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19 settembre 2016

 

Contro la Theory. Una provocazione

di Barbara Carnevali

 

Un simulacro di filosofia, la Theory, si aggira per i dipartimenti del mondo intero. Non stiamo parlando dell’opera di un autore particolare, dal momento che molti acclamati theorist sono pensatori a tutti gli effetti, e nemmeno dell’autorevole scuola filosofica che ha rivendicato l’appellativo di Teoria Critica; ma di quella specie di scolastica postmoderna nota a chiunque insegni una materia umanistica all’università: un amalgama di idee e formule di varia provenienza disciplinare (prevalentemente filosofia, psicanalisi e sociologia), estratte da un canone di autori disparati ma accumunabili in una generica postura radicale (Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Agamben, Said, Spivak, Butler, Žižek, l’onnipresente Benjamin, l’uscente Derrida, la new entry Latour…), fuse in un solo crogiolo e ridotte a un’agenda tematica angusta: il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo, etc.

Che sia chiaro da subito. L’obiettivo polemico di quest’articolo non è un autore, un libro e nemmeno una specifica corrente teorica. È una modalità di pensiero, una scolastica, appunto, che nel corso degli ultimi decenni si è declinata in combinatorie variabili conservando una forma costante. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, la Theory ha attraversato diverse fasi, dall’originaria sintesi di marxismo e psicanalisi, al mix di decostruzione, heideggerismo, cultural e post-colonial studies, fino alle metamorfosi più recenti, nutrite di foucaultismo, gender e queer studies, biopolitica e lacanismo[1]. L’invenzione recente di un’«Italian Theory», come la Nottola di Minerva, ha segnato il passaggio in cui questo processo, prima latente e ricostruibile solo a posteriori, non solo è venuto alla luce – il disvelamento si è compiuto nell’intelligente libro di François Cusset[2] – ma è diventato addirittura programmatico.

Oltre che per la sua natura di bricolage di seconda mano, la Theory si riconosce e definisce pragmaticamente, per l’uso che ne viene fatto. A coltivarla è chi, spesso a partire da settori disciplinari attigui alla filosofia, come la letteratura comparata, la teoria e critica dell’arte, gli studi culturali, cerca di giustificare le proprie ricerche all’interno di un quadro problematico più vasto del settore di specializzazione, e più “impegnato”, cioè rivolto a una considerazione critica del presente. Gli insegnanti di estetica, ad esempio, si sono accorti da tempo che esiste una tipologia di studente che non viene a lezione per esaminare un problema, appropriarsi di un ragionamento filosofico o leggere approfonditamente un classico, ma per conquistare pezze di appoggio per il commento di un testo letterario o di un film (se non addirittura per la creazione in proprio di un’opera d’arte[3]); può capitare che questi studenti protestino se il seminario non produce prontamente “teorie” spendibili, o se mette in dubbio il valore di quelle in voga. A differenza infatti della filosofia, che ha tempi lunghi e frustranti, e che di rado approda a qualche confortante certezza, la Theory è rapida, vorace e tranciante – e anche per questo funziona bene come lingua comune e terreno di aggregazione transdisciplinare. La sua dimensione ideale è quella del “reader”, il libro fatto per citare libri che non si sono letti, e in cui l’aspirante teorico digiuno di filosofia, che non ha mai scorso una pagina di Platone o di Hegel, e tantomeno intende farlo, può trovare una silloge di idee prêt-à-porter con cui imbottire paper universitari velocemente e superficialmente.

