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16 Novembre 2016

 

Sweet black Angel. Autobiografia di una rivoluzionaria

di Giovanni Di Benedetto

 

Well, she isn’t no singer

And she isn’t no star

But she sure talk good

And she move so fast

But the gal in danger

Yeah, the gal in chains

But she keep on pushing

Rolling Stones, Sweet black angel

 

Sull’edizione online del New York Times del 3 Novembre scorso, in un articolo intitolato Voters Express Disgust Over U.S. Politics in New Times/CBS Poll Jonathan Martin, Dalia Sussman e Megan Thee-Brenan hanno sostenuto, sulla base di un recente sondaggio della CBS, che la stragrande maggioranza dell’elettorato americano sarebbe stata, letteralmente, disgustata dalla campagna presidenziale. Otto elettori su dieci avrebbero detto che la campagna elettorale è stata di una volgarità respingente e caratterizzata da una crescente tossicità. Ma, soprattutto, è emerso che “Mrs. Clinton, the Democratic candidate, and Mr. Trump, the Republican nominee, are seen as dishonest and viewed unfavorably by a majority of voters” (sia la Clinton, il candidato democratico, che Trump, il candidato repubblicano, sono visti come disonesti e considerati sfavorevolmente dalla maggioranza dei votanti). In queste considerazioni sconfortanti di uno dei più importanti e autorevoli quotidiani americani, che emergono comunque da dati di sondaggi, quindi non si sa quanto attendibili, si condensa tutto il deficit di democrazia, ma anche l’insufficiente opposizione concreta e visibile, che caratterizza ormai in termini cronici, lo scenario politico statunitense. Soprattutto, si manifesta l’assenza della politica, ossia di quella pratica che, pur partendo da interessi parziali, possa configurarsi come forma dell’agire pubblico e comune in grado di cogliere i problemi della società per affrontarli e, eventualmente, risolverli.   

Eppure, ci sono stati anni in cui il mondo dei subalterni si opponeva, anche negli Stati Uniti, alle classi dominanti elaborando pratiche e pensieri autonomi, conflittuali e produttivi di risultati efficaci e vincenti. Era il tempo in cui, per esempio, si affermava, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del secolo scorso, la tradizione radicale nera, una tradizione in grado di elaborare strategie politiche, culturali e storiche di straordinaria importanza. A darcene testimonianza, ancora oggi, a circa mezzo secolo di distanza e al tempo delle elezioni presidenziali più triviali e grottesche della storia americana, è Angela Davis, con la sua Autobiografia di una rivoluzionaria, ripubblicata dalla casa editrice Minimum fax nel corrente 2016. Vale la pena rileggere questo testo, che condensa in sé pagine di intensa letterarietà memorialistica e squarci di lucido e quasi dottrinale insegnamento politico, perché in esso si rifrange l’abissale distanza che separa i drammatici problemi della società americana dalla messa in scena del casting per il nuovo presidente.      

Per altro, non si tratta soltanto della possibilità, consentita dal libro, di procedere alla ricostruzione storica dello scenario politico-sociale degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento, anni nei quali si sviluppano “movimenti sociali e comportamenti collettivi di opposizione, di varie durate ed estensioni e inseriti in un contesto politico-culturale mondiale, che cercano di intervenire sulla realtà per alterarla più o meno profondamente” (Bruno Cartosio, Gli “anni Sessanta” di cui si parla: politica e movimenti sociali, ÁCOMA, Rivista Internazionale di Studi Nordamericani vol. 15, p.7, 1999) ma, altresì, di offrire un punto di vista acuto sui contesti di sfruttamento economico, oppressione razziale e saccheggio coloniale dei giorni nostri. A partire dalla presa d’atto che la comunità afroamericana continua a essere negli USA, e con essa quelle degli ispanici, degli indiani americani, degli islamici, di tutti i gruppi oppressi eccetera, una comunità sotto assedio. In un lungo reportage dello scorso anno pubblicato sul Guardian con il titolo Farewell to America (1.7.2015), Gary Younge sosteneva che i cambiamenti suscitati dalla presidenza del nero Obama, in un sistema istituzionale fortemente condizionato dalle lobby delle multinazionali e nel quale i collegi elettorali sono ritagliati su misura per far vincere determinati interessi, non avrebbero spostato in modo significativo l’ago della bilancia delle disuguaglianze e delle discriminazioni contro le minoranze. Come gli aveva detto Angela Davis, continua Younge, la vittoria di Obama rappresentava “la differenza che non fa nessuna differenza, il cambiamento che non porta nessun cambiamento”. 

