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14 settembre 2016

Israele, sauditi e Turchia boicottano la tregua impossibile
di Marco Santopadre

Dire che la tregua scattata lunedì sera in Siria è fragile vuol dire ricorrere ad un eufemismo. Dal punto di vista dell’intensità dei combattimenti sembra che l’accordo cercato e siglato da Stati Uniti e Russia per cristallizzare la situazione sul campo senza vinti né vincitori stia sostanzialmente tenendo. Ma le possibilità che il parziale cessate il fuoco – che non riguarda Daesh e al Nusra, che ora si fa chiamare Jabhat Fatah al Sham – conduca presto all’apertura di un dialogo politico a tutto campo funzionale alla fine del sanguinoso conflitto, sembrano assai remote.
Perché sul terreno e tra le diverse potenze regionali coinvolte, nessuno è disponibile ad accontentarsi di quanto finora ottenuto: né i ribelli di varia risma cacciati da numerosi territori, né il governo siriano, che invece vorrebbe continuare l’offensiva, resa possibile dall’intervento russo e dal contributo di Hezbollah, fino a liberare tutto il paese. A remare contro però sono soprattutto le varie potenze che di fatto costituiscono, con contraddizioni interne spesso consistenti, una sorta di terzo fronte autonomo rispetto a quelli capeggiati dagli Stati Uniti e dalla Russia.
Ed infatti negli ultimi tre giorni a tentare di boicottare la tregua raggiunta a Ginevra da Kerry e Lavrov sono stati proprio Israele, Arabia Saudita e Turchia, interessati a destabilizzare la situazione, non certo a cristallizzarla come vorrebbero Mosca e Washington in un momento in cui sul campo a prevalere sono le forze lealiste (e i curdi) a scapito delle varie fazioni eterodirette dal fronte sunnita.
Non è un caso che le violazioni della tregua si stiano concentrando ad Aleppo, dove un attacco dei fondamentalisti ha causato sei morti e 10 feriti. E’ su Aleppo che si concentrano attualmente gli sforzi dei contendenti; alla città accerchiata dalle forze lealiste sono interessati soprattutto i turchi, che hanno inviato le loro truppe e quelle mercenarie a poche decine di chilometri di distanza. Ankara, che controlla già una porzione di territorio siriano vasta circa 400 chilometri quadrati, pretende da Mosca e Washington di poter partecipare alla ‘liberazione’ di Aleppo – sorvolando sul fatto che alcuni dei gruppi che la occupano rispondono ai suoi ordini o quantomeno ai suoi interessi – per impedire che a farlo siano esclusivamente le truppe siriane. Scenario simile per quanto riguarda la ‘capitale’ del Califfato in Siria, Raqqa, che nei giorni scorsi il regime di Erdogan ha chiesto di poter occupare con il consenso e la collaborazione militare di Washington. Ora il portavoce di Erdogan assicura che la Turchia non ha al momento un piano per attaccare la città, ma afferma pure che muoverà le proprie truppe se i curdi delle Ypg e le Forze Democratiche Siriane da esse egemonizzate dovessero riprendere l’avanzata verso Raqqa. Nel frattempo i turchi preparano l’ingresso ad Aleppo con l’escamotage dell’invio di ‘aiuti umanitari’ alla popolazione stremata, eventualità che il governo di Damasco respinge. «La Repubblica araba siriana comunica il suo rifiuto all’ingresso ad Aleppo di qualsiasi aiuto, in particolare del regime turco, non deciso in coordinamento con il governo siriano e le Nazioni Unite» ha fatto sapere l’esecutivo. Il problema è che l’accordo sul cessate il fuoco impone la fine dell’accerchiamento della zona orientale di Aleppo da parte dell’esercito governativo (rotto a fine luglio da migliaia di jihadisti di al Nusra e di Ahrar al Sham e ristabilito a inizio settebre dalle forze lealiste), la riapertura della Castello Road con la conseguente possibilità che i jihadisti possano rifornirsi di armi, e la creazione di zone smilitarizzate alla periferia della città.
