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18 Febbraio 2016

 

L’inferno siriano nel contesto della nuova guerra fredda

di Andrea Muratore 

 

La Siria senza legge, senza unità, senza pace. La Siria martoriata e contesa, la cui tragedia non appare nella mente dei decisori della politica internazionale se non come “danno collaterale” della rivalità geopolitica tra superpotenze e tra potenze regionali.

 

A tredici anni esatti da quel 15 febbraio 2003 che, come ricorda Gino Strada in un toccante post sul suo profilo Facebook, unì venti milioni di europei (tre dei quali nella sola Roma) scesi in piazza per manifestare in massa contro l’imminente, catastrofica, invasione dell’Iraq, nell’impotenza se non nella sostanziale indifferenza di buona parte dell’opinione pubblica internazionale la catastrofe siriana conosce un ulteriore inasprimento. Il missile di provenienza ignota che rade al suolo l’ospedale di Medici Senza Frontiere presso Aleppo colpisce uno dei pochi e simbolici avamposti residui della civiltà in una nazione annientata, sradicata, via via imbarbaritasi nel corso di questi ultimi anni. Una manifestazione ridotta della devastante potenza di fuoco dispiegata dall’interminabile elenco di potenze militari internazionali e fazioni ostili reciprocamente attivo nel teatro bellico siriano si è rivelata più che sufficiente devastare irreparabilmente uno dei pochi centri dove ancora si mirava a conservare e preservare la vita. Il susseguente palleggiarsi di responsabilità tra le cancellerie internazionali testimonia il grande gelo sorto a livello diplomatico, la reale concretezza di una nuova Guerra Fredda che giorno dopo giorno si inasprisce sulla scia del continuo accumularsi di tensioni e contrapposizioni tra lo schieramento facente capo a Mosca e la coalizione formalmente a guida americana ma al cui interno l’aspirante sultano Erdogan acquisisce giorno dopo giorno un’influenza sempre maggiore.

Ed è proprio l’azione dell’esercito turco, che ha iniziato i cannoneggiamenti del Rojava ritenendo le milizie curde YPG (Unità di protezione popolare) nient’altro che un’emanazione del fortemente contrastato PKK, a congedare con disonore l’ottimistica profezia del Segretario di Stato USA secondo la quale la firma degli accordi di Monaco avrebbe portato alla cessazione dei combattimenti entro una settimana. Il presidente turco, preso atto della progressiva disgregazione delle fazioni a lungo foraggiate dal suo governo, mira a garantirsi un’area cuscinetto per arginare l’espansione del territorio sotto il controllo dei suoi antagonisti, ovverosia il legittimo governo di Damasco e la repubblica dei curdi siriani. Di fronte a questa inopinata azione l’amministrazione Obama ha mantenuto un imbarazzato silenzio, essendo oramai palese l’inconciliabile frattura tra le dichiarazioni di intenti professate al momento dell’inizio delle operazioni contro il sedicente Califfato al confine tra Siria e Iraq e l’attuale stato di cose, che vede la coalizione a guida USA orientata su obiettivi ben diversi rispetto a quelli iniziali pertinenti l’annientamento delle forze di Al Baghdadi. Se oramai la reale incidenza dell’autoproclamato Stato Islamico come forza combattente è da ritenersi praticamente inconsistente, dopo il martellamento subito ad opera dell’aviazione russa negli ultimi cinque mesi, lo stesso non si può dire di diversi gruppi di forze ribelli al governo di Damasco con le quali Assad vorrebbe chiudere i conti nelle prossime settimane e attorno al cui status si concentrano le principali dispute tra le potenze impiegate in una Siria divenuta oramai, come scrivevamo su “L’Intellettuale Dissidente” lo scorso sabato, la linea di faglia più attiva della geopolitica mondiale.

