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giovedì 5 maggio 2016

 

Le lettere a Capitini

a cura di Marco Labbate

 

La coscienza nell’obiezione

Ricordare Pietro Pinna, scomparso lo scorso 13 aprile, significa attraversare i momenti più significativi della storia della nonviolenza italiana: pur non essendo il primo obiettore di coscienza, fu il suo rifiuto del servizio militare nel 1949 a dare all’obiezione di coscienza, per la prima volta, una dimensione pubblica. In seguito, negli anni Sessanta, egli avviò la costruzione del Movimento Nonviolento per la Pace, fornendo all’impulso intellettuale di Aldo Capitini una concreta forma organizzativa.

Il legame che si instaurò tra Pinna e Capitini appare come una delle relazioni più feconde per l’elaborazione della teoria e delle tecniche nonviolente in Italia. Attraverso alcuni stralci delle lettere che Pinna scrisse a Capitini, oggi conservate nel Fondo Capitini presso l’Archivio di Stato di Perugia, saranno ripercorse, in tre puntate, la maturazione interiore verso l’obiezione di coscienza, i mesi di carcere e infine la libertà che seguì la scarcerazione. Oltre alle lettere scritte da Pinna è superstite anche una minuta di lettera dello stesso Capitini.

Questa prima puntata sarà dedicata al percorso interiore. La decisione di rifiutare il servizio militare appare sotto una luce più intima. Tuttavia proprio nella confessione delle proprie meditazioni ad uno sconosciuto nel quale ripone la propria fiducia risaltano, in controluce, la fibra morale e l’altezza spirituale del giovane Pietro Pinna. Al tempo stesso il distacco iniziale di Capitini, allora già impegnato nella diffusione del pensiero nonviolento attraverso l’Associazione dei Resistenti alla Guerra, ne evidenzia la cifra di educatore: egli si trattenne infatti dall’incoraggiare quel ragazzo che gli scriveva, nonostante la consapevolezza dell’effetto dirompente che il suo gesto avrebbe avuto; preferì attendere che giungesse in piena autonomia a una scelta definitiva che avrebbe avuto costi imponenti nella sua vita. Solo quando la decisione fu presa, mise tutte le proprie energie a disposizione del giovane obiettore.

Prima del loro rapporto epistolare, Capitini e Pinna si erano incontrati in un’unica occasione, fugacemente, durante il Convegno del Movimento di Religione tenutosi a Ferrara. A fare da ponte tra loro era stato il giovane Silvano Balboni, concittadino di Pinna e stretto collaboratore di Capitini, deceduto prematuramente poco prima che il giovane formulasse la propria obiezione di coscienza. Pinna rivendicò in diverse occasioni l’influenza che ebbe nella sua decisione la notizia dell’improvvisa scomparsa di Balboni. Nelle parole di Pinna appare tuttavia già evidente l’influenza che il pensiero di Capitini, appreso probabilmente da alcune letture delle sue opere, aveva agito su di lui.

 

 

Continua la pubblicazione delle lettere di Pietro Pinna conservate all’Archivio di Stato di Perugia. In seguito alla sua obiezione di coscienza, espressa nel febbraio del 1949, Pinna venne trattenuto nella cella di punizione fino a marzo, poi trasferito al carcere militare di Torino. Si rimandò il processo fino ad agosto, nella speranza che il tempo ne attenuasse la risonanza. In realtà la dilazione ebbe l’effetto opposto, facendo montare l’attenzione della stampa e del Parlamento e facendo dell’obiezione di Pietro Pinna un caso. Attorno al giovane si formò una rete di supporto, ridotta ma molto attiva. Tra le figure che attirarono l’attenzione sull’obiezione di Pinna si possono ricordare, oltre ad Aldo Capitini, l’ex-sacerdote modernista Giovanni Pioli, un giovanissimo Guido Ceronetti, l’avvocato Bruno Segre, che assunse la difesa in tribunale, i deputati Umberto Calosso e Igino Giordani, Eugenia Bersotti, curatrice de «I Cittadini del mondo» e lo jesino Edmondo Marcucci.