Ma cosa può dirci oggi, nel tempo presente, Autobiografia di una rivoluzionaria? Racconta Angela Davis che “in un tiepido pomeriggio di febbraio, Gregory Clark e un suo amico stavano percorrendo Washington Boulevard a bordo di una Mustang ultimo modello. Bevevano gazzosa, con le lattine infilate in sacchetti di carta marrone. Giunti a Vineyard Avenue, vennero fatti accostare al marciapiede da un piedipiatti del dipartimento di Los Angeles; secondo il fratello sopravvissuto, il poliziotto disse che avevano l’aria di essere «fuori posto» al volante di quell’auto. (…) Ordinò ai ragazzi di scendere dall’auto e si accinse ad ammanettarli. Forse Gregory cominciò ad alzare la voce. Forse divincolò bruscamente le mani per impedire al poliziotto di far scattare le manette. Forse non fece nulla. Ad ogni modo, ci fu una breve zuffa, poi Carleson (il poliziotto ndr) gli chiuse le manette ai polsi. La vittima era in suo potere, ma Carleson, secondo i testimoni oculari, buttò Gregory a terra sul marciapiede, e mentre giaceva a faccia in giù, con le braccia ammanettate dietro la schiena, gli sparò alla nuca con un revolver calibro 38” (pp. 189-190).

La descrizione degli abusi di polizia del dipartimento di Los Angeles culminati nell’assassinio del diciottenne Gregory Clark e il racconto della pronta risposta della comunità nera che culmina immediatamente nell’organizzazione di un movimento di protesta ci parlano di quanto è continuato a succedere negli Usa in questi ultimi anni. È una successione interminabile di assassinii, Michael Brown a Ferguson, la strage di Charleston in South Carolina, Alton Sterling a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castle nei pressi di St. Pauli in Minnesota, Keith Lamont Scott a Charlotte nel North Carolina e tantissime altre vittime, casi meno noti ma altrettanto drammatici e dall’esito omicida. L’ondata di abusi commessi dalle forze di polizia contro afroamericani disarmati è incessante e sconcertante. E negli ultimi mesi la tensione sociale si è accresciuta al punto tale da sfociare in scontri, sparatorie, disordini e guerriglia urbana.

Angela Davis ha avuto sempre chiara la consapevolezza che il capitalismo statunitense è strutturalmente connesso alla discriminazione razziale e alla supremazia bianca. “Non si trattava solo della repressione politica, ma del razzismo, della povertà, della violenza poliziesca, della droga e di tutti gli infiniti mezzi con cui i lavoratori Neri, Bruni, Rossi, Gialli e bianchi venivano tenuti incatenati alla miseria e alla disperazione” (p. 406). Povertà, assenza di istruzione e privazione dei diritti sociali elementari colpiscono soprattutto i neri che rappresentano la parte più debole della società. E non è un caso se il sistema delle carceri rappresenti, entro questo contesto, il dispositivo securitario con il quale una gran massa di uomini e donne di colore viene privata dei propri diritti e delle proprie libertà. Discriminazione economica e discriminazione razziale vanno incessantemente di pari passo. 

Angela Davis ha sempre rivendicato la parzialità del proprio punto di vista, il posizionamento di una donna nera e comunista. Tuttavia, questo sguardo situato col quale guardare ai problemi di una società fondata sulla disuguaglianza economica e razziale non le ha impedito di maturare il riconoscimento che solo una politica di movimento, dal basso e di massa, in grado di formulare un fronte unitario di lotte e rivendicazioni, poteva conseguire risultati e produrre un avanzamento delle lotte. “Volevamo che la manifestazione di massa in cui doveva culminare la campagna accomunasse tutte queste lotte in una sola, unitaria dimostrazione di forza. Separati, i diversi movimenti – prigionieri politici, riforme sociali, liberazione nazionale, lavoro, donne, antimilitarismo – potevano suscitare temporali qua e là. Ma la possente unione di tutti sarebbe riuscita a scatenare il grande uragano capace di radere al suolo l’intero edificio dell’ingiustizia” (p. 406). Lo stesso Black Panther Party, col quale Angela Davis collabora brevemente, prima di allontanarsene, aspirava, sostiene Paolo Bertella Farneti, alla “unificazione dei gruppi neri nazionalisti e al progetto di un fronte comune di liberazione con le altre componenti del movimento radicale.” (Black Panther Party: dalla rimozione alla storia, ÁCOMA, Rivista Internazionale di Studi Nordamericani vol. 15, p.61, 1999). Ciò che più rendeva pericoloso il BPP era il suo intervento sociale nei territori che “sembrava davvero in grado di trasformare in organizzazione antagonista disciplinata la rabbia spontanea dei ghetti, che in quegli anni scoppiavano in sanguinose rivolte” (ibidem p.61). 

