L’articolo è stato pubblicato in inglese su Jadaliyya

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11, 12 nov 2016

 

Dentro Aleppo. Il conflitto urbano per capire la guerra

di Giovanni Pagani

 

La seguente esplorazione del paesaggio urbano di Aleppo – prima e durante il conflitto – tenta di spiegare le radici della crisi siriana in un quadro di simultaneità di rivalità settarie, strutture di potere e infiltrazioni straniere che influiscono sulla città con modalità differentemente distruttive

 

Prima parte

Roma, 11 novembre 2016, Nena News –

 

Dai giorni in cui giornalisti, analisti e personaggi politici commentavano con entusiasmo il carattere democratico e inclusivo della rivolta siriana, un’interminabile serie di narrative ha tentato di riassumere il conflitto. Un popolo oppresso insorto contro un regime brutale; un presidente tradito e vittima di un complotto internazionale; uno scontro tra ribelli ‘moderati’ e ribelli ‘radicali’; un moderno stato nazionale minacciato da una più ampia involuzione tribale; una guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita; un conflitto settario tra sciiti e sunniti e molte altre ancora.

 

Sebbene nessuna di tali spiegazioni sia totalmente errata, nessuna riesce tuttavia a spiegare in modo esaustivo le dinamiche del conflitto. Leggere infatti le guerre civili in chiave binaria può essere tanto riduttivo quanto fuorviante[1]; mentre riconoscere al contrario che un più complesso e intricato sistema di rivalità locali e internazionali trovino rinnovato slancio nel corso del conflitto può fornire una lettura più sfumata di come la violenza si articoli, evolva e muti in contesti di guerra irregolare.

 

In altre parole, nonostante ciascuna delle sovraesposte letture sia stata alternativamente corroborata dagli eventi sul campo, la guerra civile siriana – e la battaglia di Aleppo in particolare – si presenta come un processo estremamente complesso, nel quale una distesa di attori locali e internazionali mettono in gioco altrettanto differenti obiettivi, razionalità e motivazioni. La seguente esplorazione del paesaggio urbano di Aleppo – prima e durante il conflitto – tenta dunque di spiegare le radici della crisi siriana in tale quadro di simultaneità; nel quale rivalità settarie, strutture di potere e infiltrazioni straniere influiscono sulla città con modalità differentemente distruttive.

 

Aleppo in guerra

Seguendo una lettura settaria[2]del conflitto, Aleppo – in luce della sua popolazione prevalentemente sunnita – dovrebbe essere il focolaio di una ribellione sunnita contro un regime sciita filo-iraniano. Tuttavia, come suggerito dalla spazialità e dalle tempistiche dello scontro, altre logiche divisive sono entrate in gioco con lo scoppio della guerra.

Un primo sguardo alla geografia bellica di Aleppo mostra una divisione macroscopica tra le periferie orientali, controllate dai ribelli, e i quartieri occidentali in mano al regime; con la gran parte dei quartieri distrutti concentrati nel centro storico – intorno alla Cittadella – e lungo una sinuosa linea di fronte che si snoda da nord a sud.  In questo quadro, quelle che potrebbero presentarsi come spaccature provocate da semplici dinamiche di guerra, si rivelano in realtà divisioni più profonde e già radicate nel paesaggio urbano della città. E sebbene non si possa ignorare il ruolo giocato dagli attori esterni nell’alterare gli equilibri locali[3],il modo in cui Aleppo si è sviluppata negli ultimi quarant’anni e frammentata dal 2012 può fornire spunti rilevanti sugli attuali schemi di scontro.