Dopo la condanna a dieci mesi con la condizionale, anziché essere rimandato a casa in attesa della nuova cartolina precetto, come da prassi, Pietro Pinna venne chiamato istantaneamente al CAR di Avellino, con l’intenzione di prostrarne la decisione. Pinna replicò la propria obiezione di coscienza ma questa volta le autorità militari, per evitare il ripetersi dell’effetto mediatico, processarono il giovane per direttissima. Pinna scontò i nuovi mesi di detenzione nel carcere di Sant’Elmo, fino alla liberazione, giunta con l’amnistia per l’anno Santo. Richiamato nuovamente al CAR di Bari venne riformato per un’inesistente nevrosi cardiaca. «Sono fatto distendere a torso nudo su di un lettino; due ufficiali superiori medici stanno dintorno; il primo si china, per alcuni secondi mi poggia l’orecchio sul petto, poi invita con aria compresa l’altro ufficiale; questi accenna a chinarsi cinque secondi e conferma», raccontò nella sua biografia La mia obbiezione di coscienza.

Rispetto alla fase della maturazione della propria obiezione le lettere scritte da Pinna diventano meno frequenti, anche per il controllo a cui era sottoposto, soprattutto durante la detenzione napoletana. Il colloquio assume contorni più familiari. L’«Egr. sig. Capitini» diventa un «caro Capitini» e il «tu» sostituisce talvolta il «lei». Emerge, in diretta, quella fame di libri e di studio che avrebbe caratterizzato la detenzione degli obiettori. Pinna si ritagliò nella durezza della detenzione, uno spazio per approfondire alcuni autori, studiare l’inglese, penetrare il pensiero di Capitini attraverso i suoi libri, tra cui il citato Vita religiosa.

 

L’ultima parte della pubblicazione delle lettere destinate da Pietro Pinna ad Aldo Capitini, conservate al fondo Capitini dell’Archivio di Stato di Perugia, è dedicata alla libertà riconquistata. L’epistolario si dirada e si spegne. Emerge un senso di apatia e stanchezza che coglie Pinna dopo la libertà, nonostante il tentativo di Capitini di coinvolgerlo in alcune attività, tra cui la pubblicazione di un libro che sarebbe uscito quarant’anni dopo col titolo La mia obiezione di coscienza. Una parte delle lettere è dedicata alla sorte in cui incapparono gli obiettori che, a distanza di pochi mesi, seguirono Pinna in quella scelta: Elevoine Santi, Pietro Ferrua e Mario Barbani. Tutti, scontata la pena detentiva, si trovarono in tempi diversi a tentare la via dell’esilio per evitare la nuova chiamata. Riuscì per Santi e Ferrua, mentre invece il passaggio clandestino in Svizzera di Barbani trovò la polizia elvetica che lo riconsegnò a quella italiana. Un secondo processo per obiezione di coscienza gli sarebbe costato una condanna a poco più di cinque mesi.

A distanza di oltre dieci anni dal rifiuto del servizio militare il contatto tra Capitini e Pinna si riallaccia. L’occasione è una proposta di collaborazione da parte del primo, che coglie Pinna mentre si trovava a Partinico a lavorare con Danilo Dolci, dopo essersi dimesso dall’impiego in banca. Comincia qui una nuova storia, quella del Movimento Nonviolento per la Pace, che ebbe in Capitini e Pinna gli iniziatori e i protagonisti.

 

 

Lecce, 3 dicembre 1948

Egregio sig. Capitini, sono persona a lei sconosciuta. Mi chiamo Pietro Pinna e nacqui in Liguria vent’anni fa, ma sin dalla mia infanzia ho vissuto a Ferrara. Attualmente mi trovo alla Scuola Allievi Ufficiali Complemento di Lecce, chiamatovi di leva dal settembre dell’anno in corso.

Ebbi la fortuna di conoscerla a Ferrara nella scorsa primavera, durante il Convegno di Religione ivi tenutosi.

Conoscevo pure, per aver seguito alcune conferenze del C.O.S., il sig. Silvano Balboni ed ebbi pure modo di avvicinarlo alcune volte, e di apprezzarlo. La notizia della sua morte, recatami due settimane or sono, mi ha fatto una grande impressione.

