso in competizione, per restare in equilibrio. Quest’ultima considerazione si attaglia anche alla cosiddetta teoria del doppio Stato, recentemente tornata attuale dopo un intervento del presidente Napolitano e gli articoli di noti giornalisti, in particolare del vicedirettore del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Secondo alcuni, in Italia avrebbe a lungo convissuto un sistema nel quale lo Stato ufficiale sarebbe stato solo la parte visibile, emersa dell’intero apparato; alle sue spalle, nascosto, avrebbe agito un secondo Stato, che sarebbe coinvolto in un complesso disegno eversivo che partirebbe addirittura dalla strage del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, per dipanarsi attraverso tutta la storia italiana del secondo dopoguerra.

Un secondo Stato, dunque, all’interno del quale intere generazioni di funzionari, militari e civili, si sarebbero passate il testimone del complesso disegno. Questa ipotesi, che spesso diventa certezza in alcuni racconti, ha un grande pregio, ossia quello della semplificazione estrema: da una parte i democratici fedeli al dettato costituzionale, dall’altra i reazionari antidemocratici che pur di portare a termine il proprio sogno eversivo non hanno esitato a mettere bombe, depistare, assassinare personaggi divenuti scomodi. Per contro, i difetti sono molti, e tutti molto marcati. Uno studioso non può certo accontentarsi di una teoria senza riscontri, anche se a prima vista possa tornare o, comunque, risolvere molti problemi. E i riscontri, per il doppio Stato, mancano. La filiera non è mai completa, i fatti si contraddicono, gli attentati e i depistaggi, veri o presunti, si accavallano senza una logica. Quando è stata scoperta la P2, molti ritennero che si fosse giunti alla testa del mostro. Poi, però, si è scoperto che in realtà i piduisti non erano dei golpisti, ma degli ultratlantisti, patrioti a modo loro, anzi, patrioti secondo molti parametri. La stessa delusione la diede Gladio; a capo Marrargiu non ci si addestrava per commettere attentati, ma per organizzare la resistenza armata contro l’invasione dell’esercito ungherese, quello destinato all’Italia in caso di guerra con il Patto di Varsavia. L’Italia sarebbe stata divisa in due e la resistenza concentrata, in attesa dei nostri, in Sicilia e Calabria.

Se manca il nucleo di questo secondo Stato, ridurre tutto a uno Stato nello Stato, inoltre, impedisce allo storico e all’osservatore di cercare le responsabilità politiche che si sono succedute nel corso degli anni, di analizzare gli episodi al di fuori di contesti più ampi (per esempio internazionali), riducendo la storia italiana a mero complotto. La strage di Ustica e la copertura che è stata fatta del tentativo di uccidere il leader libico Gheddafi sui cieli italiani è paradigmatica di quanto vado qui sostenendo. Gli Stati Uniti non solo fallirono l’obiettivo, ma per errore provocarono l’abbattimento di un aereo di linea dell’Itavia e 81 morti civili. Le strutture dell’Aeronautica Militare italiana coprirono l’accaduto, ma poi la politica, tutta la politica, da sinistra a destra, mantenne il segreto sui fatti e a distanza di quasi trent’anni ancora non abbiamo una versione ufficiale da parte del nostro Stato. Davvero ne serve un secondo per coprirci di vergogna? Si è trattato di uno dei maggiori, se non del maggiore depistaggio della storia repubblicana, eppure non compare mai tra le prove dell’esistenza di questo doppio Stato. Sarà perché a noi Gheddafi piace particolarmente se, a parte gli accordi antimigranti degli ultimi mesi, addirittura il nostro presidente del Consiglio di allora, Bettino Craxi, lo avvertì nel 1986 dell’imminente bombardamento americano del suo quartier generale.

Se tutto questo è vero, però, non si può certo liquidare così la questione, né si può concordare pienamente con lo spirito delle parole del presidente Napolitano, che chiede una generica ricerca della verità senza assumersi la responsabilità di una posizione; neanche l’articolo liquidatorio di Battista, del resto, ci soddisfa, perché quanti, allora come oggi, ritennero quella di Piazza Fontana una “strage di Stato”, cosa molto criticata dal giornalista, avevano e hanno motivi a sufficienza per farlo. E non bastano certo le parole di un presidente della Repubblica per superare il problema. Da quando, mi chiedo inoltre, la storia devono scriverla i politici?

