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Marzo 24, 2016

 

Palmira ci dice che Putin ha ragione

di Fulvio Scaglione

Già vice-direttore di Famiglia Cristiana e corrispondente da Mosca

 

C’è poco da esultare, perché la guerra è comunque una cosa schifosa. E c’è poco da gridar vittoria,  perché la battaglia per estirpare l’Isis sarà ancora lunga e sanguinosa. Ma le notizie che arrivano da Palmira, la grande città e il grande sito archeologico occupati dall’Isis un anno fa e adesso sul punto di essere liberati dall’offensiva dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa, fanno tornare alla mente tutte le volte in cui ci siamo sentiti ripetere, in questi mesi, che l’intervento militare ordinato da Vladimir Putin non avrebbe fatto che complicare le cose, allungare la guerra, favorire l’Isis.

Quanti illustri analisti americani hanno tentato di propinarci questo parere? Ho sotto gli occhi, mentre scrivo, un complesso articolo pubblicato a fine ottobre 2015 dalla Brookings Institution, intitolato appunto: “L’intervento russo in Siria: come prolungare un conflitto già senza fine”. A metà di questa “analisi” veniva anche detto che “L’Isis beneficerà del coinvolgimento russo, in particolar modo perché l’opposizione subisce una grande offensiva nei dintorni di Aleppo”. Perché come tutti sanno intorno ad Aleppo operavano non (anche) i miliziani di Al Nusra o Jaysh al-Fatah ma solo nuclei di gentlemen in ghette e bombetta. E con quanta solerzia questi pareri venivano trasferiti sui nostri organi di stampa.

Adesso, invece, i cattivi russi e siriani incalzano l’Isis a Palmira e anche a Deir Ezzor, dove 200 mila persone sono assediate da un anno dai tagliagole dell’Isis senza che nessuno strepiti o protesti per la violazione dei diritti dell’uomo.

La realtà è quella opposta: l’intervento di Vladimir Putin, pur mirato soprattutto a rinsaldare il Governo di Bashar al-Assad, ha dato un impulso decisivo alle operazioni militari contro l’Isis. Barack Obama, che aveva snobbato i russi e per un po’ aveva continuato a insistere con l’idea “prima fuori Assad e poi si discute”, ha dovuto cambiare strategia e accettare il principio che, invece, “prima fuori l’Isis e poi si discute”. I successi dei curdi appoggiati dagli Usa nel Nord della Siria sono la testimonianza di questo cambio di rotta, così come l’avanzata dell’esercito iracheno verso Mosul.

In sostanza, fino al settembre 2015, quando i russi hanno cominciato a operare e a cambiare la situazione sul campo, nella lotta contro l’Isis si è soprattutto perso tempo, continuando a sperare che i jihadisti facessero fuori Assad e consegnassero la Siria alle milizie sunnite ispirate dall’Arabia Saudita. Obama, in questo modo, è riuscito a compromettere la credibilità dell’America anche agli occhi dei cristiani del Medio Oriente. Che sono una minoranza ma non quattro gatti, pur sempre 7 milioni di persone. Sono in gran parte (circa il 70%) ortodossi come i russi. E, soprattutto, sono una minoranza che “pesa” ben oltre il numero ovunque sia presente. Per più di un anno i rappresentanti delle comunità della Siria e dell’Iraq, dove ci sono i nuclei di cristiani più consistenti, hanno chiesto invano un intervento militare serio, anche con truppe di terra. Di chi pensate che si fidino di più, adesso?

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