Originale: Foreign Policy in Focus

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22 settembre 2016

 

La Siria come metafora

di John Feffer

direttore di Foreign Policy In Focus.

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

La guerra in Siria è un incubo. E’ un incubo per tutti i civili che soffrono a causa dei costanti bombardamenti aerei, che sono intrappolati senza cibo e assistenza medica all’interno di città che si sgretolano, che sperimentano la punizione  o dello Stato Islamico o del regime di Damasco. E’ un incubo per coloro che cercano di scappare e che affrontano la prospettiva della morte nella fuga o il limbo del campo profughi.

La Siria è un incubo per gli individui, milioni. Non è però soltanto questo. Se gli stati potessero sognare, allora la Siria sarebbe anche il loro incubo.

La Siria una volta era uno stato sovrano come qualsiasi altro. Aveva un governo centrale e confini stabili. Lo stato siriano godeva del monopolio sulla violenza, e, in varie occasioni impiegava quella violenza contro la sua cittadinanza, con effetti devastanti. L’economia funzionava, più o meno, con notevoli introiti provenienti dal settore petrolifero. Nel 2009 il turismo rappresentava il 12% dell’economia. Non così tanto tempo fa, e malgrado i suoi molti problemi, la Siria attirava un gran numero di viaggiatori entusiasti.

Molto ironicamente, lo stato siriano una volta aveva illusioni di grandezza. Voleva abolire i vecchi confini coloniali e unificare tutto il mondo arabo. Durante il regime di Hafez al-Assad, il suo governante autoritario dal 1970 al 2000, la Siria tentò di assorbire il Libano, di unirsi all’Egitto e alla Libia in una Federazione di Repubbliche Arabe, che ebbe vita breve,  di rimuovere l’Iraq come leader ideologico indiscusso e perfino di farsi carico della causa palestinese.

Quanto rapidamente i sogni possono diventare incubi. La Siria è  caduta su  se stessa, fratturandosi in quattro pezzi diversi. Il governo di Damasco controlla una fetta di territorio intorno alla capitale e alla costa, i cui contorni sono stati disegnati in modo ingannevole per dare a un partito un vantaggio su quello rivale. I Curdi si sono ritagliati una regione autonoma lungo il confine turco nel nordest. Lo Stato Islamico rivendica ancora un vasto tratto nel centro del paese. Inoltre, varie fazioni ribelli si sono assicurate un mosaico di terra in tutti i quattro angoli di quella che una volta era stata una Siria unificata.

Il governo di Damasco, inutile dirlo, non gode più del suo monopolio della violenza.

Non è in grado di controllare i confini del paese. L’economia si è contratta del 19% nel 2015 e probabilmente si contrarrà di un ulteriore 8% quest’anno. Centinaia di migliaia di siriani sono morti nel conflitto attuale. Su una popolazione di 23 milioni di persone prima della guerra, quasi la metà è fuggita dalle sue case: di questi, 4,8 milioni hanno lasciato il paese e 6,6 milioni sono sfollati nel paese stesso. La guerra, secondo una stima, è costata 250 miliardi di dollari.

Proprio come in precedenza i Balcani, la Siria sta emergendo come una metafora della frammentazione e del caos che il mondo moderno a malapena circoscrive. Molti stai vengono tenuti insieme da poco di più che una tensione superficiale, come la superficie di liquido che sale  al disopra  dei lati di un bicchiere. Il nazionalismo ha raggiunto un punto di ebollizione in molti posti, come ha fatto l’estremismo religioso. Gli armamenti sono dappertutto, le milizie proliferano e la violenza è diventata pervasiva. Dopo avere ottenuto un numero di impressionanti vittorie – in Irlanda del Nord, a Timor Est, ultimamente in Colombia – i diplomatici internazionali sono ostacolati dal crollo dell’ordine in posti come la Siria, la Libia, il Sudan e la Somalia.

I paesi che manovrano per ottenere l’influenza in Siria, oggi, devono affrontare molte delle stesse  forze divisive che hanno fatto a pezzi quel paese.

Il sogno di queste potenze che intervengono è di trasformare la guerra attuale a loro vantaggio. Il loro incubo: qualsiasi cosa che distrugge la Siria è contagiosa.

L’illusione del totalitarismo

Non esiste uno stato totalitario.

Naturalmente, alcuni dittatori immaginano di poter creare uno stato di questo genere dove il governo è una semplice estensione della volontà del leader e nessuna opposizione consistente contesta l’autorità centrale. Questa società è una piramide con una persona in cima e con ogni blocco che serve a sostenere quella piattaforma più alta. Le semplici società autoritarie tollerano potenziali fonti rivali di potere, come un’elite di intellettuali o un settore commerciale. Nel sistema totalitario ideale, tutti sono per uno e uno per tutti.