Contemporaneamente anche numerose milizie salafite, fondamentaliste e jihadiste teoricamente facenti parte di quelle ‘organizzazioni dell’opposizione moderata’ che Washington insiste nel voler separare da quelle terroristiche, e che rispondono agli input delle petromonarchie e della Turchia, hanno fatto sapere di non voler rispettare la tregua. Tanto che al Nusra – Jabhat Fatah al Sham ha ringraziato pubblicamente le 21 sigle islamiste, comprese alcune importanti frange dell’Esercito Siriano Libero (ancora nelle grazie di Washington, costretta sempre a rincorrere il protagonismo delle potenze locali arabe) che in un documento avevano fatto sapere di non voler aderire al patto siglato a Ginevra. In un comunicato Jabhat Fatah al-Sham afferma che il cessate il fuoco è in realtà un complotto mirante a dividere le fazioni jihadiste presenti in Siria. Dopo aver detto inizialmente ‘no’, Ahrar al-Sham ha fatto sapere di essere disponibile a rispettare il cessate il fuoco. Ma ad una condizione così drastica che di fatto tramuta l’assenso in dissenso: che Mosca e Washington riconoscano Fatah al-Sham (cioè gli ‘ex’ qaedisti) come organizzazione dell’opposizione siriana e quindi smettano di contrastarla: «Colpire Fatah al-Sham, trattarla in modo diverso dalle milizie sciite vicine all’Iran e costringerci a dare l’ok ad un pacchetto che prevede di bombardarla, creerà problemi interni» ha fatto sapere una fonte del cosiddetto Alto Comando delle Opposizioni. Complessivamente le formazioni jihadiste che non si sentono vincolate dalla tregua controllano l’80% dei territori attualmente nelle mani dei ribelli.
Attivissimo in queste ore è anche Israele, che ha provocato un forte aumento della tensione al confine con la Siria proprio in concomitanza con l’annuncio e con l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Prendendo a pretesto alcuni colpi di mortaio sparati dalle truppe siriane contro i jihadisti di al Nusra – ampiamente tollerati e protetti dallo ‘stato ebraico’ ormai da anni – caduti nel Golan siriano sotto occupazione israeliana dal 1967, l’aviazione di Tel Aviv ha bombardato in più occasioni le postazioni di Damasco dall’altra parte della controversa frontiera. Questa volta, a differenza di episodi precedenti, e probabilmente grazie al massiccio sostegno militare russo e iraniano, sarebbero entrate in azione anche batterie contraeree siriane. Damasco ha reclamato l’abbattimento di un caccia e di un drone israeliani rispettivamente a Quneitra (nel Golan) e a Saasa (vicino a Damasco), circostanza che però l’entità sionista smentisce risolutamente.
A spaventare i ‘terzi incomodi’ – Israele, Turchia, petromonarchie – è soprattutto la possibilità di una saldatura in Siria degli interessi statunitensi e russi, dopo che i due paesi hanno annunciato la realizzazione di un centro di monitoraggio comune e l’avvio di una cooperazione militare tra Mosca e Washington con la possibilità anche di raid congiunti contro le “fazioni estremiste”.
Da parte loro il governo siriano e quello iraniano sono estremamente sospettosi nei confronti delle recenti aperture di Mosca a Washington e alla Turchia. Il contributo russo alla controffensiva contro i jihadisti è stato fondamentale e risolutivo, ma Damasco e Teheran sanno che Putin potrebbe accontentarsi di un congelamento della situazione attuale che sdoganerebbe una spartizione della Siria in aree di influenza occupate da vari contendenti regionali mettendo fine all’unità nazionale e segnando un decisivo punto a sfavore per l’Iran.
In un contesto del genere sarà già tanto se i combattimenti rimarranno di bassa intensità per qualche giorno permettendo la distribuzione di aiuti alle popolazioni e l’evacuazioni delle persone intrappolate nelle zone assediate. Ma la polemica innescata dai ribelli e da alcuni paesi in sede Onu contro il governo siriano accusato di non permettere la distribuzione degli aiuti non promette niente di buono.

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