Il Manifesto

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02 gen 2016

 

Attacco a Tel Aviv, dubbi sulla pista politica

di Michele Giorgio

 

Ieri un palestinese israeliano, Nashat Milhem, ha aperto il fuoco contro i clienti di un pub di via Dizengoff uccidendone due. Nel suo villaggio, Arara, lo descrivono come “instabile”. Anche la polizia israeliana, almeno fino a ieri sera, non trovava conferme alla pista politica o a un coinvolgimento dell’Isis. Intanto tra la fine e l’inizio d’anno sono stati uccisi altri due palestinesi in Cisgiordania.

 

Gerusalemme, 2 gennaio 2016, Nena News –

 

Centinaia di uomini della polizia erano impegnati ieri sera a Tel Aviv nelle ricerche di Nashat Milhem, un palestinese israeliano di Arara, in bassa Galilea, che ieri pomeriggio ha aperto il fuoco contro il pub HaSimta in via Dizengoff, nel centro della città, uccidendo due persone e ferendone altre sette. Di lui si sono perse le tracce dopo l’attacco.

Le misure di sicurezza indicate alla popolazione in un primo momento sono state allentate in tarda serata poichè Milhem non sarebbe più armato, ha fatto sapere la polizia che non è stata in grado di confermare la pista politica o quella della criminalità organizzata (a Tel Aviv non sono infrequenti gli omidici in strada di malavitosi). Poi si è appreso che a riconoscere Milhem è stato il padre – un volontario della polizia — osservando con attenzione le immagini dell’attacco trasmesse dalle televisioni locali. L’uomo ha subito avvertito le autorità.

La tesi dell’attentato “politico” solleva dubbi. L’assalitore, secondo gli abitanti di Arara, è noto come una persona “instabile” con seri problemi psichiatrici, con alle spalle una condanna al carcere e appartenente a una famiglia che in passato si è trovata al centro di indagini per possesso di armi. Nadim Milhem, un cugino di Nashat Milmeh, fu ucciso nel 2006 durante un raid della polizia contro la crimininalità locale. Lo stesso ministro per la sicurezza interna, Gilad Erdan, ieri sera ha riconosciuto la mancanza, sino a quel momento, della prova definitiva di una azione armata di tipo nazionalistico, inserita nell’Intifada in corso da inizio ottobre. Inoltre non è arrivata alcuna rivendicazione.

Circola però anche l’ipotesi di un attentato di Daesh (Isis) che nei giorni scorsi, per bocca del suo califfo al Baghdadi, minacciando un po’ tutti ha preso di mira anche Israele. Presunti tweet di Daesh peraltro avevano annunciato l’attacco a Tel Aviv ma la stessa polizia israeliana li ha definiti poco credibili. Si è parlato anche di una copia del Corano ritrovata nello zaino dell’assalitore, non conosciuto però come un islamista radicale. In serata la polizia ha rimosso dal web la sua pagina Facebook per capire se abbia ricevuto ordini dall’estero. Di sicuro si sa soltanto che Nashat Milhem ha sparato da solo, usando un mitra “Falcon” di fabbricazione italiana, un tipo di arma raro in Israele e nei Territori palestinesi occupati, che, secondo gli esperti, richiede per l’uso una notevole perizia.

Milhem in ogni caso ha mostrato una notevole dose di sangue freddo. È entrato a volto scoperto in un negozio di alimentari adiacente al pub HaSimta. Le immagini girate da una telecamera di sorveglianza lo mostrano che si comporta come un cliente qualsiasi, prende degli ortaggi e va verso la cassa, poi ci ripensa e li riporta indietro. Quindi procede verso l’uscita, estrae con calma la sua arma e balza in Via Dizengoff sparando una trentina di colpi su una dozzina di persone che stavano festeggiando un compleanno. Tra urla e gente che fugge in cerca di salvezza, Milhem si allontana a piedi lasciandosi dietro nove persone ferite, due delle quali, Shimon Rawimi e Alon Bakal, sono morte appena giunte all’ospedale. Gli scampati ai colpi hanno raccontato scene di panico, di persone che hanno cercato riparo dietro i tavoli rovesciati. «Non dimenticherò mai il sorriso stampato sul volto del killer», ha riferito una ragazza. Altri hanno detto di aver temuto un attacco come quello di novembre al Bataclan di Parigi.

Sullo sfondo della sparatoria al pub di Tel Aviv, nei Territori palestinesi occupati prosegue lo stillicidio di vite palestinesi. Ieri all’alba è spirato Shadi Ghabish, 38 anni, a causa di complicazioni legate alla ferita subita all’inizio del mese scorso durante un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jalazone, vicino a Ramallah. Il 31 dicembre invece i soldati avevano ucciso, nei pressi dello svincolo di Hawara, Hassan Bozor, un palestinese di Arraba (Jenin) che avrebbe tentato, secondo la versione del portavoce israeliano, di investire con la sua automobile alcuni militari.

Intanto i comandi israeliani hanno deciso di riconsegnare alle rispettive famiglie i corpi di 23 palestinesi uccisi nelle ultime settimane, 17 dei quali a Hebron e nelle località vicine. In un primo momento gli israeliani avevano pensato di non restituire i corpi degli uccisi, per infliggere una punizione, assieme alla demolizione delle case, alle famiglie degli attentatori. Una “deterrenza”, così la definiscono i vertici politici e militari di Israele, che però ha finito per esasperare gli animi e ha dato vita a nuove proteste palestinesi. In Cisgiordania si è formato un comitato popolare che chiede la restituzione dei corpi e ha già tenuto manifestazioni a Hebron e davanti alle mura della città vecchia di Gerusalemme Est.

 

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