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24 settembre 2016

 

In Siria non c’è tregua che tenga

di Fabio Mariani

 

L’eccidio dei soldati siriani da parte dell’aviazione statunitense ha contribuito a far saltare l’accordo tra Stati Uniti e Russia. L’ambiguità degli yankee nella lotta al terrorismo allontana una possibile risoluzione diplomatica del conflitto. Il tramonto di Obama e l’eventuale avvicendamento di Hillary Clinton alla Casa Bianca porterebbe in dote un presidente pronto ad attuare una transizione politica senza Bashar al-Assad.

 

Il bombardamento americano sulle posizioni dell’esercito siriano ha raggiunto il suo scopo: far saltare la tregua. Da qualche giorno ad Aleppo sono riprese le ostilità, in base a quanto riporta l’”onnipresente” Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, un convoglio delle Nazioni Unite che trasportava aiuti umanitari è stato bersagliato dall’aviazione siriana e russa causando la morte di decine di civili. La campagna mediatica, del tutto faziosa  e partigiana, portata avanti dall’Osservatorio Siriano-che raccoglie soltanto testimonianze degli attivisti anti-Assad- non si è mai arrestata. La comunità Internazionale ha espresso profonda indignazione per le atrocità commesse dal presidente alawita.Durante la riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, il segretario generale Ban ki-Moon, ha tuonato contro Bashar al-Assad:”Il governo siriano continua a bombardare e uccidere come nessun altro, il futuro della Siria non può dipendere da un solo uomo”. Per comprendere il quadro della situazione ripercorriamo, ancora una volta, le fasi che hanno portato alla fine della tregua ponendo l’attenzione sulla composizione della cosiddetta”opposizione moderata”, causa  di attrito nei negoziati tra Stati Uniti e Russia.

Il diciassette settembre raid americani hanno colpito delle postazioni dell’esercito siriano nei pressi di Deir ez-Zour, nel nord-est del Paese, provocando la morte di oltre novanta soldati e ferendone altri cento. L’attacco ha spianato la strada alle milizie del Califfato che,grazie all’incursione della coalizione, hanno guadagnato terreno occupando temporaneamente avamposti sul Jabal al-Thardah, nelle vicinanze dell’aeroporto militare di Deir ez-Zour. Una nota del Dipartimento della Difesa statunitense ha spiegato che l’attacco della coalizione sarebbe avvenuto per errore scambiando i soldati dell’esercito per miliziani dell’ISIS. La reazione del Cremlino non si è fatta attendere: secondo l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitaly Churkin, i raid americani sono stati lanciati intenzionalmente con l’obiettivo di dirottare l’accordo di cooperazione tra Mosca e Washington. Forti dubbi sulla “non intenzionalità” del bombardamento americano nutre anche il vescovo di Aleppo George Abou Khazen, il quale in una dichiarazione rilasciata all’agenzia di stampa Fides si è lasciato andare in questo modo:”Di certo qui nessuno crede che la strage dei soldati siriani sia stata un errore”. Ma che cosa prevedeva l’accordo tra Stati Uniti e Russia? Innanzitutto la cessazione delle ostilità tra l’esercito siriano e le opposizioni dei ribelli per permettere l’ingresso degli aiuti umanitari nella città di Aleppo, inoltre, punto fondamentale della trattativa sarebbe stata la creazione di un Joint Implementation Center per la condivisione delle informazioni necessarie a coordinare i raid contro i terroristi.

Su quest’ultimo punto l’amministrazione statunitense non è stata affatto chiara alimentando la commistione tra le milizie degli ex qaedisti di Jabhat al-Nusra(ora riciclati con il nome di Jabhat Fateh al-Sham) e la fantomatica “opposizione moderata”. Difatti lo stesso Putin, al tavolo dei negoziati, aveva messo in discussione l’intenzione degli USA di rispettare il cessate-il-fuoco, sottolineando che gli americani non hanno fornito la necessaria collaborazione per separare i cosiddetti “ribelli moderati”dagli estremisti islamici, in particolare Jabhat Fateh al-Sham, in modo da poter coordinare al meglio i raid. La sensazione è che in Siria si sia persa una grande chance per una possibile riconciliazione del Paese. L’ambiguità dell’establishment americano nella lotta al terrorismo e l’eccidio dei militari siriani hanno logorato una situazione di per sé già critica. L’”Election Day”americano dell’otto novembre potrebbe spiegare la riluttanza dell’amministrazione statunitense a collaborare con Mosca, un’eventuale vittoria di Hillary Clinton-polmonite permettendo- porterebbe alla Casa Bianca un presidente decisamente ostile a Vladimir Putin e agguerrito nel sostenere una transizione politica senza Bashar al-Assad.