È una (nuova) Guerra Fredda vecchio stampo, totalizzante, quella che in un’atmosfera sempre più carica di elettricità va in scena parallelamente all’annoso conflitto siriano. Una nuova Guerra Fredda che si è negli anni radicalizzata, dopo che se ne erano viste le avvisaglie durante la grave crisi georgiana dell’estate 2008, a seguito del progressivo riequilibrarsi dei rapporti di forza tra Russia e Stati Uniti che ha lentamente esacerbato le tensioni e portato alle più recenti prove di forza in Ucraina e Medio Oriente. Mosca ha visto un salto di qualità consistente nel suo impegno in terra siriana: oramai per la Russia di Putin la questione cruciale non riguarda più la semplice permanenza al potere di Assad e la difesa del suo governo contro le minacce che gli portavano i gruppi terroristici, ma bensì un generale rafforzamento dell’autorità del governo di Damasco che funga da preludio a un progressivo ripristino della sua influenza sulla grande maggioranza del territorio siriano. In tal senso, la strategia russa è favorevole al mantenimento al potere del rais nella fase cruciale del conflitto e nella prevista futura fase di transizione, essendo Assad ritenuto il migliore garante possibile di un suo svolgimento ordinato. La sempre maggiore convergenza con Teheran ha ulteriormente accentuato l’impegno profuso dalla Russia in favore di uno dei suoi principali alleati. La presenza, nella costellazione di forze che si oppongono ad Assad, di molti gruppi militari dalle inclinazioni fortemente estremistiche, decisamente inclini a uno sfruttamento politico-militare del fondamentalismo religioso, rendono per l’amministrazione Putin ancora più all’ordine del giorno il contenimento del loro potere: necessità ulteriormente rafforzata dai forti parallelismi riscontrabili tra la situazione siriana e quella vissuta in prima persona dalla Russia stessa nelle sue regioni periferiche meridionali durante la traumatica guerra di Cecenia e la più recente esperienza del duro conflitto contro l’Emirato del Caucaso.

Alle mosse di Mosca gli USA rispondono in maniera contraddittoria. Manca nei decisori della politica estera di Washington un chiaro indirizzo, in quanto le mosse sono condotte dall’amministrazione Obama in maniera scoordinata e decisamente scostante. Già ampiamente dimostrata dalla conduzione della campagna contro il sedicente Califfato, la confusione che regna nelle alte sfere della politica americana è figlia di un quindicennio ininterrotto di guerre e tensioni che hanno progressivamente annebbiato le forze maggiormente innovative e costruttive del Dipartimento di Stato. Nei fatti, questo ha portato negli anni gli Stati Uniti a inserirsi in un vicolo cieco: anni di proclami sulla necessità di un cambio di regime a Damasco hanno reso loro impossibile recedere da queste posizioni e aprire spiragli sulla permanenza futura di Assad al potere; la volontà di mantenere fedeli gli alleati regionali (Turchia e Arabia Saudita) gli ha spinti a chiudere ben più di un occhio per quanto riguardava le ambiguità delle loro politiche estere, finalizzate a destabilizzare la Siria attraverso il finanziamento dei gruppi più radicali; la pesantissima influenza del gruppo neoconservatore, infine, ha reso impossibile a lungo da parte di Washington il riconoscimento delle istanze di altre potenze, facendo perseverare il governo americano nella difesa a oltranza del deperito sistema unipolare. E mentre l’ancoramento alle proprie posizioni erodeva mese dopo mese l’influenza di Washington, gli spazi di manovra sempre maggiori accordati all’asse turco-saudita rendevano le mosse delle due nazioni sempre più importanti per peso specifico nella coalizione “occidentale”. La sempre maggiore contrapposizione con Mosca nel teatro siriano è stata quindi in misura non secondaria dovuta all’obbligatorietà del cammino che si sono imposti gli Stati Uniti, impostato su una rotta decisa sulla base di assunti geopolitici oramai decaduti.

Nel mezzo dei due contendenti principali, la Siria. La Siria senza legge, senza unità, senza pace. La Siria martoriata e contesa, la cui tragedia non appare nella mente dei decisori della politica internazionale se non come “danno collaterale” della rivalità geopolitica tra superpotenze e tra potenze regionali. Mentre gli esiti della guerra civile appaiono sempre più legati all’andamento dei combattimenti sul terreno e sempre meno influenzabili dalle potenze internazionali con manovre che esulino dall’uso della forza, la nuova Guerra Fredda conosce ulteriori punti di tensione. Dopo aver tentato di abbattere la Russia con le sanzioni, l’assedio economico e i tentativi di isolamento internazionale, gli USA e la NATO stanno tornando a una contrapposizione più “esplicita”, rafforzando la dotazione di forze aeree delle basi in Finlandia e Turchia. E proprio le ambigue politiche condotte dalla Turchia, membro NATO a tutti gli effetti ma attualmente ai ferri corti con Mosca, con la quale i rapporti diplomatici sono prossimi allo zero, rappresentano l’elemento di imprevedibilità che rischia di far deragliare la corsa dai suoi incerti binari. L’avvicinarsi costante delle linee dell’esercito di Assad, che avanza sulla scia del tracollo delle forze ribelli e dei miliziani, al perimetro d’azione degli obici turchi andrà monitorato ora dopo ora. In qualsiasi momento, infatti, un passo falso dell’una o dell’altra parte potrebbe avere conseguenze catastrofiche, e ora più che mai serve fare in modo che nessuna delle parti in causa sia spinta a commetterlo.

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