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domenica 10 luglio 2016

 

L'infame attacco terroristico e l'altra faccia del Bangladesh

 

Le magliette e gli abiti che riempiono le grucce di noti brand costringono donne e bambini a orari di lavoro disumani e condizioni di vita precarie. Un retroscena trascurato

 

L'attentato a Dacca è il solito infame attacco terroristico cui non si può rispondere che con una condanna ferma. Sempre premettendo che l'Isis è una complessa conseguenza di scelte geopolitiche, militari ed economiche decise in Occidente, oltre alla componente fondamentalista religiosa (di qualsiasi religione si parli, il fondamentalismo non porta mai a niente se non a questo tipo di derive).

Detto ciò, la cortina di pudore con cui la cronaca ha raccontato la tragedia e i retroscena della vita e della morte delle nove vittime italiane, lascia un retrogusto amaro, perché nessuno o quasi si è soffermato sulle motivazioni per le quali queste persone si trovassero a Dacca, in Bangladesh. Ho letto che era gente che lavorava sodo e lunghi sermoni su uno dei sopravvissuti, ma nulla che portasse in superficie l'antipatico rovescio della medaglia.

 

Di fatto non può non saltare alla mente, e la stampa ne ha tenuto conto con un velo di riserbo e distacco, quel fastidioso particolare risaputo che l'industria tessile italiana, e non solo italiana, in Bangladesh (e le nove vittime italiane erano imprenditori o lavoratori del settore tessile) ha uno strano odore, puzza parecchio di sfruttamento di lavoro minorile, di donne e di schiavitù. Abbiamo dimenticato troppo in fretta che nel 2013 un incendio all'interno di una fabbrica fuori Dacca provocò circa 1.100 morti. Era coinvolta pure un'azienda italiana che inizialmente negò ogni coinvolgimento, salvo poi il ritrovamento di pile di inequivocabili cartellini col marchio pronti per essere cuciti sulle magliette. Le famose magliette e abiti che riempiono le grucce dei più e meno noti brand non solo costringono donne e bambini a orari di lavoro disumani e condizioni di vita precarie, ma impoveriscono anche il nostro mercato, avendo di fatto eliminato le unità produttive tessili locali che garantivano il made in Italy e occupazione. Non si produce più nulla qui, si appalta tutta la produzione di vestiti a terzi, di solito aziende nel Terzo mondo, rendendo perfino difficile sapere esattamente dove vengano confezionati. Il tutto con manodopera del posto in regime di segregazione e schiavitù, costretta a vivere giorno e notte in edifici fatiscenti e malsani. Per lo più donne e bambini. Quello che ci sembra normale, e cioè infilarci una polo o un paio di jeans, ha costi umani elevatissimi: il pezzo che qui viene pagato 90 euro ne costa 4 in Bangladesh.

Questo non ha nulla a che fare con l'attentato né con l'Isis, neppure con le singole vittime di ogni barbarie cui va tutto il nostro cordoglio. Ma è ipocrita fingere di non vedere e non parlare di un fenomeno che riguarda tutti e che rende tutte le economie più povere, oltre a legittimare realtà di schiavismo insopportabili, a beneficio di pochissimi.

Amancio Ortega, leader di Zara (e di tutti i marchi annessi), vanta una fortuna di 71,8 miliardi di euro. Una sua dipendente in Bangladesh 29 euro al mese, con condizioni di vita e aspettative disumane. Così, per riflettere.

 

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