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mercoledì 30 marzo 2016

 

Pakistan, il gigante islamico fra famiglie, militari, taliban

di Enrico Campofreda

 

Dagli sgangherati slum di Lahore, ai grattacieli di Karachi, dove vivono in venti milioni e dove fabbriche d’alta tecnologia si mescolano a ghetti, il Pakistan è un coacervo di contraddizioni. Economia in tenuta in una fase di crisi locali e mondiali, a fronte di un’inquietante instabilità politica, attacchi terroristici e in contemporanea corruzione, assenza di servizi sociali, povertà e mancata redistribuzione della ricchezza. Nella nazione che ha la più alta percentuale di adolescenti al mondo sotto i 15 anni, la questione delle minoranze religiose perseguitate è solo uno dei tanti problemi, peraltro recente e legato al fronte interno aperto dal fondamentalismo talebano contro cristiani e altri musulmani (ahmadi o sciiti).

 

Cinque anni fa centinaia di hazara afghani, sono stati vittime di vere campagne d’odio lanciate dai deobandi nel Belucistan. C’è poi la violenza delle mafie criminali con rapimenti, estorsioni a suon di torture e raffiche di kalashnikov. Ma all’Occidente non fa impressione, somiglia tanto ai suoi mali, invece le stragi confessionali attirano l’attenzione. Rappresentano un capitolo della linea del terrore e del caos attuata dal jihadismo contro i due poteri forti della nazione: i clan della politica e i militari.

 

Clan economico-politici

L’attuale premier Nawaz Sharif, in barba a qualsivoglia conflitto d’interessi, è anche il leader di Sharif Group, una delle maggiori compagnìe industriali pakistane retta dalla famiglia. Gli Sharif (c’è anche il fratello Shahbaz governatore del popolatissimo Punjab) investono da anni nel settore agricolo dove vantano affari per oltre 100 miliardi di dollari, un terzo degli introiti globali del gruppo. Il capostipite e padre Muhammad aveva avviato l’attività verso la fine degli anni Trenta occupandosi di fusione dell’acciaio con l’Ittefaq Ltd. L’acciaio ha continuato a essere un settore portante del business familiare, diventando industria vera e propria, tanto che col tempo il gruppo s’è specializzato nella creazione di macchinari e istallazione dei medesimi nelle fabbriche. Un gran numero di zuccherifici sparsi sul territorio sono frutto dell’impresa Sharif; già nel 1991 un anziano Muhammad aveva guardato lontano, fondando la Ramazon Sugar che gestisce una colossale raffineria, una delle maggiori del Paese. Mister Nawaz, 67 anni, è al terzo mandato da primo ministro. Iniziò nel 1990, proponendosi come alternativa civile al clan dei Bhutto.

 

Élite e generali

Ha ripreso la guida del governo nel 2013, dopo l’ennesima fase convulsa che aveva visto il civile Gillani incappare in un processo di vilipendio per aver coperto la corruzione del presidente Zardari. E sì che in quel frangente la nazione tentava di emanciparsi dal peso della casta militare. Un’ombra che ha sempre percorso la storia recente pakistana e ha visto l’inquietante presenza dell’esercito e dei suoi generali golpisti, da Zia-ul Haq (nel 1977) a Musharraf (nel 1999), gente che in oltre sessant’anni di stato nazionale ha avuto le redini del potere nelle proprie mani per la metà del tempo. Un esercito e un apparato di Servizi segreti (Inter Service Intelligence) assistiti tecnicamente e supportati dalla politica estera statunitense, che nel cuore dell’Asia si barcamenava fra il contrasto alla Russia sovietica e all’influenza cinese, quest’ultime vicine e poi divise da interessi geostrategici e di flussi economici. Questioni riemerse negli ultimi tempi con estremo vigore. Quell’esercito, finanziato ogni anno con vagonate di dollari (ultimamente dai 3 ai 4 miliardi) gestisce ben 100 testate nucleari, mentre l’Isi per ingerenze interne, lotte leaderistiche, doppiochismo è una variabile fuori controllo e, dovendosi occupare di sicurezza, la sua posizione risulta scottante.