È nel suo nome che mi permetto di scriverle chiedendole un consiglio, di importanza somma per me.

Sarebbe maggior desiderio mio attuale di disertare la vita militare per obbiezione di coscienza. Le sarei veramente grato se volesse dirmi qualche cosa in merito, specie per quanto riguarda le punizioni a cui verrei incontro, sia ora sia in caso di guerra. Comprendo benissimo che nessuna indecisione dovrebbe trattenermi, di fronte alla convinzione della santità dell’idea. Saranno considerazioni egoistiche quelle che mi spingono a scriverle (il pensiero di mia madre, forse, verso cui sono debitore di tante cose), ma mi pare che ciò che più mi attendo da Lei sia il conforto della Sua parola. Sarebbe una cosa bellissima se potesse farmi ricevere la sua risposta entro il venti del mese, perché dopo tale data andrò in licenza per le feste natalizie dal 21 dicembre al 2 gennaio e, come può immaginare, mi sarebbe utilissimo per regolare in proposito il mio comportamento durante detta licenza. (…)

Sono certo che lei attraverso queste mie brevi righe, sentirà intera la sincerità e tutta la passione mia, e non mancherà di aiutarmi.

Pregandola di gradire questi ossequi

Suo Pietro Pinna

*****

Ferrara, 30 dicembre 1948

Ricevo con piacere la tua lettera del 28 da Perugia. Questi sono i miei dati.

Pietro Pinna di Pietro, nato a Finalborgo (Savona) il 4 gennaio 1927, residente a Ferrara da circa quindici anni in via Beatrice d’Este. I miei genitori sono sardi. Mio padre pensionato delle Carceri Giudiziarie. Sono il penultimo di quattro fratelli. Il primogenito sposato; gli altri due, mia sorella di ventitré anni ed un maschio di venti vivono in famiglia. Ho il diploma di ragioniere, conseguito non frequentando regolarmente l’istituto, ma attraverso esami esterni. Al momento della chiamata alle armi, mi trovavo occupato presso la locale Cassa di Risparmio.

Penso siano questi i dati a cui lei si riferisce.

In quanto alle ragioni eccole:

Fin da fanciullo la mia anima era aperta alla comprensione infinita di tutti gli esseri viventi (piante e formiche). Il rispetto infinito si concretizzava essenzialmente in due modi: non violenza, non menzogna. È così che oggi non posso dare il mio appoggio alla istituzione militare, le cui manifestazioni sono in contrasto con la mia ragione di vita.

Reputo inutili, portar ragioni storiche, ideali, di fede, perché tra l’altro si rivelerebbero poco chiare.

So solo per certo che anche la mia ragione viene in suffragio al sentire della mia coscienza, e così mi sento in pace e convinto.

La guerra è male. Per me non esistono mali minori. Il male è uno, e come tale deve venir combattuto e debellato, senza mezzi termini e a qualsiasi prezzo.

Debbo dirle sig. Capitini, che il Colonnello Comandante della scuola tiene un colloquio personale e riservato con ciascun allievo. Alla vigilia della mia partenza da Lecce, io pure ebbi un colloquio di una decina di minuti con tale persona e gli dissi della mia decisione. È un uomo buono, e vuol essere come un padre per gli allievi. Cercando di mostrarsi comprensivo, mi disse che se era per una questione umanitaria si sarebbe interessato lui direttamente a farmi trasferire in un reparto di sanità. Dopo di che reputai inutile insistere nella discussione. Vede perciò sig. Capitini, che ogni cosa è decisa. Ho capito perfettamente il suo scrupolo nel rispondermi, pensando che io le chiedessi un consiglio sulla convenienza o meno di venire a quella mia determinazione. Chiedo scusa se allora mi espressi male; e voglia credermi in buona fede quando le dico che allorché scrissi la mia prima lettera la decisione era ormai matura in me; si trattava soltanto di dar tempo di morire a quella parte di materialità che restava ancora allacciata alla decisione presa. (…) La ringrazio e nel porgerle sentiti saluti la prego di gradire un vivo augurio per il nuovo anno.