 

Aleppo e la sua gente 

Dagli anni ’70 in avanti, Aleppo ha vissuto una massiccia espansione demografica accompagnata da un alto tasso di urbanizzazione. La popolazione dell’intero governatorato è quadruplicata – aumentando da uno a quattro milioni – mentre la popolazione urbana è passata da 700,000 abitanti nel 1970 a 2,5 milioni nel 2004. In tale quadro, se un aumento sostanziale nelle nascite ha interessato l’intero paese (i siriani sono quasi raddoppiati nello stesso periodo), una delle prime cause alla base della straordinaria crescita della città fu soprattutto un rapido influsso di migranti dalle aree rurali. Tale fenomeno migratorio era in parte conseguenza diretta di riforme agrarie fallimentari – il cui esito negativo fu ulteriormente esasperato da quattro anni di grave siccità (2007-2011) – e in parte stimolato dalle molte opportunità di lavoro offerte dal fiorente settore industriale della città.

 

È proprio in questa fase che una spaccatura profonda tra identità urbana e rurale diventò man mano più radicata nel sistema urbano: sia sotto forma di frattura fisica tra i tessuti più consolidati e i nuovi quartieri informali, sia come divisione socio-spaziale tra le comunità urbane e i nuovi arrivati. Socialmente, le comunità urbane guardavano con superiorità e disprezzo a coloro che arrivavano dalle campagne – i quali venivano spesso sfruttati come manodopera a basso costo[4]-; mentre spazialmente la rapida mobilità rurale si traduceva in uno sviluppo incontrollato delle aree informali, così come nell’amalgamarsi dei confini tra città e campagna.

 

In tale contesto di rapida e non pianificata urbanizzazione, è difficile affermare con certezza se i quartieri informali di Aleppo si siano sviluppati in opposizione alla città e alle sue autorità – come il loro status potrebbe suggerire – o se fossero piuttosto tacitamente approvati dallo stato come una soluzione di corto raggio all’emergenza abitativa.

Secondo l’architetta aleppina Salwa Sakkal, ad esempio, il seme della divisione tra i più ricchi quartieri occidentali e le aree informali sviluppatesi a est potrebbe già essere rintracciato nel masterplan disegnato da Gyoji Banshoya (1974)[5] nel quale le zone che l’architetto giapponese aveva dedicato alle abitazioni a basso costo – a nord, a est e a sud del centro antico – corrispondono approssimativamente all’attuale distribuzione dei quartieri informali – eccezion fatta per due quartieri residenziali sviluppati con soldi pubblici nelle aree di Hamdaniyeh e Masaken Hanano. In altre parole, il fatto che prima del 2011 il regime sembrasse intenzionato a riqualificare vari quartieri informali – come provato ad esempio da un progetto portato avanti dalla municipalità di Aleppo congiuntamente alla German Agency for Technical Cooperation (GTZ) – potrebbe suggerire che tali aree fossero state in qualche modo previste nel futuro sviluppo della città.

 

Note:

[1]S. N. Kalyvas, ‘The Ontology of PoliticalViolence: Action and Identity in CivilWars’.

[2]F. Balanche, ‘Géographie de la révoltesyrienne’, Outre-Terre 3/2011 (n° 29) , p. 437-458.

[3]Da un lato i gruppi armati jihadisti finanziati dai paesi del Golfo, dall’altro le milizie sciite libanesi e irachene hanno avuto un ruolo fondamentale nell’importare lo scontro confessionale ad Aleppo.

[4]Intervista a Thierry Grandin, architetto francese che ha vissuto e lavorato ad Aleppo dai primi anni ’80.

[5]S.Sakkal, ‘Croissance et controle de l’espace. L’informel et l’urbanisme, la municipalitéet l’état’, in Alep et sesTerritoires, ed JC David and T.Boissière.