Pierpaolo Pasolini poco prima di morire stava lavorando alla stesura di un grande romanzo, Petrolio , che non riuscì a terminare. È la storia dell’Italia malata, dell’Italia delle stragi e delle morti violente, all’interno della quale si muovono persone reali, con nomi e cognomi e funzioni vere, non presunti attori mascherati o vestiti di ombre. In quei mesi Pasolini dichiarò di sapere i nomi dei mandanti, di conoscere i luoghi da dove erano partiti gli ordini delle stragi. Era il suo mestiere, disse, quello di conoscere queste cose, perché era uno scrittore.

Questa storia è stata ricostruita in un recente libro, Profondo Nero , uscito per Chiarelettere da poco. L’Italia, sapeva Pasolini, è un paese fatto di tanti piccoli, a volte miserrimi interessi, che vanno tenuti insieme attraverso piccoli spostamenti, aggiustamenti appena percettibili. Qual è la logica per cui la nostra fedeltà alla Nato si è manifestata anche attraverso le bombe e gli attentati? La matrice degli attentati che hanno prodotto la carneficina che conosciamo è di destra. Esistono dei nomi, dei processi, delle condanne, delle prove al riguardo. In alcuni casi siamo certi, come per Piazza Fontana, in altri, come per Bologna, sorgono dei dubbi. Di materiale esplosivo e volontà eversiva fu piena l’Italia del dopoguerra. I gruppi neofascisti cominciarono a formarsi già dal 25 aprile e si svilupparono in particolare al Nord, dove infine negli anni Sessanta si passò all’azione. In determinanti momenti forze esterne, come poteva essere la Cia, o interne, come singoli uomini all’interno dei servizi, istigarono, o lasciarono fare, o coprirono post factum. Per questo Piazza Fontana è strage di Stato e per questo la Stazione di Bologna è stato un attacco preciso al nostro paese da parte di un nemico, interno o forestiero. Grazie a contingenze internazionali e a capacità interne il paese ha retto, nonostante tutto. Ora, da un po’, navighiamo a vista, senza attentati ma con il pericolo incombente di veder realizzato per volere del popolo quello che non riuscì agli eversori di destra. In quel caso non si potrà più usare la parola “doppiostato”, ma populismo. Dubito che chi ancora grida alla luna se ne renda conto per tempo.

 


Marco Clementi Storico, autore di La “pazzia” di Aldo Moro, Odradek 2001, Storia delle Brigate rosse, Odradek 200

Liberazione, pp. 13

4 giugno 2009

 

La tesi del “doppio Stato” non è una barzelletta

di Aldo Giannuli,

 

Il 30 maggio 2009, Marco Clementi ha pubblicato sul quotidiano Liberazione un articolo in cui ritorna sul dibattito sul “doppio Stato” in corso in questo periodo. Questo l’articolo in risposta apparso, sempre su Liberazione, di Aldo Giannuli.

Si sta facendo molta confusione a proposito del “doppio Stato”, sovrapponendo superficialmente significati ed usi dell’espressione. Il termine, come categoria teorica, venne elaborato da Ernst Fraenkel in riferimento alla Germania nazista, venne poi ripreso e usato in senso più generale da autori come Wolfe o, più recentemente, Klitsche de la Grange. Altri (De Felice ed il sottoscritto) hanno svolto una riflessione teorica in riferimento al caso italiano, peraltro con esiti divergenti. Altri ancora (Casarrubbea, De Lutiis, Tranfaglia, Ginsborg ecc.) la hanno utilizzata incidentalmente e con sfumature molto diverse. Infine esiste un uso da caffè dello sport per il quale il doppio Stato, come dice Pier Luigi Battista, è “la chiave per svelare ogni segreto”, il racconto cospirazionista della nostra storia repubblicana, nella quale ci sarebbero stati due apparati statali: uno visibile e legale l’altro coperto e criminale che muoveva i suoi burattini sul teatrino di una finta democrazia. Dello stesso avviso mi pare Marco Clementi (“Liberazione” 30 maggio). Ognuno è libero di scegliersi gli obiettivi della propria polemica e, se si vuol restare sul piano del bar dello sport, lo si può benissimo fare; l’importante è dirlo. Se invece si vuole polemizzare ad un altro livello, occorre mettersi all’altezza dal punto di vista delle conoscenze.

