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14 aprile 2016

 

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

di Claudia Avolio

 

Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, colorandola come sempre coi colori della bandiera palestinese.

Invece di disegnarli, gli scontri di quei giorni li avevo scritti lungo il contorno. Il campo veniva colpito da tutti i lati. “Non sono io. Cosa?! Sì, siete voi! Ah, non tu? No, non io. Davvero, sono loro! Lui! Lei!”. Al centro, intanto, un pronome restava inascoltato, non pronunciato. “E noi…?”. Le famiglie, i civili. “Pensate alla gente, il campo è un abbraccio”, mi era venuto da scrivere ritagliando in quel nero un po’ di bianco.

Aprile 2016. Un anno è trascorso da una delle pagine nere registratesi a Yarmuk. L’ennesima, dopo le morti sotto tortura nelle carceri del regime, le morti per fame e disidratazione e mancanza di assistenza medica per via dell’assedio, i cecchini, i bombardamenti, gli assassini politici all’interno, le sofferenze quotidiane.

E oggi, nella morsa degli scontri, a pagare sono ancora una volta i civili. Anche se da quel disegno è trascorso un intero anno.

Dal 7 aprile, come documentato dal Gruppo d’azione per i palestinesi in Siria, l’Isis si sta scontrando con Jabhat al Nusra. La zona degli scontri comprenderebbe, tra le altre, anche via al Ja’una, via Lubia, via Haifa, via Safad e via Sufuriyya (lato orientale del campo), via dei 15 (lato occidentale). Nelle aree citate sarebbero presenti anche diversi cecchini dei due gruppi di militanti.

Il Gruppo d’azione parla anche di colpi di mortaio che sarebbero stati lanciati sia dal regime siriano che dall’Isis con obiettivo le zone controllate da Jabhat al Nusra. Il gruppo non cita la fonte e non ho modo di verificare la veridicità o meno di tale responsabilità attribuita alle due parti.

Quello che succede in genere per via degli scontri è che il passaggio tra Yarmuk e Yalda (area a sud-est del campo) viene chiuso. In questo caso, almeno in un primo momento, è stato permesso ad alcune persone del campo di entrarvi. Ma restando col fiato sospeso per quello che accade nel loro campo e nelle case dovute lasciare magari con dentro alcuni familiari a difenderne la proprietà e i ricordi. La vita di tutti i giorni.

L’assedio parziale è stato imposto a Yarmuk dal regime siriano e dalle milizie lealiste sul finire del 2012, l’assedio totale nell’estate del 2013.

L’acqua manca da oltre un anno e mezzo. In questi giorni per via degli scontri e dei cecchini si è parlato di famiglie che si sono trovate a non potersela procurare neanche dai punti di distribuzione allestiti. Rivivendo, come nell’aprile dell’anno scorso, un secondo assedio nelle loro case dentro l’assedio del loro campo.

Secondo fonti locali, nella notte del 12 aprile delle case nel campo sono state bruciate. C’è chi come il Gruppo d’azione ne attribuisce la responsabilità all’uso di molotov da parte dell’Isis e chi dice che anche al Nusra ne ha bruciate. Non ho modo di entrare nello specifico delle responsabilità per verificarle.

Le fiamme della notte scorsa hanno lasciato un segno profondo nelle coscienze degli abitanti di Yarmuk dentro e fuori il campo. Tanto da lanciare la campagna: “Il campo di Yarmuk viene bruciato”.

Un attivista fuori dal campo, A., ha scritto in questo senso uno sfogo: “Hanno bruciato la gente della casa. E ora stanno bruciando la casa. Tutti loro hanno preso parte al rogo del campo. E tutti loro hanno partecipato al dare fuoco a noi e a tutto ciò che fa parte della nostra vita”.

Oggi, 13 aprile, il Gruppo d’azione ha lanciato un appello per scongiurare l’ennesima catastrofe umanitaria, in cui chiede:

- il tempestivo intervento di tutte le parti per fermare i combattimenti, considerare i civili come neutrali ed evacuarli in zone più sicure all’interno del campo;

- la fine dell’assedio di Yarmuk e l’accesso di aiuti e personale medico e umanitario perché offrano assistenza immediata ai rifugiati nel campo;

- l’intervento del governo siriano e dell’Olp perché salvino ciò che resta del campo;

- che le parti in conflitto rispettino le regole della guerra e applichino i trattati e gli accordi internazionali che richiedono la protezione dei civili nelle zone colpite da conflitti armati;

- l’attivarsi dell’Unrwa e della comunità internazionale perché compiano il proprio dovere verso i rifugiati palestinesi in Siria;

- l’interazione tra le fondazioni della società civile e le organizzazioni per i diritti umani e i media rispetto a quanto sta succedendo nel campo, perché gettino una luce sulla tragedia dei rifugiati al suo interno per mostrare la verità della situazione umanitaria.

Forse c’è chi guarda al campo e vede parti in conflitto. Io vedo le famiglie di cui da lontano registro ogni giorno le storie. La vita. Che siano oggi tra i 3 e i 5 mila civili, e non più 18 mila, non 30 mila, non 150 mila, anche tra quelle poche migliaia ognuna delle loro storie è diventata una parte di me. Una parte di me è sotto doppio assedio. Una parte di me è andata in fiamme con le case. Una parte di me vive perché Yarmuk vive. E farà ancora una volta di tutto per continuare a vivere.

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