 

Seconda parte

Roma, 12 novembre 2016, Nena News

 

Aleppo e il regime 

Mentre una corrispondenza lampante tra la distribuzione geografica di tali diseguaglianze e le attuali fratture prodotte dal conflitto smentisce qualsiasi spiegazione unilateralmente settaria della crisi siriana, è ugualmente inadeguato presentare la battaglia di Aleppo come unicamente determinata da ragioni di classe. In altre parole, la divisione tra identità urbana e rurale ha costituito ad esempio un fattore altrettanto cruciale negli sviluppi dello scontro, ma l’evoluzione e la morfologia del conflitto non possono essere pienamente spiegate senza considerare come le politiche implementate dal regime abbiano influenzato lo spazio urbano, la sua produzione e il suo controllo. Ciò comprende sia operazioni urbanistiche circoscritte sia, soprattutto, una fitta trama clientelistica abilmente intessuta dal clan degli Assad fin dalla loro ascesa al potere.

 

Per quanto riguarda il primo punto, interventi urbanistici di ampia scala sono sempre stati più rari ad Aleppo che in altre città siriane – ad esempio Damasco, Tartus o Latakia – e per lo più implementati non oltre gli anni ottanta. Un discorso a parte dovrebbe tuttavia esser fatto per il quartiere di al-Hamdaniyeh, la cui costruzione fu supervisionata dal Military Housing Establishment e ultimata nel 1990. Infatti, non solo si trattava di uno dei due unici quartieri residenziali costruiti con soldi pubblici ad Aleppo, ma il fatto che fosse originariamente pensato per ospitare le famiglie di ufficiali dell’esercito, unito alla sua vicinanza all’Accademia militare,contribuì a identificare il quartiere come marcatamente filo-governativo.

 

A tal proposito, la pratica spaziale di garantire ai membri dell’esercito – o di altri apparati di sicurezza – un accesso agevolato a servizi garantiti dallo stato era più comune negli anni ottanta che nei decenni successivi, e funzionale tanto a rafforzare la coesione tra gli ufficiali quanto a creare aree cuscinetto per il regime in caso di proteste[1]. Da questa prospettiva, nonostante molti appartamenti ad al-Hamdaniyeh siano stati successivamente venduti ad altre famiglie, il quartiere ha continuato ad essere percepito come lealista anche durante la rivoluzione; e a dispetto della sua vicinanza alla linea di fronte, non è un caso che abbia riportato danni materiali relativamente ridotti.

 

In aggiunta a ciò, è ugualmente importante prestare attenzione alle strategie messe in atto dal regime per assicurarsi la fedeltà dei suoi clienti, mantenendo allo stesso tempo il controllo sulla produzione dello spazio. Tali network clientelistici penetravano la società siriana a vari livelli, definendo tanto i canali di reclutamento negli apparati di sicurezza, quanto privilegi economici e accesso facilitato ai servizi statali. Fin dagli anni ottanta, prima Hafez al-Assad e poi suo figlio Bashar sono infatti riusciti a costituire solide alleanze con alcune tribù provenienti dalle aree peri-urbane e insediatesi nei quartieri più centrali di Aleppo.

 

Tale processo era sia parte di una strategia più ampia di conferire maggiore potere ai leader locali in cambio di sostegno politico, e un modo di comprare il sostegno delle classi più povere al fine di neutralizzare la borghesia urbana sunnita, la quale nel 1982 aveva dato appoggio all’insurrezione guidata dalla fratellanza musulmana. Infatti, nonostante il discorso ufficiale del partito Baath abbia sempre rigettato i settarismi e i legami tribali, in quanto potenziale minaccia per la nazione araba, tali identità sub-nazionali sono state sfruttate a varie fasi per dividere la società e neutralizzare il dissenso politico.

 

A tal proposito, i Berri erano probabilmente l’alleato più potente del regime ad Aleppo, dove il clan godeva di completa autorità sul quartiere di Bab al-Nayrab, così come di un ampio margine di controllo sullo spaccio di droga, armi e alcool in città dall’inizio degli anni ’80[2]. Tale forma di clientelismo è in parte ascrivibile al più ampio fenomeno della shabiha – ovvero i gruppi criminali armati pagati dal regime e operanti al di fuori dalla legge, largamente impiegati da Assad per reprimere la rivolta. I primi gruppi di questo tipo si costituirono all’interno delle comunità costiere alawite all’inizio degli anni ’70 e guadagnarono un ruolo centrale nella gestione dei traffici di contrabbando attraverso il confine libanese.

