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il 6 agosto 2016

 

Con le milizie anti-Isis verso Sirte «Usa e Francia in guerra tra loro»

di Lorenzo Cremonesi

inviato a Misurata

 

Proteste a Misurata: «L’Occidente vuole spartirsi la torta libica», «Raid troppo limitati»

Ma i miliziani che combattono al fronte chiedono aiuto a tutti, «italiani inclusi»

 

Difficile fare le cose giuste nella Libia prostrata, destabilizzata e litigiosa del dopo Gheddafi. Qualsiasi posizione si prenda, qualsivoglia azione alla ricerca del consenso per la pacificazione nazionale si metta in pratica, ci sarà sempre una parte cospicua delle infinite tribù e fazioni in cui è diviso il Paese che per motivi diversi si opporrà nel modo più determinato.

 

Le proteste di Misurata

Ne è la riprova la visita a Misurata, cinque giorni dopo l’inizio dei bombardamenti americani contro Isis asserragliato 240 chilometri più a est nella sua roccaforte di Sirte. A rigor di logica, verrebbe da pensare che proprio qui gli applausi alla scelta di Barack Obama dovrebbero essere più fragorosi. Passi che si opponga con durezza Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk grande nemico del premier Fayez Serraj, che da Tripoli si propone come il leader dell’unificazione con il sostegno delle Nazioni Unite. Ed è scontato non la gradiscono gli ex pro-Gheddafi o i fondamentalisti islamici. Ma come si spiegano i sentimenti anti-americani raccolti così numerosi tra diversi capi di quelle stesse milizie locali che più di tutte sono impegnate nella lotta contro Isis a Sirte?

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Gli alleati di Serraj

«Sappiamo bene che il Califfato è il prodotto originario della politica Usa in Iraq. E noi oggi ne paghiamo le conseguenze anche in Libia. Sono mesi che ci dissanguiamo a Sirte. Adesso Obama decide di intervenire per motivi di politica interna in vista delle elezioni americane. E comunque i suoi bombardamenti sono limitati, poca roba, pochi attacchi mirati. Una media di due o tre raid ogni 24 ore, dove vengono sparati non più di una quindicina tra missili e bombe alla volta», sostiene il 42enne Anwar Sawan, uno dei leader della resistenza della città contro le truppe di Gheddafi nel 2011, che oggi coordina le milizie municipali dal suo quartier generale-abitazione presso le dune sabbiose che dominano il porto di Misurata.

 

Sawan incarna lo spirito conservatore islamico della regione a metà strada tra la molto più laica Tripolitania e la religiosissima Cirenaica. In pochi anni la società locale si è radicalmente trasformata: da centro commerciale aperto al mondo e in competizione con Tripoli ad un luogo molto più chiuso, quasi immobile, dove pochissime donne lavorano, non si vedono quasi più nei luoghi pubblici e le rare sono coperte dal velo integrale. Lui e i suoi uomini hanno letteralmente salvato Serraj quando, appena dopo il suo controverso approdo al porto militare di Tripoli alla fine del marzo scorso, sembrava potesse venire ributtato a mare da un momento all’altro. Ma il prezzo per il premier è stato alto: lasciando più spazio e potere alle milizie di Misurata si è giocato la fedeltà di molte tra quelle di Tripoli, Zintan, del Fezzan e di quelle a Bengasi e Tobruk che potevano scegliere di stare dalla sua parte.

 

Le manifestazioni in piazza

E tuttavia anche questo non è bastato. «Serraj è un burattino degli americani. Ora si è messo nelle loro mani. Il grave è che la comunità occidentale è divisa. Gli americani stanno con Tripoli e i francesi con Tobruk. Si fanno la guerra tra loro per la divisione della torta libica. Voi italiani fareste bene a stare ben defilati», ci diceva ieri sera rabbiosa Naja Abdallah, un’attivista legata al fronte delle forze religiose di Bengasi e Tripoli venuta alla piccola manifestazione «contro Serraj, contro Haftar e contro gli americani» che si è tenuta a «Piazza dei Martiri» nel centro di Misurata. Forse trecento dimostranti e la presenza discreta delle milizie per evitare che crescesse troppo.

Pareri meno ideologici e molto più concreti arrivano invece dai miliziani che stanno sul fronte di Sirte. «Chi critica i raid americani non rischia la vita, non ha visto i nostri morire o le ferite orribili della guerra. Ben vengano quei raid e di chiunque altro voglia aiutarci. Voi italiani inclusi», sostiene il 36anne Hassan Mohammed, leader della misuratina «Brigata Mujaheeed», da oltre un anno impegnata nella guerra contro Isis. «Se gli americani continuano con i raid, Isis verrà sconfitto entro un mese. Se cessano, saranno necessari almeno cinque mesi con le nostre forze attuali. Se smettono, ma ci passano armi e munizioni, forse poco più di due».

A suo dire il grande aiuto fornito dagli americani si fonda su due qualità: accuratezza e potenza delle bombe. «Sparano con grande perizia. Sono precisi al millimetro. I loro missili sono molto più potenti dei nostri. Noi non sfondiamo neppure i tetti delle case. Loro distruggono i palazzi sino agli scantinati».

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