Perfino la Corea del Nord, sotto la dinastia Kim – Kim Il Sung, Kim Jong Il, Kim Jong Eun,  non riesce a raggiungere questo genere di controllo totalitario. E’ vero, il governo è riuscito a eliminare praticamente ogni segno di dissenso politico, le ONG locali sono praticamente inesistenti e tutta la cultura è subordinata allo stato. Tuttavia sono saltati fuori mercati privati al di là del controllo completo dello stato (anche se, come segno di accettazione riluttante, lo stato tassa i venditori). I cittadini guardano i film di contrabbando e ascoltano musica tabù grazie alle chiavette USB  introdotte illegalmente dalla Cina. Ci sono stati segnali di dissenso ai livelli più alti del governo (o così  fa pensare l’esecuzione dello zio di Kim Jong Eun’s, Jang Song Thaek).

Una volta, il leader della Siria aveva sperato di creare una dinastia totalitaria nel cuore del Medio Oriente. Hafez al-Assad aveva abbracciato una versione del Baathismo, quell’ibrido anti-coloniale, nazionalista, pan-arabo e nominalmente socialista, che era emerso dal tumulto ideologico degli anni ’40. Come nella Corea del Nord, Assad creò uno stato con un solo partito e con un’estesa polizia segreta, la

Mukhabarat. Eliminò spietatamente l’opposizione, come nel 1982, quando lo stato represse brutalmente una rivolta della Fratellanza Musulmana. Dopo una breve “escursione” nella riforma, il successore designato, cioè il figlio di Assad, Bashar seguì le orme del padre. Tentò di estinguere l’insurrezione della Primavera Araba, proprio come suo padre aveva affrontato gli Islamisti. L’attuale guerra è la conseguenza del fallimento di Bashar al-Assad’s di percepire il potere in declino del suo stato unitario.

Per quanto al più giovane Assad sarebbe piaciuto mantenere una ferma presa sul potere, la Siria del 2012 era un paese molto diverso dalla Siria del 1982. Durante quei 30 anni, i legami che avevano tenuto unito il paese, si erano allentati. Le organizzazioni popolari percepivano l’opportunità di rimuovere quello che una volta era stato un regime nettamente laico. Altri centri di potere erano comparsi nella società siriana e i regime Baathista non era bene “attrezzato” per far fronte a questo tipo di pluralismo.

Questo scenario potrebbe sembrare unico. Non lo è. Un pluralismo disarmonico è diventato il nuovo standard globale. Altri paesi –  Turchia, Iran, Russia, Arabia Saudita, l’EU, perfino gli  Stati Uniti – contemplano l’esempio siriano e tremano.

Può succedere qui

Spogliata della sua magica sovranità, la Siria si è trasformata in un contenitore i cui tesori nascosti sono ora a disposizione di tutti per vederli e prenderli. Anche se continuano a brandire le loro mazze,  i poteri che intervengono non possono fare a meno di percepire quanto rapidamente la sovranità può scomparire e quanto poco impedisce loro di trasformarsi, a loro volta, in contenitori.

I leader turchi, per esempio, sono molto consapevoli delle caratteristiche strutturali che il loro paese condivide con la Siria.  Il kemalismo che prende il nome dal padre della Turchia, Kemal Ataturk, ha un certo gusto Baathista. Anche esso è anti-coloniale, nazionalista e laico. Il kemalismo, come il Baathismo, ha unificato un paese straordinariamente vario. Dove l’ideologia si è dimostrata insufficiente, il governo centrale, come in Siria, ha usato una notevole potenza di fuoco per sopprimere qualsiasi movimento, ma particolarmente i Curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) che contesta l’integrità territoriale del paese.

L’attuale leader della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, vuole consolidare il suo potere all’interno e proiettare l’influenza turca in tutto il Medio Oriente (e oltre). La Siria è stata per lungo tempo fondamentale per questo duplice progetto. I due paesi ricucirono i rapporti all’inizio degli anni 2000, quando la Siria aveva un ruolo preminente nella politica della Turchia di “zero problemi con i vicini.” Tuttavia, quando la posizione di Assad divenne esile durante la Primavera Araba, Erdogan vide l’occasione di cambiare cavalli. Quando il conflitto si intensificò e non emerse nessun cavallo come chiaro vincitore, Erdogan decise di usare la copertura della guerra per bombardare il PKK e i loro sostenitori oltre il confine. Sperava di identificare una fazione curda “responsabile” con la quale fare affari – come Ankara ha fatto con il Kurdistan in Iraq. Più di recente, creando una “zona sicura” nella Siria del nord, la Turchia pianifica di trasferire i rifugiati siriani che sono ora nei campi turchi e di usarla come base di operazioni per promuovere affari turchi nella ricostruzione del dopo-guerra.

Questo è il sogno, comunque. L’incubo non è lontano. Il colpo di stato fallito in luglio è stata una dimostrazione piuttosto inappropriata dell’ansia latente in certi settori circa il consolidamento del potere di Erdogan del potere interno. La guerra riaccesa con i Curdi nel sudest del paese, rivela la divisione persistente nel paese. Finora, Erdogan ha intelligentemente unito il kemalismo laico e l’Islamismo minimizzato del suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo con un nazionalismo che mette la Turchia prima di tutto. Ma un contraccolpo dalla Siria, dai Curdi, dai sostenitori dello Stato Islamico, da un esercito turco scontento – potrebbero aprire una frattura nella coalizione di Erdogan, e la Turchia sarebbe allora sul punto di trasformarsi in un’altra Siria.