 

Nei decenni seguenti, e soprattutto a partire dal 2011, il termine ha acquisito un significato più ampio, essendo utilizzato per descrivere quella costellazione di gruppi paramilitari e criminali che si schierarono dalla parte del regime[3], al fine di preservare i propri privilegi economici. E nonostante sia corretto definire la shabiha e i suoi canali di reclutamento come un fenomeno prevalentemente alawita, non è raro trovare analoghi gruppi sunniti, soprattutto nell’area di Aleppo. Il clan dei Berri ne è un chiaro esempio.

All’esplosione del confitto nel 2011, il clan– il leader del quale era un membro del parlamento siriano fino al suo assassinio nel 2012 per mano del Free Syrian Army – così come altre confederazioni tribali con analoghi legami al regime scelsero una linea lealista e istituirono numerose milizie sul modello della shabiha[4]. Non è dunque un caso che i margini sud-orientali del centro storico – dove si trova proprio il quartiere di Bab-al Nayrab – sia diventata terreno d’intenso scontro tra le forze lealiste e l’opposizione; riportando un gran numero di vittime e di edifici distrutti.

 

Inoltre, come illustrato da Omar Abdulaziz Hallaj – architetto e consulente in campo di sviluppo, originario di Aleppo – fin dagli anni ’80, il settore urbanistico ebbe un ruolo cruciale nell’assicurare aHafez al-Assad l’appoggio della borghesia aleppina. E mentre i progetti di sviluppo urbano erano pubblicamente coordinati, aprivano al contempo ampi spazi di partnership tra pubblico e privato, così come ricche opportunità di speculazione economica. La legge di Espansione Urbanistica 60/1979 – poi modificata dalla legge 26/2000 – aveva inizialmente definito il quadro legale in base al quale il governo avrebbe espropriato ampie fasce di terreno agricolo ai margini del nucleo urbano per favorire lo sviluppo infrastrutturale, mentre gli alti esponenti della borghesia aleppina – assieme a molti ufficiali dell’esercito –godeva di ampi margini di libertà per la speculazione edilizia e per la vendita di unità residenziali. In altre parole, pur mantenendo una virtuale egemonia sulla produzione e utilizzo dello spazio, il governo creava le condizioni affinché i propri clienti potessero investire indisturbati[5].

 

Tuttavia, un’ampia percentuale delle terre espropriate apparteneva alle comunità peri-urbane e rurali; e mentre le attività immobiliari favorivano la borghesia aleppina, svantaggiavano al contempo le campagne, già escluse dai network di potere illustrati sopra e profondamente disillusi rispetto alle politiche governative.

 

Conclusione 

“Abbiamo liberato le zone rurali della provincia. Aspettavamo che la città insorgesse ma ciò non accadde. Le comunità urbane non ce l’avrebbero mai fatta da sole da sole, abbiamo dovuto portar  loro la rivoluzione”. (Reuters, estate 2012)  

L’iniziale assenza di scontri armati ad Aleppo testimonia come all’esplosione del conflitto nel 2011 la città non fosse inizialmente incline a sposare la rivoluzione. E mentre le campagne insorsero rapidamente contro il regime, le comunità urbane sono rimaste più silenziosamente neutrali. A tal proposito, si potrebbe sostenere che i meccanismi divisivi di potere sviluppati dal regime avessero salvaguardato con successo lo scetticismo di Aleppo nei confronti della rivolta.