Pietro Pinna

*****

Lecce, 17 gennaio 1949

Egregio sig. Capitini,

Visto il suo interessamento mi permette ancora una volta di scriverle per comunicarle che, dopo un secondo colloquio avuto col colonnello comandante della scuola ho presentato una petizione scritta per la decisione. Tale petizione penso sia stata inviata al Ministero, col parere del colonnello comandante.

Se crede, continuerò a tenerla informata delle eventuali novità. (…)

Salutandola con stima

Pietro Pinna

*****

Casale Monferrato, 8 febbraio 1949

Egregio Sig. Capitini,

Le ho scritto della mia nota al Ministero. Questi, con suo dispaccio del 22 gennaio, mi escludeva dal Corso Allievi Ufficiali di Lecce, e veniva inviato a casa, in attesa di ulteriori disposizioni. Con successivo dispaccio il Ministero dava ordine al distretto di Ferrara di assegnarmi ad un qualche reparto per espletare i miei obblighi di leva.

La mia prima decisione fu quella di non rispondere a questa successiva chiamata, ma poi il colonnello comandante del Distretto di Ferrara mi consigliò di aspettare a compiere tale passo estremo, mi disse di presentarmi normalmente al corpo assegnatomi, e là scrivere nuovamente al Ministero chiarendo meglio il mio caso. (…)

Il giorno 6 febbraio mi sono così presentato a questo 1° C.A.R. di Casale Monferrato. È avvenuto che qui non hanno voluto dar ascolto alle mie chiacchiere, anche perché già alcuni mesi fa un altro ragazzo, appartenente ad una certa associazione dei figli di Jehova mi sembra diede loro non pochi grattacapi sempre per la questione di non voler fare il militare alla fine però riuscirono a convincerlo ed egli si rassegnò e sottomise.

Visto così non mi è restato altro che farmi vestire in tutta fretta e, un minuto dopo, esser messo in prigione per rifiuto di obbedienza.

Da ieri mi trovo perciò dentro in attesa finalmente di una decisione definitiva, e dalla prigione sto in questo momento scrivendo.

Se avrà qualcosa da dirmi e se riterrà opportuno il farlo, sarò ben felice di ricevere un suo scritto.

Gradisca nel frattempo distinti saluti.

Pietro Pinna

***

Pisa, 13 febbraio 1949

Carissimo Pinna,

ho avuto le tue lettere e rispondo assicurando che di ciò che le accade ho informato molti, anche un parlamentare1. Lei ha capito che non ho voluto influire nella Sua decisione sapendo bene i dolori che Le verranno per la Sua idea, che è anche quella di Silvano Balboni e mia. Poteva essere comodo, dallo stato in cui ora mi trovo, immune a tale obbligo (al quale contrasterei con la stessa fermezza che Lei dimostra), esortare ad incontrare le punizioni che una legge incivile assegna. Mi scriva, Le riscriverò a giro di posta. In questi giorni in Italia e all’Estero sarà noto il Suo caso (che non è il solo), e il suo attuale sacrificio sarà utile a tanti altri, come guida ad una società migliore e servirà come elemento prezioso a tutti quelli che operano per una legge che riconosca l’obbiezione di coscienza; la quale, senza dei generosi che pongono con la loro azione di rifiuto il problema non arriverebbe in porto. Questo scriva a Sua madre, del lavoro per questa legge. Ma le faccia anche capire la Sua fermezza nell’idea: le madri capiscono.

Quando io fui cacciato dal posto per il rifiuto di iscrivermi al partito fascista e fui due volte per mesi e mesi in prigione, mia madre capiva.

Un abbraccio dal Suo Aldo Capitini

1_ Il deputato messo al corrente è Umberto Calosso, socialdemocratico, primo presentatore, insieme al democristiano Igino Giordani, di un progetto di legge che riconoscesse l’obiezione di coscienza

 

Gli avvocati Segre e Buda davanti al Tribunale militare di Torino a colloquio con due giornalisti

Casale Monferrato 10.3-1949

Egr. Sig. Capitini,

Mi voglia scusare se le scrivo a matita e in tutta fretta.

