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23 settembre 2016

 

Geopolitica dell’apocalisse

di Andrea Muratore

 

L’8 novembre prossimo, gli americani sceglieranno il presidente nella cui amministrazione inizierà la storia degli USA dopo il “secolo americano”, il leader che dovrà adattarsi all’oramai consolidato multipolarismo e, di conseguenza, elaborare strategie geopolitiche idonee a garantire al meglio gli interessi degli Stati Uniti nel mondo senza perdersi nei voli pindarici riguardanti la perpetrazione di una leadership globale oramai decaduta.

 

I mesi conclusivi del secondo mandato presidenziale di Barack Obama e di avvicinamento alle elezioni statunitensi dell’8 novembre possono essere considerati il tratto conclusivo del viale del tramonto del “secolo americano”, imboccato dagli USA nell’ultimo decennio a seguito del rovinoso fallimento delle strategie geopolitiche portate avanti da Washington nel nuovo millennio, incentrate sull’ostinata perpetrazione del mito sbiadito dell’unipolarismo. I rovinosi rovesci subiti dalla politica internazionale degli Stati Uniti durante le amministrazioni Bush e Obama sono stati accompagnati dall’erosione della tradizionale influenza di Washington in numerose aree di cruciale importanza geopolitica, dal tramonto dell’egemonia del dollaro sulla scia della grande crisi del 2008, dell’ascesa di nuovi potentati economici e dall’incapacità palese di elaborare nuove e più realistiche vie di azione in campo geopolitico da parte dei vertici istituzionali USA.

Lo stesso Barack Obama, negli ultimi anni, non ha saputo comprendere appieno i cambiamenti di primaria importanza verificatesi tra il primo e il secondo decennio deli XXI secolo, e ha perennemente oscillato tra posizioni ambivalenti: l’ex Senatore dell’Illinois, infatti, da un lato non ha potuto non riconoscere l’avvenuta ascesa di Russia e Cina al rango di potenze planetarie e il progressivo declino dell’America “gendarme del mondo”, ma dall’altro ha alimentato il progetto unipolare in più occasioni, non discostandosi a sufficienza dalla linea tracciata da George W. Bush e contribuendo di conseguenza a accelerare le difficoltà degli USA sullo scenario internazionale. L’intervento contro Gheddafi nel 2011, le reiterate minacce alla Siria di Assad nel 2013 e, più di ogni altra cosa, la contrapposizione frontale con Mosca, ravvivata da Obama anche a poche settimane dal termine del suo secondo mandato nel discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sono stati i frutti tarlati di strategie mal congegnate, e hanno contribuito a una pericolosa destabilizzazione del contesto internazionale in nome della perpetrazione di uno stato di cose divenuto già obsoleto nel momento in cui Washington operava per il suo rafforzamento. Al tempo stesso, l’amministrazione Obama ha lavorato in continuazione allo sviluppo dei trattati di libero scambio su entrambe le sponde oceaniche del continente americano: la conclusione del Partenariato di Scambi Transpacifico (TPP) è stata tuttavia controbilanciata con forza dalla brusca frenata dei negoziati sul TTIP, che hanno dimostrato apertamente le difficoltà in cui si dibatte oggigiorno lo sviluppo della globalizzazione.

In questo contesto si inserisce dunque l’oramai prossimo appuntamento presidenziale. L’8 novembre prossimo, gli americani sceglieranno il presidente nella cui amministrazione inizierà la storia degli USA dopo il “secolo americano”, il leader che dovrà adattarsi all’oramai consolidato multipolarismo e, di conseguenza, elaborare strategie geopolitiche idonee a garantire al meglio gli interessi degli Stati Uniti nel mondo senza perdersi nei voli pindarici riguardanti la perpetrazione di una leadership globale oramai decaduta. Gli USA, interessati da aspre tensioni interne e costretti ad assistere a un’evoluzione dello scenario internazionale completamente divergente rispetto alle previsioni dei loro governanti, dovranno necessariamente adattarsi al mutato contesto e, dunque, riqualificare la propria dottrina militare, diplomatica ed economica al fine di preservare al meglio i propri interessi. Se infatti gli Stati Uniti continueranno a leggere le principali questioni internazionali attraverso gli specchi distorsori del progetto di egemonia unipolare, numerosi scenari delicati (dal Mar Cinese Meridionale al sempre tormentato Medio Oriente) potrebbero conoscere escalation imprevedibili, mentre sul versante economico le forti resistenze conosciute in tutto il mondo dai piani di apertura incondizionata degli scambi dovranno portare necessariamente a una revisione dei percorsi della globalizzazione.