Un altro uso pragmatico della Theory permette di circoscrivere un secondo tipo di pubblico, la comunità politica che rilegge selettivamente i classici della storia della filosofia per aggiornare la vecchia agenda politica del marxismo. L’intenzione con cui questa categoria di lettori radicalizza tempi e modi della filosofia politica è ovviamente molto diversa, e del tutto rispettabile, ma l’effetto sul piano della formazione di una scolastica di pensiero è purtroppo simile: lo mostrano la corrente che si definisce biopolitica e quella del neo-spinozismo radicale, due esempi attuali di come la Theory militante tenda a confluire facilmente in quella prodotta in ambito accademico (e viceversa). Da entrambi i punti di vista, la produzione teorica nostrana sotto le etichette di «Italian Theory» e di «Italian Thought» sembra incarnare un’abile mossa di anticipo: dal momento che Spinoza è entrato nel canone dei theorist, perché non Dante, Machiavelli, o persino Leopardi e Leonardo da Vinci?, che vengono così proposti come prodotti da esportazione teorica nazionale in versioni interpretate ad hoc. Il rischio di questi ritratti preconfezionati è che evitano al lettore la fatica di farsi domande fondamentali – ad esempio se il Principe non presenti tratti un po’ autoritari, o se dall’Etica di Spinoza e dallo Zibaldone di Leopardi non spuntino idee sulla natura e sulla vita umana difficilmente conciliabili con la critica del biopotere. Queste sono domande da filosofi, o, più precisamente, da chi legge i testi con spirito filosofico. Ed è proprio questo genere di questioni che la Theory permette di aggirare.

Vorrei che queste prime considerazioni fossero accolte alla luce di altre precisazioni importanti. La prima riguarda le cause del dilagare della Theory, problema che mette in questione l’ethos del lavoro intellettuale e della ricerca di verità – si perdoni la formula altisonante ma inaggirabile –, su cui torneremo in chiusura; ma che non può limitarsi a una polemica moralistica contro chi si accontenta di una cultura teorica scadente o la produce per opportunismo, interesse commerciale o semplice desiderio di riconoscimento. Il fatto è che, come esistono gli habitus filosofici e le relative pratiche distintive (e non c’è differenza, in questo senso, tra la postura radicaleggiante del theorist e quella scientista del tipo “analitico”) così esistono anche le mode filosofiche, a cui è sempre così difficile sottrarsi a titolo personale che diventa antipatico e ipocrita denunciarle negli altri: con l’aggravante che, come ammoniva già Georg Simmel, mentre siamo disposti ad ammettere la nostra sudditanza nei confronti della moda in dimensioni futili come l’abbigliamento, quando si tratta dei valori seri della religione, della scienza, della politica e della filosofia, tutte sfere in cui dovrebbero imporsi considerazioni “oggettive” e non sociali, prevale comprensibilmente un atteggiamento di diniego o di rimozione. Per ammettere di aver accolto una teoria solo per seguire un trend o per compiacere certe categorie di lettori e vendere libri bisognerebbe essere del tutto ingenui o del tutto cinici. In ogni caso, sono questioni di coscienza individuale, che attraversano la storia del pensiero almeno dai tempi del conflitto tra Socrate e i sofisti, e che non dicono nulla di significativo sull’attualità.

Più interessante è invece chiedersi cosa, nel successo contemporaneo della Theory, rimandi alla grammatica storica della società in cui viviamo. Era inevitabile che anche la filosofia, il sapere elitario per eccellenza, vivesse secondo modalità proprie il processo di livellamento che nell’ultimo secolo hanno subito tutte le altre forme culturali. La Theory, probabilmente, non è altro che una delle incarnazioni possibili del midcult filosofico, una volgarizzazione della filosofia a misura di un pubblico medio, e delle sue, per molti versi legittime, aspettative e richieste. Ma se questo rischio è sempre implicito in ogni produzione culturale, e destinato fatalmente ad aumentare in proporzione ai processi di democratizzazione della cultura, l’aspetto in cui sembra consistere la specificità dei nostri tempi è il salto tra quella che, in passato, era una lettura e reinterpretazione creativa, spregiudicata, imprevedibile, politica, di dottrine filosofiche nella forma di Theory, e l’odierna produzione a tavolino, che palesemente sconfina nell’operazione di marketing. Abbozzando un’analisi sulla scia di Cusset, che ha ricostruito la storia della ricezione negli Stati Uniti della generazione classica di Foucault, Derrida, Deleuze, si potrebbe arrischiare un’ipotesi sempre a partire dall’esempio della biopolitica e del neo-spinozismo: mentre le teorie di Foucault, di Toni Negri, di Agamben, erano il prodotto di un originale percorso teorico, e almeno in un primo momento sono state assorbite dalla Theory con parziale indipendenza dalla strategia di posizionamento degli autori all’interno del campo culturale, si ha l’impressione che la nuova generazione scriva i propri libri in funzione di una tipologia di consumatore americano, e, per effetto di ritorno, del pubblico europeo che sempre più somiglia a quello americano. La pratica degli inviti e delle visiting di filosofi europei nei dipartimenti statunitensi di comparative literature è stata certamente decisiva, e a sua volta dipende da quello che va considerato il peccato originale a livello delle istituzioni: l’espulsione del pensiero continentale dai dipartimenti anglo-americani di filosofia analitica, che ha relegato lo studio del canone filosofico occidentale in quelli di letteratura e di studi culturali. La conseguenza di questo détournement letterario della tradizione filosofica è stata ambivalente: uscendo dalla clausura dello specialismo, l’interpretazione dei testi e delle dottrine filosofiche ha riguadagnato in richieste di significato e in ambizione critica quello che ha perso in solidità e in forza argomentativa. Alla rinuncia alla ricerca del senso e della totalità spesso proclamata dal lato analitico, si è risposto in chiave continentale con la produzione di sintesi superficiali e affrettate – una definizione ironica della Theory potrebbe essere quella di “filosofia sintetica low cost”. Con il risultato di produrre l’esatta reincarnazione postmoderna dell’antinomia tra specialisti senz’anima e profeti della cattedra che paventava Max Weber all’inizio del secolo scorso.