 

Quando, in un secondo tempo, i gruppi armati ribelli hanno aperto un canale d’accesso alla città, vi sono riusciti proprio grazie all’appoggio di quei quartieri più poveri e sviluppatisi informalmente, che nel corso degli anni avevano sofferto tanto dell’assenza di servizi statali quanto dell’esclusione dalle reti clientelistiche intessute dal regime. A tal proposito, il fatto che gli abitanti di tali aree fossero di confessione sunnita era dovuto più al precedente assetto demografico della regione che a un risentimento settario nei confronti del clan degli Assad. E nonostante in alcune aree l’identità confessionale sia stata efficacemente sfruttata per catalizzare il dissenso nei confronti del regime alawita, molti oppositori condividevano lo stesso background sociale e religioso.

 

In questo quadro, le pratiche divisive messe in atto dal regime si sono dimostrate particolarmente efficaci ai margini meridionali e sud-orientali del centro storico, dove ora si rileva la gran parte dei danni materiali e dove diverse tribù rimaste leali al regime[6] hanno avuto un ruolo fondamentale nell’alimentare una guerriglia urbana alla scala di quartiere. Tali confederazioni tribali vedevano nella rivoluzione un’opportunità per dimostrare la propria lealtà al regime e per sottolineare l’importanza l’importanza del loro sostegno nel quadro più ampio del conflitto. Quando l’opposizione ha fatto ingresso nei quartieri più lealisti – dai quali molti membri della shabiha avevano origine – lo scontro ha infine raggiunto lo stadio più brutale.

 

Sull’altro fianco della citta, invece, la popolazione benestante dei quartieri occidentali vedeva in Bashar al-Assad tanto una garanzia di stabilità politica, quanto un’indispensabile fonte di benefici economici. E il mantenimento dei propri privilegi, assieme alla sicurezza di un sicuro accesso a migliori opportunità d’investimento, costituì probabilmente la ragione principale alla base della lealtà di tali quartieri. Inoltre, la presa del governo su questa metà della città è rinforzata dalla presenza di cinque basi militari posizionate a ovest della Cittadella.

 

Per concludere, la frattura tra identità urbana e rurale, rivalità settarie, legami tribali e divisioni socio-economiche si intrecciano fittamente nella geografia bellica di Aleppo. Quest’ultima riflette tanto la complessa articolazione del potere del regime, quanto una più ampia serie di rivalità latenti che la guerra civile ha contribuito a riportare in superficie. Da questa prospettiva, Aleppo fornisce uno scorcio particolare sulla crisi siriana, ma ulteriori ricerche socio-spaziali sarebbero necessarie al fine di comprendere sia le radici sociali del conflitto sia la loro riflessione spaziale nelle varie città del paese.

Ciascuna città siriana è frammentata da una molteplicità di linee diverse, che danno forma a una storia propria, fatta di molte narrative, nella quale rivalità tradizionali, intricate pratiche di potere, interessi stranieri ed emozioni della gente esercitano i propri effetti divisivi sul prisma urbano. Comprendere come questi schemi s’intrecciano sia con gli sviluppi urbani precedenti al conflitto, sia con la frammentazione prodotta da quest’ultimo rappresenta un nodo fondamentale per ogni discorso sulla ricostruzione. Nena News

 

Note:

[1]S.Ismail, ‘Urban Subalterns in the ArabRevolutions: Cairo and Damascus in Comparative Perspective’, Comparative Studies in Society and History, vol. 55, issue 4, Oct. 2013.

[2]Y. Salih, ‘The Syrian shabiha and Their State: Statehood and Participation’, publicato dall’Heinrich BoellStiftung, marzo 2014.

[3]A. Nakkash, ‘The Alawite dilemma in Homs: Survival, Solidarity and the making of a Community’, pubblicato dalFriedrich EbertStiftung, Marzo 2013.

[4]Y. Salih, ibid.

[5]Intervista a Omar Abdulaziz Hallaj.

[6]Hasasne, Zeido, Baggara, Berri e Hamida sono alcuni dei clan rimasti più fedeli al regime di Assad.

 

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