La storia della fine del “secolo americano”, in effetti, può essere letta essenzialmente come la storia della fine della “via unica alla globalizzazione”, oramai non più considerabile come una mera estensione dell’ideologia neoliberista a tutto il pianeta, ma da declinare necessariamente attraverso le numerose sfaccettature generate dall’intervento dei nuovi attori dello scenario internazionale. Il progetto di una nuova “Via della Seta” sviluppato dal governo cinese, ad esempio, è esemplificativo della sempre maggiore voce in capitolo giocata in questo ambito dal governo di Pechino, con il quale gli USA stanno sviluppando una relazione ambigua basata su un’ondivaga alternanza di accordi e attriti che la prossima amministrazione dovrà necessariamente regolarizzare. Alla luce delle dichiarazioni dei due candidati alle presidenziali di novembre, Hillary Clinton e Donald Trump, lo scenario sembra profilarsi come antitetico rispetto a quello che sarebbe da ritenere ottimale per la stabilità dello scacchiere internazionale: entrambi i candidati, di fatto, non hanno intenzione di recedere dall’idea retorica e perniciosa di un’America arrembante, in costante ricerca della grandezza perduta, destinata a riguadagnare, quasi per diritto divino, la sua influenza sul resto del mondo. Da un lato, l’ex First Lady è fortemente sostenuta da numerosi esponenti delle lobby economiche vicine al complesso militare-industriale, ha alle sue spalle un mandato da Segretario di Stato costellato da diverse scelte politiche interventiste e non ha mai mancato di fare appello alla volontà di riscossa degli USA nei suoi discorsi. La recente convention del Partito Democratico è stata in tal senso altamente significativa, e ulteriori dubbi sono prodotti dall’ambigua vicinanza di svariati esponenti neoconservatori all’entourage politico della Clinton, tra i quali si segnalano per attivismo Robert Kagan, uno dei principali fautori dell’invasione dell’Iraq nel 2003, e Michelle Flournoy, potenzialmente candidata alla guida del Pentagono in caso di vittoria democratica.

In opposizione alla Clinton, Trump si presenta come fautore di posizioni decisamente più isolazioniste, ha espresso più volte i suoi dubbi sull’utilità della NATO, propone di recedere dal tradizionale interventismo militare e si è dichiarato favorevole a un dialogo con paesi rivali come Russia e Corea del Nord. Il tycoon newyorkese ha dunque individuato efficacemente alcune distorsioni della politica internazionale americana degli ultimi anni, ma al tempo stesso stenta a inserire le sue intuizioni in una più ampia visione d’insieme. La geopolitica made in Trump, infatti, risponde in ogni caso alla logica di una politica di potenza ed è funzionale all’attuazione dello slogan Make America Great Again! in nome del quale il candidato repubblicano ha sbaragliato la concorrenza nelle primarie partitiche: l’economia, o meglio la competizione economica, diviene nella visione del candidato repubblicano la punta di lancia della nuova avanzata americana, che Trump immagina rivolgersi principalmente in direzione del contrasto del ruolo di potenza economica planetaria oramai ricoperto dalla Cina.

Partendo da premesse diverse da quelle della Clinton, Trump giunge sostanzialmente a conclusioni molto simili in tema di politica estera; il multipolarismo, la nuova dialettica diplomatica e le nuove interconnessioni politico-economiche che inferiscono la moderna geopolitica hanno poco spazio nel dibattito odierno statunitense, coinvolgente un pubblico poco abituato a ragionare di un mondo nel quale gli USA non siano il centro di massa, per nulla avvezzo a rinunciare a una retorica oramai stantia nella quale l’America ricopre il ruolo di faro della civiltà e del progresso mondiale. Si nota dunque quanto pervasivo e profondo sia stata l’opera di irreggimentazione e strumentalizzazione della religione civile statunitense ai fini degli interessi di una ristretta élite politica operata dai vertici neoconservatori dell’amministrazione Bush nei primi anni Duemila, la cui onda lunga ancora si riflette a quindici anni di distanza. L’idea degli USA depositari del Bene per eccellenza, principio fondante della teorizzazione ideologica del “secolo americano”, è ben lungi dal tramontare anche nel frangente storico in cui quest’epoca conosce il suo canto del cigno. Nei prossimi anni, gli Stati Uniti dovranno essenzialmente prendere coscienza del loro mutato ruolo nel mondo: i candidati del 2016, tuttavia, non sembrano essersi resi conto del mutato contesto storico o, per ragioni di tattica politica, fingono di non aver notato gli sconvolgimenti degli ultimi anni.

Chiunque trionferà nelle presidenziali dell’8 novembre, comunque, dovrà essere in grado di elaborare in tempi rapidi piani d’azione più coerenti con la presente situazione e le reali potenzialità degli USA, che per quanto considerevoli non sono affatto illimitate, specie sul piano militare ed economico (per non parlare dell’influenza diplomatica in numerose aree calde come il Medio Oriente, settimana dopo settimana sempre più traballante e incerta). Sarà bene che Trump e la Clinton si rendano conto al più presto delle imperfezioni macroscopiche dei loro sistemi geopolitici: il risveglio a cui potrebbe costringerli la realtà dei fatti dopo l’elezione, infatti, potrebbe essere brusco e causa di conseguenze spiacevoli per gli Stati Uniti.

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