Il che introduce un’altra precisazione. Suggerendo che la Theory sia una sorta di pseudo-filosofia per non filosofi, non intendo sollevare una polemica snobistica contro gli usi extra-disciplinari della filosofia e tantomeno una difesa della corporazione professionale. La “filosofia”, come la intendo, non è una disciplina accademica, non richiede diplomi e nemmeno una formazione specifica, ma è un modo di pensare non scolastico e anticonvenzionale. La letteratura e l’arte ne sono parte integrante, al punto che non esito a definire Proust più “filosofo” di tanti autori che figurano nei manuali di filosofia, come di tanti theorist. Allo stesso tempo, i tentativi di difesa delle frontiere disciplinari mi sembrano pericolosi e anodini: la filosofia universitaria è sempre più afflitta dai limiti che Schopenhauer e Nietzsche avevano denunciato ormai quasi due secoli fa, e avrebbe tutto da guadagnare da una fuga dai dipartimenti come da un dialogo aperto con le altre forme del sapere. Questo dialogo, per dirla ancora con Simmel (uno dei pensatori che hanno praticato con successo l’ibridazione tra le varie forme del sapere senza mai rinunciare alla spregiudicatezza mentale) non solo rimedierebbe alla tragedia di una cultura frammentaria e parcellizzata, sempre più autonoma e distante da quel mondo vitale che l’ha prodotta per rispondere ai propri bisogni, e che solo può restituirle una direzione e un fine; ma compirebbe anche l’irrinunciabile vocazione della filosofia nell’epoca della specializzazione scientifica, ossia la capacità di conservare memoria e nostalgia della totalità. Certo, di questo bisogno di filosofia come ricerca di senso e come aspirazione al tutto sono sintomi proprio le esigenze complementari dello studente di materie umanistiche, e del militante politico, che con ragione ricercano nel “gesto teorico” la stessa cosa: un modo per riavvicinare la cultura alla vita, per costringere il pensiero a ricominciare a rispondere alle domande di significato e di giustizia. Se dunque non c’è nulla di sbagliato nel riproporre quell’attitudine generalista di cui nessuna disciplina, nessun campo di studio e conoscenza può fare a meno, dove sta l’errore? Il passo falso è nel sostituire l’unico gesto teorico veramente radicale, quello filosofico, con il suo scimmiottamento.