Ad esempio, tanto il lavoro di De Felice che il mio, pur divaricando fortemente, muovono dallo stesso rifiuto di complottismi e dietrologie come strumenti di interpretazione idonei, in particolare in un caso complesso come quello italiano, segnato dalla compresenza di una democrazia vera e vitale con gravi patologie politiche come lo stragismo, la forte corruzione politica,  i tentativi di colpo di Stato, ecc.  La teoria del “doppio Stato” segnala questa tensione che non vi sarebbe, se la democrazia fosse solo una finzione teatrale, come Battista e Clementi fanno dire ai loro antagonisti. Dunque, essa è il tentativo di superare ogni complottismo per trovare sul piano sistemico una spiegazione dell’accaduto.

Peraltro, non ho mai pensato, detto o scritto che il “doppio Stato” coincida con una qualche organizzazione, istituzionale (come i servizi segreti) o privata (come la P2), legale  o illegale, perché esso non è un soggetto ma un processo. Lo Stato duale non consiste neppure in una doppia rete istituzionale, una legale, l’altra segreta e illegale o in una immaginaria “cupola” politico-criminale che tutto dirige e tutto manovra. Semmai è uno stato di fatto nel quale cupole grandi e piccole di politici corrotti, mafiosi, ufficiali sleali, finanzieri corsari ecc possono trovare spazio. E mi sembra di ricordare che in Italia non siano mancati e non manchino né politici corrotti, né ufficiali sleali, né mafiosi, né finanzieri corsari. O vi risulta diversamente? Peraltro, a differenza di De Felice, non credo che il doppio Stato coincida con la doppia lealtà allo stato italiano ed agli Usa. Insomma un organismo come la P2 o il “noto servizio” possono esistere (e sono esistiti), così come comportamenti servili nei confronti degli Usa di interi settori di apparati istituzionali possono verificarsi ( e si sono verificati), ma non vanno scambiati per la sostanza del fenomeno, che va al di là di tutto questo.

A questo proposito conviene essere chiari sino in fondo. Fra i militanti della sinistra è serpeggiato in questi anni un mito autoconsolatorio, per il quale le sconfitte politiche subite si spiegano proprio con l’esistenza del “doppio Stato”, inteso, appunto, come apparati occulti e sovranità limitata dagli Usa. Insomma: se gli altri non avessero giocato sporco, la sinistra avrebbe vinto da un pezzo e sarebbe stata la naturale classe dirigente del paese. Questo è un grave errore che ostacola la formazione di un giudizio storico obiettivo. La sinistra non ha mai superato il 45% dell’elettorato non perché glielo abbiano impedito Gelli, De Lorenzo o Sindona, ma perché non è riuscita a costruire il consenso e la rete di alleanze necessarie e, quando è stata ad un passo dal riuscirvi (fra il 1976 ed il 1979) ha fatto la scelta della solidarietà nazionale, che si è rivelata disastrosa. Avremo modo di discutere in altra occasione le ragioni della sconfitta epocale della sinistra italiana, ma intanto sgomberiamo il campo da questo mito costruito su un uso improprio della teoria del “doppio Stato”.

La rilevanza del tema è un’altra: il giudizio sul funzionamento della nostra democrazia. Quello che è inseparabile dalla fenomenologia dello Stato duale è il funzionamento extra o anti-ordinamentale di alcuni apparati istituzionali. Dunque, non un doppio apparato, ma un modo duplice di funzionare dello stesso apparato. Quello che, mi sembra,  ha ricevuto abbondantissime conferme da quel che è emerso sia in sede giudiziaria che parlamentare o storiografica: non si è trattato dell’occasionale devianza di un certo numero di funzionari, alti ufficiali o ministri (quel che accade in ogni epoca ed in ogni paese), ma di disfunzioni sistemiche, per cui la nostra è una democrazia vera, che poggia su un solido consenso popolare, ma presenta delle patologie che vanno analizzate. La democrazia non è l’Immacolata Concezione, per cui può benissimo subire dei processi degenerativi. Saperli riconoscere è il primo passo. La teoria del doppio Stato cerca di fornire un contributo in questo senso, può darsi che sia errata o insufficiente, discutiamone, ma, per cortesia, non fermiamoci agli slogan e cerchiamo di leggere i libri prima di parlarne.

 

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