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19 maggio 2016

 

Israele, in 68 anni e arretrato che più non si può

di Belen Fernandez

traduzione di Giuseppe Volpe

 

L’anno scorso, su un volo dalla Turchia agli Stati Uniti, ero seduta accanto a un giovane di Ramallah che, dopo aver superato una procedura ardua e tortuosa, era in viaggio per incontrare la sua moglie palestinese in un quartiere periferico di Houston. Lo accompagnava un gigantesco raccoglitore zeppo di documenti.

Poiché il giovane non capiva l’inglese mi ha passato la sua dichiarazione doganale perché gliela compilassi. Tutto è andato liscio fino a quando non siamo arrivati alle voci cinque e sette del modulo che erano, rispettivamente: “Passaporto emesso da (paese)” e “Paese di residenza”.

 

Alla prima scrivemmo “Autorità Palestinese”. Quanto alla seconda un anziano palestinese residente in Giordania seduto lungo il corridoio ci disse di scrivere “West Bank”, insistendo che quella era la risposta corretta. Alla fine West Bank fu e io incrociai le dita augurandomi che l’addetto all’immigrazione in servizio fosse almeno un po’ umano.

 

Di certo l’abitante della West Bank era più fortunato di molti palestinesi, poiché era almeno in grado di viaggiare – anche se non agevolmente – anziché languire nel carcere a cielo aperto della Striscia di Gaza o nei campi profughi in Libano, dove le condizioni non sono molto migliori.

I membri sopravvissuti della prima ondata di profughi palestinesi in Libano oggi contano 68 anni di permanenza nel paese ma sono ancora loro negate la cittadinanza e le libertà a essa connesse, compreso il diritto di svolgere la maggior parte dei lavori.

 

Nel 1995 la situazione era già tanto tragica da generare la seguente descrizione inorridita dell’acclamato scrittore Juan Goytisolo sul giornale spagnolo El Paìs: “350.000 esseri umani ridotti alla condizione di spazzatura da una storia di fuoco e di sangue, mero urlo e furore! La comunità internazionale fa spallucce: i drammi che vanno avanti troppo a lungo sono noiosi”.

Oggi, più di vent’anni dopo, la popolazione dei profughi palestinesi in Libano è cresciuta a circa mezzo milione. Come potete immaginare le cose sono noiose come al solito.

 

Per gli israeliani, comunque, numeri crescenti di palestinesi – particolarmente, è ovvio, nella stessa Israele/Palestina – creano un dilemma parecchio difficile. Dopotutto la giustificazione del progetto sionista è fondata non solo su una leggenda religiosa ma anche, effettivamente, sull’inesistenza dei palestinesi.

Si ricordi la famosa citazione del primo ministro israeliano Golda Meir:

“Non era come si ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considerava un popolo palestinese e noi siamo arrivati e li abbiamo cacciati via e abbiamo tolto loro il paese. Non esistevano”.

 

Nel sessantottesimo anniversario dell’”indipendenza” di Israele da quel non popolo che non si identificava con nulla, la campagna per cancellare l’identità palestinese – quale era – deve ancora riuscire. Non che Israele non abbia tentato al massimo. Oltre l’atto retorico di sparizione tentato dalla Meir, c’è stata anche una quantità di manovre concrete.

 

Per chi fosse nuovo alla vicenda, l’indipendenza israeliana fu resa possibile dalla distruzione di più di 500 villaggi palestinesi e dall’espulsione dal territorio di circa 750.000 persone. Migliaia furono uccise, un’eredità letale che è proseguita ininterrotta sino a quest’oggi.

In uno degli attacchi di brutali di violenze recenti l’esercito Israeliano ha estinto 2.251 vite palestinesi nel corso dei suoi 51 giorni di aggressione contro Gaza nel 2014, nell’operazione chiamata Margine Protettivo. Secondo le Nazioni Unite, 299 delle vittime erano donne e 551 bambini.

 

Lo stratosferico conto delle vittime tra i bambini può essere considerato, tra l’altro, come ben collimante con una certa ricetta offerta dal defunto Uri Elitzur, già consigliere di Benjamin Netanyahu. Nella preparazione dell’Operazione Margine Protettivo l’allora membro della Knesset Ayelet Shaked – oggi ministro nominale israeliano della giustizia – ha pubblicato su Facebook un estratto delle stimolanti riflessioni di Elitzur. Una traduzione in inglese del post di Shaked è apparsa su varie pubblicazioni, tra cui il The Washington Post, che ha citato come propria fonte il “sito di sinistra Mondoweiss”.

 

Alcuni punti chiave sono i seguenti:

“Dietro ogni terrorista ci sono dozzine di uomini e donne senza le quali egli non potrebbe darsi al terrorismo … Sono tutti nemici combattenti e il loro sangue ricadrà sulle loro teste. Ora vi sono incluse le madri dei martiri, che li mandano all’inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli; nulla sarebbe più giusto. Dovrebbero sparire, così come le case fisiche in cui hanno allevato i serpenti. Altrimenti là saranno tirati su altri serpenti”.

 

Per quanto popolare possa essere l’approccio sterminazionista tra segmenti del pubblico israeliano, tuttavia, ci sono fatti sul terreno che sono d’intralcio, cioè un certo “popolo palestinese in Palestina che si considera popolo palestinese” e che continua a respirare a dispetto dei piani israeliani.

 

Ciò nonostante i media israeliani hanno individuato un mucchio di motivi di ottimismo nel sessantottesimo compleanno di Israele. In un articolo recente intitolato “Israele a 68 anni: ancora forte e moderno”, il sito Ynetnews è andato in estasi per un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica di Israele secondo il quale “il 96 per cento degli israeliani ha oggi la lavatrice in casa; il 99,9 per cento degli israeliani possiede il frigorifero; l’87 per cento ha l’aria condizionata e anche se il 73 per cento degli israeliani ha ancora una linea telefonica fissa, il 96 per cento della popolazione ha almeno un telefono cellulare”.

 

Ma se consideriamo il fatto che la pulizia etnica istituzionalizzata capita si classifichi tra i fenomeni più datati, sembra che la nazione degli elettrodomestici sia tanto arretrata che più non si può.

 

Belén Fernàndez è autrice di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work[Il messaggero dell’imperatore: Thomas Friedman all’opera], pubblicato da Verso. E’ anche collaboratrice della rivista Jacobin.

 

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/israel-68-years-old-and-as-backward-as-it-gets/

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