Il pregio del pensiero e delle pratiche radicali della Davis è consistito nell’avere la capacità di intrecciare la politica molecolare con le questioni di respiro generale. È stato un modo particolare di declinare la pratica del “partire da sé”, nonostante Angela Davis, per anni, abbia guardato con un certo scetticismo alle questioni di genere. Col tempo, però, è maturata un’altra consapevolezza e si sono intrecciate, in questo modo, analisi critica del sistema patriarcale, del potere razziale, dello sfruttamento coloniale e del dominio economico del capitalismo. Soltanto con l’intersezione dei differenti momenti del conflitto, da quello di genere a quello razziale, da quello economico a quello ambientale, diventa possibile mettere in discussione il dominio locale e, ad un tempo, globale del capitalismo. La generazione e l’evoluzione del movimento nero radicale Black Lives Matter (le vite dei neri sono importanti), a cui Angela Davis ha dato una significativa adesione, sta a dimostrare che la costruzione di uno spettro di lotte incardinate sul tema della razza, ma anche su quello del genere e della classe, non è impossibile. 

Autobiografia di una rivoluzionaria è anche, infine, il racconto di una metamorfosi personale che scava, fin dalle origini esistenziali, nel profondo della presa di coscienza della propria appartenenza alla comunità nera, fin da quando, da ragazzina, la Davis viveva con la propria famiglia nel Sud razzista del paese. Una metamorfosi che fa i conti, nel tentativo di operare una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario razzista, con tutte le ambiguità con cui deve misurarsi, e le doppiezze che deve combattere, chi cerca di elaborare da sé un pensiero autonomo e radicale ad un tempo: “verso il mondo dei bianchi, io e i miei amici d’infanzia non potevamo fare a meno di assumere un atteggiamento ambivalente. Da un lato stava l’avversione istintiva verso chi ci impediva di realizzare i nostri desideri, dai più insignificanti ai più ambiziosi. Dall’altro c’era l’invidia non meno istintiva che ci veniva dalla consapevolezza di tutte le cose piacevoli che a noi erano negate. Da piccola, non potevo fare a meno di provare una certa invidia. Eppure ricordo con estrema chiarezza di aver deciso, molto presto, che non avrei mai – e su questo ero categorica – mai coltivato o espresso il desiderio di essere bianca. Ma questa promessa che mi ero fatta non serviva a scacciare i sogni a occhi aperti che mi riempivano la testa ogni volta che i miei desideri si scontravano con un tabù. Così, per non contraddire i miei principi, elaborai una fantasticheria in cui mi mettevo addosso una faccia bianca e andavo senza tanti complimenti al cinema, al parco dei divertimenti e dovunque volevo” (pp. 99-100). Trovo, in questa capacità autocritica, in questa forza di fare i conti con i propri limiti, trasfigurando la complessità di ciò che si è, una grandezza notevole, paradossale, davvero troppo umana. Nella presa di coscienza del proprio sentimento ambivalente nei confronti della cultura dominante, si può rintracciare lo strenuo tentativo di codificare una cultura della resistenza desegregazionista, lo sforzo di elaborare l’abnegazione personale, il rigore etico e la dirittura morale per farne modello di riferimento, per sé ma soprattutto per gli altri. Per contraddittorio che possa apparire, visto che si tratta di un’opera che si fonda sulla memoria personale, il messaggio che ci consegna Autobiografia di una rivoluzionaria è che la condizione di possibilità per essere autenticamente rivoluzionari passa, anche, per la capacità di lavorare su se stessi, negandosi come eroi solitari, combattendo dunque contro quel simbolico, oggi dominante, che veicola un’idea della storia come frutto di un’azione esclusivamente personale e individuale.   

 

In una recente intervista, a chi le chiedeva se avesse esplicitato il proprio endorsement per Hillary Clinton, Angela Davis, sorvolando sul quesito, ha dichiarato che c’è bisogno di un partito di sinistra nuovo in grado di combattere realmente il razzismo, inteso come un dispositivo funzionale all’oppressione economica, e che è sempre di più necessario un movimento di massa in grado di contrastare le disuguaglianze; un movimento grande e unitario che sia radicato nei bisogni del mondo del lavoro, nella lotta per una sanità e per una scuola pubblica decenti, per la fine dell’occupazione da parte della polizia della comunità nera, per la risoluzione del problema delle carceri piene di prigionieri neri, e che prenda una ferma posizione contro la guerra. È per tutte queste ragioni che, quando mi è stato chiesto quasi per gioco, da un conoscente originario degli Stati Uniti, se avessi preferito la Clinton o Trump ho risposto, quasi senza pensarci, che, se avessi potuto, avrei lottato al fianco di Angela Davis, auspicando, magari, la sua elezione a presidente simbolico degli Stati Uniti Socialisti.

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