Anche se segue un sistema operativo diverso, anche l’Iran guarda alla Siria come a un esempio ammonitore. Il governo di Teheran è attualmente diviso tra i riformatori con a capo il presidente Hassan Rouhani e gli estremisti religiosi che si agitano costantemente per le deviazioni ideologiche. Il Movimento Verde che è apparso per circa nel periodo delle elezioni del 2009, ha rivelato una forte opposizione ai teocrati all’interno della classe media cittadina. Se Rouhani e la sua coorte non saranno in grado di  trarre un abbondante vantaggio dell’accordo nucleare e del rientro nell’economia globale, l’Iran potrebbe fare dei passi indietro economicamente, e poi, dopo le prossime elezioni, politicamente ai tempi di Mahmoud Ahmadinejad. Disillusi dalla politica formale, la prossima iterazione del Movimento Verde potrebbe rinunciare alle dimostrazioni pacifiche e far precipitare l’Iran nella sua guerra civile.

L’Arabia Saudita al momento appare come un’entità abbastanza solida. Ma deve anch’essa affrontare una sfida religiosa dalle sue frange Wahhabiste e una possibile sfida territoriale dalla minoranza sciita nella provincia orientale. La Dinastia di Saud

governa con il pugno di ferro e il suo Ente per la protezione della Virtù e la prevenzione del Vizio, invade le vite private dei cittadini. Il crollo dei prezzi del petrolio ha fatto contrarre le finanze del regno, il che inevitabilmente aprirà delle divisioni all’interno della società saudita. In assenza di una forte identità nazionale, l’Arabia Saudita potrebbe spaccarsi lungo linee  tribali, come la Somalia.

Queste sfide non si limitano al Medio Oriente. L’Unione Europea affronta molteplici forze centrifughe: la Brexit, delle economie fallimentari, una Russia insofferente. Gli euroscettici condannano il potere non democratico esercitato dalle istituzioni politiche a Bruxelles. La crisi in Siria non e affatto astratta per i paesi europei. L’afflusso dei rifugiati siriani ha provocato un’enorme spaccatura tra i paesi che non vogliono avere niente a che fare con loro (particolarmente l’Europa dell’Est) e i paesi che vogliono condividere equamente il peso. La disintegrazione della Siria è ora integralmente collegata alla disintegrazione dell’Europa, cosa che potrebbe sembrare

appropriata a coloro che credono nei fantasmi vendicativi del colonialismo.

Gli Stati Uniti sono lontani dal conflitto siriano, e finora l’amministrazione Obama ha limitato il numero di rifugiati  in entrata  a 10.000 (in confronto al milione e più che l’Europa ha accettato). Il problema degli immigrati ha certamente diviso i due più importanti candidati alla presidenza, e non c’è alcun consenso ai vertici sulla politica della Siria – il recente accordo di cessate il fuoco ha rivelato una grave frattura  tra il Dipartimento di Stato ( lavoriamo con i russi) e il Pentagono ( i russi, davvero?!). La Siria, però, non  metterà americani contro americani come ha messo gli europei contro loro stessi. Inoltre, malgrado  il notevole disaccordo su una  gamma di altri problemi  – tra il Congresso e il presidente all’interno della Corte Suprema, tra gli stati e l’autorità federale – questi conflitti sono stati paralizzanti piuttosto che causa di scissione.

La preoccupazione più seria è il  gran   numero di  pistole  negli Stati Uniti – oltre 300 milioni e la loro maggiore visibilità pubblica. Ora si può portare in giro pubblicamente la propria pistola in 45 stati e più di 14 milioni di persone hanno il permesso di farlo. Il numero delle milizie anti governative è andato aumentando fin dall’elezione di Barack Obama nel 2008. La fiducia nel governo federale è calata a minimi storici. Approssimativamente un americano su quattro vuole che il proprio stato  si separi dall’unione. Le divisioni tra ricchi e poveri, bianchi e neri, nati nel paese e immigrati si sono ampliate.

Di solito tutto questo scontento che intorbidisce  potrebbe essere contenuto da un’economia ben funzionante o da un insieme di nemici stranieri per mettere a fuoco l’ostilità americana. Ma l’elezione, l’anno prossimo, di un presidente detestato – fate la vostra scelta – potrebbe ben dimostrarsi  un punto critico. Non ci vuole molto per trasformare una popolazione  bene armata in una folla violenta.

E questo, naturalmente, è il massimo incubo per la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti:  quando la Siria smetterà di essere una oscura metafora di quello che accade fuori dai suoi confini e diventerà invece una triste realtà.

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/syria-as-metaphor/

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