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1 marzo 2016

 

Il Kurdistan dei campi profughi. Di chi ha il passato ma non ha il presente

di Enrico Oliari e Ehsan Soltani

 

Qushtapa sorge poco distante da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. E’ un campo profughi come ce ne sono tanti altri, sorto in mezzo al nulla, dove il dramma umano sprofonda nel fango e nella miseria, trascinando con sé il passato e il futuro di intere famiglie fuggite ad una guerra che subiscono e che non comprendono.

Sono molti i campi di questo genere nel Kurdistan, ed anche qui, a una manciata di chilometri dal fronte dell’Isis, negli occhi dei molti bambini che corrono la novità di una telecamera si legge la voglia di divertirsi, di respirare la vita. Non la rassegnazione, quello è un lusso riservato ai grandi.

“La maggioranza dei rifugiati provengono da Qamshili, Diralok e Hassaka, in Siria”, ci spiega il direttore del campo Sirwan Abed. “Qui ci sono 6.500 persone, 1.800 famiglie, da gestire con i problemi cronici del limitato accesso all’acqua e dell’assistenza sanitaria. Come sempre, all’inizio dell’emergenza piovono risorse e organizzazioni di aiuto, che poi svaniscono, mentre i rifugiati continuano ad esserci ed a venirne altri”.

Quello dei rifugiati è uno dei fattori che pesano in modo serio sull’economia della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, insieme al crollo del prezzo del petrolio e alla guerra all’Isis, che comporta un fronte lungo oltre mille chilometri.

Erbil cerca fra mille difficoltà di far giungere ai campi energia, acqua e servizi, ma è palese che l’aiuto esterno è del tutto carente e che i governi, anche quelli europei, sentono il dramma dei rifugiati solo quando i flussi migratori arrivano, non quando partono.

“All’inizio vi erano siriani di religione cristiana, ma poi, trovandosi in una realtà a maggioranza islamica, hanno lasciato la struttura”, spiega Abed. “Il problema – continua – presenta anche un aspetto burocratico: il Kurdistan rilascia un certo numero di permessi di 15 giorni per visite a parenti o per esami sanitari, ma una volta entrati i migranti giungono qui per farsi registrare come rifugiati; con una tal qualifica rientrano nella protezione umanitaria, ma non possono lavorare, per cui giovani e adulti si trovano qui disoccupati, senza sapere cosa ne sarà di loro. Vi è gente che parte per l’Europa, gente che arriva, ogni giorno”.

Gente con il proprio passato, gente senza il presente. “Sono dovuto fuggire con la mia famiglia da Kobane – ci racconta Hekmat, uomo ben piantato sulla quarantina -. Prima i curdo-siriani del Ypg ci hanno portati in Turchia, ma, trovando un clima ostile, ci siamo diretti verso il Kurdistan. Siamo giunti al campo di Dohuk, che però era alla sua capienza massima, quindi ci hanno portati qui. A Kobane ero un agricoltore, ora non ho più niente, non so nulla della mia casa”.

Dalle tende c’è chi fa capolino, uomini fumano all’ombra delle lamiere, donne avvolte nei veli lavano le stoviglie sotto un filo d’acqua. Una ragazza incinta cammina tenendo per mano il figlio piccolo. I piedi affondano nel fango di Qushtapa.

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