Haaretz

3 gennaio 2016

 

Israele è sempre stato un Paese xenofobo, solo che è sempre riuscito a nasconderlo.

di Gideon Levy

traduzione di Amedeo Rossi

 

Ben prima del primo ministro Benjamin Netanyahu e del ministro della Giustizia Ayelet Shaked non c’era una vera democrazia in Israele. C'era molto odio nei confronti degli arabi, ma, a differenza di oggi, tutto era nascosto. Per cui, cos'è meglio?

 

Così eravamo, molto prima che Naftali Bennett [esponente del partito di estrema destra "Casa ebraica". Ndtr.] diventasse ministro dell'Educazione: figli di nazionalisti, chiusi su se stessi, piuttosto ignoranti - solo che non lo sapevamo. Nei magnifici anni in cui i ministri dell'Educazione erano di sinistra - gli anni che si è soliti rimpiangere - era già così.

Il lavaggio del cervello, la censura e l'indottrinamento erano molto peggio allora di quanto lo siano oggi, solo che l'opposizione nei loro confronti era molto minore. Pensavamo che tutto andasse bene nel nostro sistema educativo. Il venerdì ci dovevamo vestire in bianco e azzurro, i colori nazionali; noi donavamo al Fondo Nazionale Ebraico (Keren Kayemeth LeIsrael), in modo che piantasse boschi per coprire le rovine dei villaggi arabi che non volevano che vedessimo.

Nei tempi in cui la scrittrice Dorit Rabinyan [autrice di "Borderline", romanzo sull'amore tra un palestinese e un'israeliana a New York e vietato nei curricula scolastici israeliani. Ndtr.] non era ancora nata, non avevamo mai incontrato un arabo. Vivevano sotto la legge marziale e non avevano il permesso di avvicinarsi a noi senza un'autorizzazione. Una storia d'amore tra un ebreo e un arabo non sarebbe neppure stata presa in considerazione come una storia di fantascienza, che si svolgesse in una lontana galassia, molto lontano da dove noi stavamo crescendo. I drusi erano un po' più accettabili: facevano il servizio militare [vietato ai cittadini israeliano-palestinesi. Ndtr.]. Ricordo il primo druso che ho incontrato: era in terza liceo.

Non avevamo neppure mai sentito parlare della Nakba, il termine palestinese per indicare la formazione dello Stato di Israele. Vedevamo case in rovina - e non vedevamo niente. Molto prima del "matrimonio dell'odio" [festa di matrimonio in cui estremisti ebrei hanno esibito mitra e la foto del neonato palestinese bruciato vivo dai coloni trafitta dai coltelli. Ndtr.],  durante i nostri falò per il Lag Ba’omer [festività religiosa ebraica. Ndtr.] bruciavamo immagini del presidente Gamal Abdel Nasser - lo chiamavamo il "Tiranno egiziano". Nelle scuole laiche di Tel Aviv, baciavamo la Bibbia se, guai a noi, cadeva per terra. Portavamo le kippah negli studi biblici, molto prima che venissero istituiti i "centri per l'approfondimento dell'identità ebraica." A mala pena avevamo sentito parlare del Nuovo Testamento. Nessuno avrebbe pensato di studiarlo a scuola: era considerato altrettanto pericoloso del "Mein Kampf".

Molti di noi sputavano quando attraversavano la porta di una chiesa. Pochi di noi osavano entrarvi e, se lo facevamo, ci sentivamo in colpa. Farsi il segno della croce, persino per scherzo, era considerato un suicidio. Per noi i cristiani erano "idolatri" - e gli idolatri, per quanto ne sapevamo, erano il peggio che ci fosse. Sapevamo che a Giaffa c'era una "missione", da cui ci dovevamo tenere lontani come se fosse fuoco. Un bambino che fosse andato a studiare là era considerato perduto.  La prima generazione dell'indipendenza sapeva che ogni cristiano è un antisemita. Sapevamo, naturalmente, che noi eravamo il popolo eletto e l'alfa e l'omega. Questo ci veniva inculcato dall'illuminato sistema educativo del nascente Stato.

L'assimilazione era considerata il peggior peccato - persino peggiore che lasciare il Paese e andarsene a vivere altrove. La voce che lo zio di uno dei bambini si era sposato con una non-ebrea era considerata una disgrazia da tener segreta. L'agghiacciante significato del macabro concetto di "assimilazione" non ha mai neppure sfiorato le nostre menti. Siamo cresciuti in una società unificata, razzialmente pura, in quella piccola Tel Aviv senza stranieri, senza arabi, praticamente senza ebrei di origine mediorientale. Giaffa [città israeliana con una presenza significativa di palestinesi. Ndtr.] era in capo al mondo, e nessuno pensava di andarci: era pericoloso.

Ci insegnavano a pensare in modo uniforme e a diffidare di ogni deviazione. La discussione più sovversiva che posso ricordare di quei giorni era se gli ebrei "andarono al macello come pecore." Una volta mi sono fermato vicino ad una piccola manifestazione dell'organizzazione di sinistra  Matzpen [sinistra antisionista, fondata in Israele nel 1962. Ndtr.] sui gradini di Beit Sokolov, la sede dell'Associazione Israeliana dei Giornalisti, per parlare con N., che era un mio compagno di classe. Il giorno dopo, sono stato chiamato d'urgenza nell'ufficio del vicepreside: tirò fuori una foto di me nella manifestazione -  che gli aveva consegnato lo Shin Bet, il servizio di sicurezza - e mi chiese spiegazioni. Ciò molto prima della legge "sulle ONG" e sul "boicottaggio" [si riferisce ad una legge per controllare i finanziamenti dall'estero delle ONG israeliane di sinistra e contro i sostenitori israeliani del BDS. Ndtr.].

Molto prima del primo ministro Benjamin Netanyahu, del ministro della giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra "Casa ebraica". Ndtr.] e della messa al bando del libro "Borderlife" di Rabinyan, qui non c'era una vera democrazia. Molto prima dell'anti-assimilazionista Bentzi Gopstein [seguace del rabbino razzista Kahane e direttore di Lehava, associazione antiassimilazionista. Ndtr.] e dell'attivista di destra Itamar Ben-Gvir [leader del partito ultra-nazionalista Otzmah e avvocato difensore di uno dei sospetti dell’omicidio della famiglia Dawabsha. Ndtr.], qui c'era la xenofobia e molto odio nei confronti degli arabi. Ma tutto questo era nascosto, avvolto nel rumoroso cellophane di scuse, sepolto in profondità nella terra.

E cosa è meglio? E' una questione che rimane aperta.

 

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