Ho saputo un momento fa che domattina verrò tradotto a Torino pel processo. Nei giorni scorsi ho ricevuto posta dal prof. Pioli, persona prima d’ora a me sconosciuta e che immagino interessarsi al mio caso dietro Sua indicazione. A lui penso di scrivere questa sera del processo imminente.

Ho pure ricevuto, sig. Capitini, la lettera scrittami a suo tempo e d’essa non so dirle altro che mi procurò una grande gioia.

Riguardo ai prossimi avvenimenti, voglio assicurarla che sono preparato a tutto, immaginando sin d’ora come si risolverà la cosa, una pagliacciata di processo con alcuni mesi di carcere. E non sarà certo questo a togliermi la mia tranquillità, la fede e la fiducia mie.

Nella speranza di non recarle troppo disturbo, mi riprometto di scriverle di nuovo quanto prima, onde tenerla informata d’ogni cosa.

La prego frattanto di gradire i miei più distinti ossequi.

Suo Pietro Pinna

***

Torino, 24 giugno 1949

Caro Capitini,

l’altro giorno ho avuto l’ultimo colloquio coi professori incaricati della visita psichiatrica. È stata una cosa avvilente: so che di tutto quello che asserisco non viene creduta una parola. Per darti un’idea è un burlarsi di loro voler far credere che io mi sia rivolto per consigli ad una persona (tu) veduta soltanto, sentita appena parlare e letta in un libercolo qualsiasi (non so immaginare quel che direbbero se ora mi sentissero rivolgerti il tu): e queste son verità palpabili, figurati la intuizione loro per quelle basate su affermazioni ideali.

Il parere dei periti certo sarà così completamente negativo. Se son tanti i motivi per dolersene, so che una parte di male è pur anche mia, perché non ho tale capacità di farmi comprendere, tanto calore da renderli persuasi. Io per questo l’accetto come una buona lezione.

Però non mi scoraggia. Anche se i medici daranno il loro giudizio, anch’io son pur libero di dare il mio, ed è quello che vale.

Ricevo tutte le tue lettere con grandissimo piacere; la gioia al giungere di un tuo scritto si rinnova sempre. Anche i libri ho avuti e mi hanno interessato moltissimo, leggerò quanto prima anche gli ultimi due arrivati di Mazzini e su Sakespeare (sic).

Lo studio dell’inglese non va male. Ho già scorsa tutta la grammatica, ed ora che mi son giunti i vocabolari potrei incominciare a fare qualche esercizio di traduzione. Inizierò dalle lettere ricevute dall’estero.

Io sto abbastanza bene. La vita qui non è dura, godiamo di molte ore d’aria, del personale siam tutti contenti, ch’è comprensivo e affabile.

Moralmente poi ho tutti i motivi d’esser felice. Non mi manca la vicinanza di tante persone. Il prof. Pioli si interessa a me sin dai giorni di Casale Monferrato e lo sento un uomo in cui si può riporre tutta la fiducia. In Ceronetti ho trovato un amico; anche ieri ho avuto una sua cartolina da Roma in cui mi dice che probabilmente verrà tentata una seconda interrogazione alla Camera con carattere d’urgenza.

I tuoi libri li leggo. Non son certo all’altezza di giudicarli, anche se li leggo con amore. Ma un d’essi m’è particolarmente caro, il più modesto, Vita Religiosa: vi ritrovo tanta parte di me stesso.

Tutta l’amarezza dell’altra sera scompare nel conforto del tu che sento oggi di poterti dare.

Tuo Pietro Pinna

***

Avellino, 12 settembre 1949

Sig. Capitini,

Le scrivo dal 10° C.A.R. di Avellino, ove son giunto direttamente da Torino domenica sera 11.

Contrariamente alla più logica aspettativa, sono stato così richiamato immediatamente in servizio. E allora siamo da capo. È facile intuire il criterio seguito dal Ministero nel non avermi consentito di andare si pur temporaneamente a casa (come del resto mio buon diritto di scarcerato): speculando sul mio ben facilmente intuibile stato di stanchezza fisica e morale, avrà supposto ch’io non avrei avuto la forza necessaria per persistere nel mio atteggiamento di rifiuto e affrontare di nuovo il duro tirocinio.