Fonte: http://nena-news.it

24 settembre 2016

 

I signori della guerra non vogliono la tregua

di Chiara Cruciati

 

Quali sono gli obiettivi delle potenze regionali e globali e perché i loro interessi non contemplano un cessate il fuoco. Escalation militare ad Aleppo: il governo lancia una nuova offensiva.

 

L’unico output della tregua è l’escalation militare: a suggellarla è stato giovedì sera l’esercito del presidente Assad che ha lanciato una nuova controffensiva su Aleppo. Mentre all’Onu i 23 paesi dell’International Syria Support Group chiudevano il meeting con un nulla di fatto, sul sito del governo appariva un messaggio ai residenti: state lontani dalle postazioni dei gruppi armati (difficile visto che sono nascosti tra i civili) e raggiungete i checkpoint dell’esercito (ancora più difficile vista l’assenza di corridoi umanitari).

Già 150 i raid sui quartieri est controllati dalle milizie, 90 le vittime. Tra i target anche centri della locale protezione civile. E ieri pomeriggio una fonte interna ha paventato la possibilità di una prossima offensiva via terra. Dichiarazioni che non fanno pensare alla volontà di dialogare, stesso messaggio inviato dalle continue violazioni della tregua compiute la scorsa settimana dalle opposizioni. Dietro il paravento diplomatico (ieri il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov parlavano ancora, incredibilmente, di rivedersi oggi per cercare un accordo) stanno interessi difficili da scalfire, specchio delle diverse strategie impiegate sul disastrato campo di battaglia siriano.

Se è vero che tutti vogliono risolvere il conflitto, perché dopo 5 anni e mezzo e 450mila morti, si combatte ancora? Perché gli obiettivi dei signori della guerra non sono stati del tutto raggiunti. Assad, dato per spacciato ma rinvigorito dall’intervento russo, punta oggi a chiudere islamisti e moderati in enclavi circondate dal governo, territorialmente discontinue. Lo fa con l’esercito ma anche con gli accordi di Homs e Daraya, costringendo all’evacuazione i “ribelli” e spedendoli tutti a Idlib, in mano ad al-Qaeda.

Le opposizioni non accettano il ben che minimo compromesso, forti dei balbettii internazionali che non sanno distinguere tra forze effettivamente legittimate dalla popolazione per prendere parte al futuro della Siria e quelle il cui obiettivo non è la democrazia ma un califfato sunnita. Continuando a ricevere armi e protezione con cui si rafforzano, gli islamisti si stanno creando una base di consenso nelle zone assediate, fertili alla propaganda anti-governativa.

La Turchia non ha ancora ottenuto zona cuscinetto e scomparsa del progetto politico e geografico della kurda Rojava e accende la guerra con invasioni ostili al dialogo. Approccio che condivide con il Golfo, il grande finanziatore del conflitto, che – seppur non abbia fatto saltare Assad – ha ridotto la Siria in macerie, mera ombra del paese leader che era.

L’Iran, che con uomini e denaro tiene in piedi Damasco, vuole scansare il pericolo di una frammentazione del paese alleato in cui tanto ha investito e che gli garantisce, insieme ad Hezbollah, di opporre all’asse sunnita un asse sciita altrettanto potente.

Infine, la guerra fredda Usa-Russia. Washington, annichilita dal ritorno del Cremlino, vuole evitare che la Siria resti nella sfera russa e non disdegna una frammentazione che ne faccia un soggetto debole e controllabile. E si allea con chiunque, gruppi impresentabili ma nei fatti le sole opposizioni. Mosca vuole tornare super potenza a livello globale, sia sul piano politico che economico: la Siria, in tal senso, non è che campo di battaglia di una contrapposizione politico-strategica molto più ampia, nella quale non è la diplomazia a definire gli equilibri di potere, ma gli eserciti e gli affari.

E le alleanze si mescolano, i cambi di casacca sono repentini. Ieri il voltafaccia dell’ex al-Nusra: dopo aver ricevuto per anni armi e denaro dalla Turchia, ha fatto appello alle opposizioni perché si contrappongano all’invasione turca a nord: «Vietiamo di combattere sotto qualsiasi potere regionale o coalizione internazionale – dice il comunicato chiaramente scritto nella veste di leader delle opposizioni sunnite – L’intervento Usa sostiene il Pkk a danno delle regioni sunnite». Al solito, il mostro che si ribella allo sponsor anche se ne condivide gli scopi. Nena News

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