 

Manìe e follìe

Proprio la Cia, regina d’ogni mossa spionistica mondiale, da tempo considera l’alleato pakistano un soggetto poco affidabile. Il Paese, cresciuto demograficamente a dismisura (sfiora i 190 milioni di abitanti e conta la sesta popolazione del globo), nell’incrocio dei contrasti che lo pongono in antinomia con l’India, a sua volta contrapposta al gigante cinese, mira a ritagliarsi un ruolo di potenza regionale per l’intero Medioriente. Una supremazia contesa con Iran, Turchia, Arabia Saudita. Però si trascina anche contrasti tutt’altro che marginali derivati dalla storia post coloniale, ad esempio sulla cosiddetta Linea Durand, un confine stabilito con accordi di fine Ottocento fra il rappresentante del Raj britannico, che gestiva il territorio pakistano, e l’emiro afghano Khan. Questa demarcazione, che separò la corposa etnìa pashtun, è tuttora zona contestata, e va a costituire le cosiddette Aree tribali ad amministrazione federale (Fata). Gli afghani ne disconoscono l’appartenenza al Pakistan, sebbene il governo di Islamabad abbia ben poca giurisdizione su quei luoghi controllati da sette agenzie tribali e ampiamente infiltrata da milizie talebane.

 

La casa talebana

Ahmed Rashid, che quell’area ha studiato per meglio comprendere le dinamiche dei mille intrecci della politica pakistana, racconta come la metà degli abitanti delle Fata svolge attività nei territori attigui, mostrando tassi di alfabetizzazione bassissimi (15% per gli uomini, 3% per le donne) e orientamenti marcati da un ferreo tradizionalismo. E’ lì che la rete di Haqqani ha accresciuto la sua forza, lì ha costruito la fabbrica dei martiri suicidi, giovani e adolescenti che s’immolano per la causa. Questo stesso network ha conosciuto scissioni con la nascita dei Tehreek-e Taliban, diventati autori di stragi impietose contro ragazzi, come fecero nella scuola di Peshawar e come hanno fatto domenica nel parco giochi di Lahore. Nelle Fata s’addestrano foreign fighters stranieri, mediorientali e occidentali, di recente ha trovato riparo il movimento islamico uzbeko che preoccupa la Cina. Ma in varie località delle Fata agiscono pure agenti dell’Isi che lavorano per sé e per la Cia. Infiltrano le file talebane oppure intessono con esse accordi di circostanza per colpire politici e militari pakistani, ex amici diventati nemici, con un disinibito gioco delle parti. Iniziative che durano da un decennio, esaltate nella fase di conflitto acceso su un doppio fronte, indiano (2007-2009) e afghano (2010-2012).

 

Pashtunistan

Una lotta segnata da attentati come quelli di Mumbai e Kabul su svariati obiettivi, su cui pesano i sospetti di collaborazione fra jihadisti e Intelligence pakistana. Perché uno degli obiettivi non scritti di alcuni politici pakistani, in divisa o in abiti civili, è chiudere gli occhi verso il disegno che un pezzo della famiglia talebana sostiene da tempo: allargare le Fata a danno del vicino Afghanistan, aggregando quelle province del confine orientale su cui gli inconsistenti governi di Kabul non riescono a praticare nessun controllo militare e amministrativo. Un disegno cui ovviamente s’oppongono gli Stati Uniti, sostenitori principi, degli statisti fantoccio messi alla guida del Paese; più la restante parte dei signori della guerra afghani che avevano dato origine all’Alleanza del Nord e i loro epigoni. Insomma gli islamici tajiki come Massoud e Fahim, uzbeki come Dostum. Fra quelli come i primi passati a miglior vita e chi, come il vicepresidente afghano è tuttora sulla scena, si dipana una ferrea opposizione ai talebani sponsorizzati dall’infido vicino. Una partita apertissima che sferza in continuazione certa leadership pakistana (Sharif è uno di questi) che per affarismo vorrebbe scenari tranquilli. Per metterla in difficoltà, e sapendo di trovare facile presa sulla popolazione musulmana, i Tehreek innescano anche la caccia all’infedele, non importa se si tratta di bambini. Dicono: “Sotto i colpi dei droni crepano tanti bambini islamici”, un refrain che tutt’oggi non trova smentite. 

 

Enrico Campofreda, 30 marzo 2016

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