Comunque, le cose attualmente stanno così. Appena giunto, fui assegnato alla 10° Compagnia, come una qualsiasi recluta; gli ufficiali di qui sapevano già del mio caso, e mi accolsero non ostilmente in maniera quasi cortese. Immediatamente però si addivenne al profondo dissidio; loro, purché mi sottometta a fare un servizio qualsiasi, sarebbero disposti ad agevolarmi in tutte le maniere possibili; io, evidentemente, pongo il rifiuto di prestare come soldato qualsiasi servizio.

Vennero i colloqui, coi soliti discorsi inconcludenti e vani, col capitano comandante di compagnia e col colonnello comandante di battaglione; sembrerebbe dalle loro parole ch’essi facciano uso di tutta la loro autorevolezza e paterna comprensione nel non farmi partecipare all’addestramento militare vero e proprio, destinandomi invece a disbrigare mansioni di furiere! Veda dove arriva l’intuito di queste persone.

Non per questo, io nell’ultimo colloquio riaffermai in modo definitivo il proponimento di non accettare alcun servizio; e immaginavo che ciò bastasse.

Invece, nonostante le mie parole, mi son visto ieri trasferire dalla 6° Compagnia alla Compagnia Comando, assegnato al reparto degli scritturali! Tutto ciò è miseramente puerile e fa veramente male. Con questo il Comando, destinandomi in un servizio dove non vi sia da veder armi, s’è messa la coscienza a posto; se continuerò a rifiutarmi, ogni responsabilità ricadrà su di me, avendo da parte mia toccato il limite della umana comprensione e buona volontà.

Oggi è domenica e perciò sono libero. Domani, lunedì. Si verrà alle strette, e prima di sera non mancherà di rivedermi in cella. Sembra che ciò lo dica quasi con gusto, qualcuno pensa ch’io lo faccio per il puro piacere di apparire un martire; lei che sa, invece, che tutto questo è profondamente triste.

Avevo ricevuto a Torino la lettera che mi indirizzò tramite l’avv. Segre; grazie infinite per le buone parole. Immagini quant’era il mio desiderio di poter trovarmi un po’ in sua compagnia, e giungere prima a dirle la mia riconoscenza per l’inestimabile aiuto offertomi in sì dure traversie; molte volte la sua vicinanza mi ha fatto superare momenti addirittura cruciali, e ridato la forza e la serenità indispensabili.

Ho sofferto vedere (sic) tutto il grave strapazzo a cui s’è sottoposto nel viaggio a Torino, spero fervidamente non gliene sia venuta alcuna conseguenza, e le faccio sin d’ora i miei migliori auguri per la più prospera salute.

Continuerò a tenerla informata per quanto possibile. Ho scritto all’avv. Segre e all’on. Calosso. (…)

Intanto le invio i più cari saluti.

Suo Pietro Pinna

***

Ferrara, 12 gennaio 1950

Sig. Capitini,

Avvenuta la mia liberazione definitiva, è lei la prima persona a cui sento di dover scrivere.

Ignoro se lei sia al corrente delle mie ultime vicende. Scarcerato il giorno 30 dicembre in seguito al condono, il 4 gennaio partivo per Bari assegnato al 9° Rgt Fanteria.

Vista la nuova destinazione avevo questa volta deciso quasi di non muovermi dal carcere e di portare lì il rifiuto d’obbedienza; se, come diceva il dispaccio ministeriale, dovevo recarmi colà per continuare a prestare il servizio militare, ero certo già che non mi sarebbe restato altro che finire di estenuarmi in quei lunghi colloqui vani, giorni di continua tensione, e finale camera di punizione (dieci volte peggiore del carcere), già sì duramente esperimentati a Casale Monferrato e Avellino.

Risolsi poi per la presentazione a Bari, sperando almeno di ottenere la concessione d’una qualche licenza di convalescenza, o anche della stessa licenza normale che sarebbe potuta spettarmi per il servizio già prestato: pensavo molto a casa mia, ai miei che mi sapevano una seconda volta libero, ma lontano.

