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17 giugno 2016

 

E se l’ISIS avesse un piano B?

di Giovanbattista Varricchio

 

Il trend del conflitto che insanguina una consistente parte del Medio Oriente pare essere quello di una ritirata progressiva e generale di Daesh su tutti i fronti. Ma è davvero l'inizio della fine?

 

Quando si parla del sedicente Stato Islamico, il maggiore focus di analisi rimane sull’area geografica attualmente occupata dalle milizie del Califfato. Sotto questo profilo nella più recente rassegna stampa è sempre più percepibile un certo ottimismo dei leader politici coinvolti nella guerra al terrore, così come dei maggiori commentatori ed esperti del settore: il trend del conflitto che insanguina una consistente parte del Medio Oriente pare essere quello di una ritirata progressiva e generale di Daesh su tutti i fronti. Ma è davvero l’inizio della fine? Improbabile, anzi, tutti i dati fanno supporre che l’ISIS abbia già elaborato una exit strategy per quando le sorti sul campo di battaglia volgeranno al peggio. Ma andiamo con ordine: nel contesto della guerra civile siriana le truppe del Califfato riescono ad imporsi su molte delle fazioni ribelli e ad occupare una porzione di territorio tra la stessa Siria e l’Iraq pari all’estensione dell’Ungheria, due anni or sono. Nel quadro di un’espansione rapida e di un gran lavoro di marketing del marchio “IS”, i terroristi hanno trovato appoggi in preesistenti gruppi stanziati nel Sinai, in Libia e negli islamisti di Boko Haram in Nigeria.

La situazione è andata però lentamente deteriorandosi, soprattutto dopo l’entrata in scena della Russia a fianco del governo Assad: da mesi Boko Haram risulta fortemente indebolito, a marzo si era parlato addirittura di resa, sebbene riesca a mantenersi operativo nell’area del Niger. In Iraq le milizie sciite e l’esercito stanno dando l’assedio a Falluja mentre in Siria i regolari di Assad sono stanziati a 60 kilometri da Raqqa, “capitale” del Califfato, dopo aver riconquistato Palmira. In Libia, la roccaforte di Sirte è in procinto di cadere nelle mani del governo di unità nazionale. L’ISIS, è evidente, perde terreno e ritira uomini da ogni fronte di battaglia, ed è invero ipotizzabile – stando a questo trend – che lo Stato Islamico possa nel medio termine cessare di essere un’entità territoriale e possano avviarsi processi di pacificazione e riforma in Siria, Iraq e Libia. E’ però altrettanto probabile che la stessa dirigenza dell’IS, che si è dimostrata efficace quanto letale nel corso degli anni, abbia già lavorato a un piano B su come proseguire la loro jihad dopo la sconfitta sul campo. E questo potrebbe essere: rinunciare alla sovranità territoriale e sparpagliarsi per portare il terrore direttamente nei Paesi occidentali. I tragici fatti degli ultimi mesi avallerebbero questa ipotesi: Parigi come Bruxelles, come Orlando: attacchi di cani sciolti dai profili personali insoliti. Prendiamone ad esempio alcuni: uno dei kamikaze dello Stade de France a Parigi noto con il nome di Ahmad Al-Mohammad risultava essere arrivato in Europa dalla Siria tramite i flussi migratori verso la Grecia. Abdelhamid Abaaoud, probabile mente degli attentati di Parigi, era schedato per episodi di delinquenza comune avvenuti in Belgio.

Omar Mateen, l’attentatore di Orlando pare fosse egli stesso un omosessuale frequentatore del locale nel quale ha compiuto la carneficina, rivendiacata dalla radio ufficiale dello Stato Islamico. Si può dunque dedurre che lo Stato Islamico ha almeno tre possibili direttrici attraverso le quali colpire fuori dai suoi confini: sfruttare il rientro dei foreign fighters non identificati nei rispettivi Paesi di origine, inviare i propri miliziani nei Paesi da colpire – entrambe queste opzioni possono essere (già state) eseguite sfruttando i flussi migratori così come già segnalato sia da fonti di Hezbollah in Libano che dall’agenzia Frontex. Terzo e forse più temibile metodo potrebbe essere la ricerca di nuove leve che non abbiano mai partecipato alla guerra del Califfato in Medio Oriente e che anzi non abbiano con esso nemmeno legami sporadici. La propaganda di questi anni potrebbe servire proprio a questo: non conquistare piccoli circoli di integralisti islamici sparsi nel mondo (pochi elementi facili da identificare e controllare). Molto meglio, e qui la tragicità della strategia si rende evidente, sfruttare un potenziale esercito di psicolabili, magari di origine musulmana, non rintracciabili e in alcun modo prevedibili nelle loro azioni, anche non praticanti. Fino al punto da rivendicare in tutta tranquillità il bagno di sangue compiuto da uno squilibrato frequentatore di un locale gay americano. Non importa quanto reale sia la fede islamica dell’attentatore, l’importante è il danno che riesce a procurare, proiettando così l’ombra dell’IS sull’occidente condannandolo sul lungo termine alla paura e alla sindrome di un invisibile accerchiamento. Perdere terreno in Oriente potrebbe non essere l’inizio della fine, ma la fine dell’inizio.

 

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