La debolezza principale della Theory, infatti, è la perdita di tutti gli attribuiti specifici che hanno fatto la grandezza e la potenza critica della filosofia nelle sue diverse scuole e tradizioni: non ha il rigore, la chiarezza, la solidità definitoria e argomentativa che definisce la pratica dal punto di vista formale; non sa porre domande davvero originali e spiazzanti, e non ha né la voglia né la pazienza di andare a fondo di una questione, perché antepone sempre risposte veloci e pronte all’uso alla fatica del dubbio e del concetto; e ancora – forse il suo limite più imperdonabile – non conosce il gusto di una spassionata ricerca della verità: invece di interrogarsi sulle cose ricercando quella che Marx, seguendo Aristotele, chiamava la «logica specifica dell’oggetto specifico», la Theory compie il gesto inverso: schiaccia la specificità del suo oggetto sulle solite, risapute “teorie”. Restringendo a priori il campo del pensabile e del dicibile (l’essenza della scolastica consiste nell’incapacità di immaginare oltre l’orizzonte del già noto) non solo non oltrepassa la doxa, ma ne produce una di secondo livello. Malgrado la sua proclamata intenzione critica, e anzi, forse proprio per effetto di un desiderio di posizionamento eccentrico e di totalizzazione frettolosa, la sua verità è sempre pre-giudicata, vicina al noto, subliminalmente ideologica: da cui il paradosso di un gesto “radical” che diventa prevedibilmente conformistico. Si sa già come un libro di Theory andrà a finire prima di aprirlo; ed è proprio questo senso di riconoscimento, di conferma morale delle proprie certezze e delle proprie migliori intenzioni, che garantisce il successo della pseudo-teoria. La Theory ci fa sentire a casa nella nostra falsa buona coscienza.

Ora, chi almeno una volta nella vita ha fatto l’esperienza di leggere un libro di filosofia, anche e soprattutto con un interesse non professionale, sa che si tratta di un esercizio tutt’altro che rassicurante ed edificante. Le teorie di Kant, di Nietzsche, di Wittgenstein, non ci fanno sentire a casa, ma perturbano. E ciò che disturba è proprio il crollo, davanti alla nuda e inquietante verità, delle sicurezze intellettuali e morali, di ciò che si vorrebbe fosse vero o che si è sempre ritenuto tale, di ciò che ci permetterebbe di riconoscerci e sentirci confermati nelle nostre convinzioni e nei nostri impegni. Certo, non si può chiedere a ogni lettore di filosofia di vivere lo sconvolgimento di Heinrich von Kleist, che, dopo aver terminato la prima critica kantiana, scriveva alla fidanzata di avere perso ogni motivo per vivere, o di Thomas Buddenbrook, annichilito dal Mondo come volontà e rappresentazione. Ed è altrettanto certo che non solo esistono filosofie meno pessimistiche e più ispirate dal principio speranza, ma che è la natura stessa del gesto filosofico autentico a riattivare la creazione dei possibili, grazie alla sua volontà di epochè contro pregiudizi e luoghi comuni, e alla sua capacità di considerare le cose con quello stupore – o saper guardare il mondo con sguardo straniante – da cui nasce ogni grande teoria.

Insomma: la mia preoccupazione in questo sfogo contro la Theory, che propongo di leggere più come un invito provocatorio alla discussione che come un atto di accusa, è che il pensiero perda la sua ragione di essere riducendosi a un supermercato di idee prefabbricate e modulari da comprare in stock e poi assemblare a casa come i mobili dell’Ikea. Chi cerca la teoria, provi a pensare in modo libero, e solo in quanto tale veramente critico.

 

Note

 

[1] Non è in questione il valore degli autori sopra citati, e nemmeno quello delle varie correnti di «studies» che hanno prodotti bellissimi libri (a cui io stessa mi ispiro per scrivere i miei: da Derrida a Deleuze a Bourdieu, da John Berger a Dick Hebdige). La Theory non è nelle opere dei theorist, ma nel brodo liofilizzato che se ne ricava, senza spesso nemmeno leggerle davvero.

[2] François Cusset, French Theory: Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, Paris, Éd. la Découverte, 2003, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 2012.

[3] Cito alcuni esempi a caso dall’esperienza recente mia e dei miei colleghi: i canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico letti nell’ottica foucaultiana, Botticelli e l’angelo benjaminiano della storia, Machiavelli e l’oikonomia. Per quanto riguarda la creazione artistica, le scuole d’arte e le facoltà di architettura invitano filosofi a tenere corsi che “ispirino” gli artisti, avallando così l’idea che le opere d’arte non siano autonomi esperimenti di pensiero ma semplici illustrazioni di teorie preesistenti, simili a quei regali con sopra il cartellino del prezzo che Proust paragonava alla cattiva arte.

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