A Bari accadde un incidente. Appena giunto mi capita di avere a che fare con un superiore che, all’ignoranza già conosciuta, unisce la villania pure: nel corso della discussione, arriva a minacciare la cella di punizione. L’accoglienza non era lusinghiera; mi parve che in quell’ambiente avrei potuto ancor meno a sperare che nei C.AR. già passati; ripresi la valigia e me ne tornai a Napoli. Fu una sciocchezza. Avevo la vaga idea di ripresentarmi al carcere, o per lo meno costituirmi al distretto militare, ma naturalmente poi questi comandi non poterono accettarmi avendomi perduto di forza. Rimasi tre giorni a Napoli, indeciso sul da farsi; valse infine la considerazione che, dilazionando la presentazione, sarei potuto venir denunciato per diserzione, nome troppo brutto, che avrebbe potuto compromettere la linearità e la chiarezza del mio atteggiamento. Rifeci la corsa per Bari. E qui mi attendeva la notizia più bella: era già tutto disposto per la mia messa in congedo, esentato dal servizio militare per ridotte attitudini fisiche. (…)

Il 10 corrente potevo così partire per tornarmene a casa, totalmente libero. Da ieri mi trovo presso i miei e sono felice veramente, almeno per loro.

Io le riscriverò quanto prima. In questi primi giorni, come può ben immaginare, debbo un po’ dedicarmi alle persone di qui.

Mi scusi se ho scritto in fretta, ma, piuttosto che tardare per parlare più a lungo, ho preferito scrivere subito almeno a Lei, che è stata per me la persona più vicina.

Gradisca i miei migliori saluti. (…)

Pietro Pinna

 

Ferrara, 14 marzo 1950

Caro Capitini,

non so come scusarmi del lungo ritardo a risponderti. Non posso certo togliere a scusante il fatto d’avere buona parte della giornata occupata dall’impiego; con un poco di buona volontà avrei trovato cinque minuti liberi di sera. Ma una certa negligenza mi prende da qualche tempo, quasi una specie di disinteresse. Veramente la libertà non mi trova in condizioni d’animo molto felici. Comunque questo passerà ben presto, ne sono certo; molto credo dipenda da stanchezza fisica: poi, il dolore alla testa che mi prese fin dai giorni della detenzione di Torino, continua a darmi noia sempre, e ancor oggi non mi lascia. E ciò mi secca soprattutto perché mi impedisce di godere della lettura e proprio tale mancanza forse sarà quella che più influisce a farmi sentire quel senso di distacco da tante cose.

Questo poi il motivo per cui non presi in considerazione il tuo suggerimento di scrivere un libro. L’idea fu molto bella, ed anzi debbo proprio ringraziartene, ma tu comprendi bene come, riguardo a cose del genere, difettando lo stato d’animo adatto, manca tutto il necessario; meglio è allora non farne niente assolutamente. Ceronetti anche te ne avrà scritto, con lui discussi durante una mia breve scappata a Torino alla fine di gennaio. Ma ne riparleremo.

Sono rimasto colpito dalla feroce condanna inflitta ad Elevoine Santi. La domenica successiva al processo visitai a Sala Bolognese i suoi genitori. Son persone di umile condizione, molto addolorati per la reclusione del figlio; dell’obbiezione di coscienza non comprendono tanto, e pensano all’accaduto del figlio come ad una disgrazia, prima che ad ogni altro. Non per questo son certo condannabili; del resto sono ottime persone d’animo buono e vogliono veramente bene al figlio: finiranno pure loro per comprenderlo appieno. (…)

Perdonami ancora una volta la mia scortesia per il lungo indugio nella risposta, e gradisci i miei più cordiali affettuosi saluti.

Pietro Pinna

*****

Ferrara, 5 agosto 1951

Carissimo Capitini,

Ho tardato alcuni giorni a risponderti perché attendevo la domenica e disporre di maggior tempo per scrivere.

Circa, il memoriale, ti dirò che non l’avevo ancora letto stampato sull’«Incontro». L’ho fatto in questi giorni dopo il tuo accenno, ed ho trovato che non è perfettamente identico a come lo ricordo originale. Nulla veramente di importante, alcune parole lette male, alcune altre saltate; qualche parola aggiunta. La fine (quella che nei fogli che ti allego sta nella terza pagina) non fa neppure parte del memoriale, ma della prima dichiarazione che feci quando ancora mi trovavo al Corso Allievi Ufficiali. Un vero grosso errore è nel punto in cui viene messa tra parentesi la frase «adorazione di Cristo», che fa intendere, secondo quanto immediatamente la precede, ch’io dica di considerare tale adorazione come l’essenza della religione. (Non potrei ora riprodurre per intero tutto il pensiero che avevo messo in quel punto, perché non ho l’originale: ricordo però che dicevo lì quasi il contrario, rimproverando alla Chiesa Cattolica di esaurire l’interesse per la persona di Gesù Cristo in una vuota adorazione esteriore).

Per queste cose, ho così pensato di ricopiarti il memoriale, con le piccolissime varianti che ho creduto esatto di apportare alla pubblicazione sull’«Incontro».

Hai naturalmente la mia autorizzazione circa l’inserimento nell’opuscolo che hai preparato, per quanto sia un pezzo così poco connesso, e addirittura monco (si vede benissimo che manca tutta la parte diciamo positiva del valore dell’obbiezione; non un accenno neppure al suo significato nei confronti del rifiuto alla prestazione del servizio militare. Fai tu comunque).

Gli amici usciti dal carcere si trovano tutti in serie difficoltà. Di Santi, dopo la sua ultima lettera di fine giugno in cui mi comunicava di aver preso la decisione di espatriare essendo stato fatto abile al servizio, non ho più avuto notizie; le ho sollecitate presso i suoi, ma a tutt’oggi non so nulla. Pietro Ferrua, scarcerato in giugno e richiamato immediatamente in servizio, si è reso latitante. Solamente il terzo, Mario Barbani (uscito pur’egli da Gaeta nel mese di giugno), ha avuto rimandata la chiamata al prossimo scaglione di Settembre, ma so che sta preparandosi per eventualmente espatriare. (…)

Di me nulla di nuovo. Sto discretamente bene, seppure abbia da lavorare intensamente in ufficio. Conto molto di fare dieci buoni giorni di vacanza nella seconda quindicina di settembre.

Ti saluto tanto cordialmente

Tuo Pietro Pinna

*****

Partinico, 3 maggio 1962

Caro Aldo,

Ti ringrazio per la lusinghiera offerta di collaborazione al tuo lavoro. Non escludo che la cosa, opportunamente valutata, possa interessarmi.

Molte ragioni mi invitano pur sempre a prendere tempo nella scelta d’un mio primo lavoro.

Ma intanto mi piacerebbe incontrarti: la stessa discussione con te faciliterebbe certo la scelta.

Posso muovermi in qualunque momento, a partire dai 10 di questo mese (ugualmente agevole per me vederti a Cagliari o altrove).

Attendo un tuo rigo e ti saluto.

Caramente

Piero

*****

Ferrara, 9 luglio 1962

Carissimo Aldo,

ti sottopongo una leggera variazione al programma della mia venuta a Perugia. Poiché le formalità in vista del matrimonio richiedevano ancora – nella migliore delle ipotesi – un mese di tempo almeno, avrei determinato di incominciare subito il lavoro con te, per interromperlo brevemente in coincidenza col matrimonio (che effettuerò in Isvezia per una ragione di doverosità verso Brigitta e i suoi genitori).

I tempi – grosso modo – potrebbero essere i seguenti:

15 luglio circa – una venuta a Perugia fino a metà agosto;

15 agosto circa – andata in Isvezia per una decina di giorni;

25/30 agosto – ritorno definitivo a Perugia con Brigitta.

Vuoi comunicarmi il tuo parere? (…)

Sono ognora più persuaso delle buone cose che potremo realizzare accanto a te, e la volontà di fare vuole essere all’altezza di quest’attesa.

Con affetto

Piero

 

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