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21 Luglio 2016

 

Turchia, i diritti femminili sempre più a rischio

di Francesca Buonfiglioli

 

Le donne in Turchia sono nel mirino. Con Erdogan al potere, +400% di stupri. Oltre 120 femminicidi solo nel 2016. E il turban potrebbe diventare obbligatorio. 

 

La nonna ribelle con la mascherina e la fionda contro i poliziotti di piazza Taksim. Come Ceyda Sungar, la «ragazza in rosso», con l'abito sferzato da un lacrimogeno a Gezi Park.

Scatti simbolo delle proteste del 2013, ora fotogrammi sbiaditi di una Turchia che sembra non esistere più. Con la repressione messa in atto da Erdogan dopo il tentato golpe, l'unico rosso che resta è quello delle bandiere con la Mezzaluna che, insieme con le gigantografie del presidente, inondano gli stessi luoghi, stravolgendo il senso di una toponomastica che avevamo imparato a conoscere durante la ribellione anti-governativa. Non solo: in piazza Taksim, ora casa dei lealisti e dei supporter del 'nuovo padre della patria', mancano i colori e si intravedono poche donne. 

 

QUELLE PIAZZE AL MASCHILE.

L'opposizione ai militari a partire dalla lunga notte del 15 luglio è infatti declinata al maschile. «C'erano donne in strada», chiarisce a Lettera43.it Burcu Karaka?, giornalista turca in prima linea per i diritti, «ma erano poche. Per questo non è corretto parlare di proteste senza donne, ma dominate dagli uomini sì». E questo magari anche per questioni di sicurezza: «In quelle ore regnava il caos e forse le donne si sentivano in pericolo a scendere in strada». Una sensazione che continua anche oggi: «Ci sono stati casi di molestie a sfondo sessuale nei confronti di alcune ragazze 'laiche'», dice Karaka?. «È veramente pericoloso. È un clima che ci fa preoccupare molto». Così la sera le ragazze preferiscono chiudersi in casa, per evitare le ronde dei soldati del presidente.

 

VIOLENZE E STUPRI IN AUMENTO.

«Per le donne turche sono giorni molto difficili. I casi di violenza risultano in aumento, ci sono denunce di stupri e temiamo che sia solo l'inizio», racconta Gulsum Kav, dottoressa e responsabile della piattaforma Fermeremo i femminicidi. «Le strade sono sempre più pericolose, e il rischio è quello di alimentare la formazione di un regime islamico autoritario». Dalle minigonne indossate come in qualsiasi altra capitale europea, si è passati alle minacce degli ultrà nazionalisti che promettono il ritorno dell'obbligo del velo. Minacce che ora sono diventate esplicite, gridate in pubblico senza vergogna. Ma che danno voce a un sentimento strisciante da anni in Turchia. «L'islamizzazione del Paese», conferma Karaka?, «è un processo cominciato con l'arrivo dell'Akp al governo». Per questo, mette in chiaro: «Non si tratta di una novità». «Noi donne turche», continua, «abbiamo affrontato molte sfide negli ultimi anni. Ogni diritto è a rischio, soprattutto in queste condizioni di instabilità politica».

 

I diritti delle donne sono a rischio. «Ma non è una novità»

Karaka? ha ragione. Le discriminazioni contro le donne in Turchia non sono una novità. Né un'emergenza scoppiata dopo il fallito golpe. Basta dare uno sguardo alla classifica del Gender Gap del World Economic Forum che nel 2015 piazzava il Paese alla 130esima posizione su 145. Poco sopra ad Arabia Saudita, Iran, Yemen ed Egitto. Nella grande assemblea nazionale, tanto per fare parlare i numeri, su 550 eletti le donne sono solo 96. In lieve aumento rispetto al 2011, quando erano solo 79.

 

123 FEMMINICIDI NEL 2016.

Più preoccupanti, invece, i dati dei femminicidi. Solo nel 2015, secondo alcune associazioni in difesa della donna, sono stati 300, e nei primi sei mesi del 2016 si è già arrivati a quota 123. Nel 2015, dopo l'omicidio di Ozgecan Aslan, studentessa di 20 anni uccisa e bruciata a Mersin per aver resistito a uno stupro, alcuni uomini in minigonna avevano sfilato per Istanbul al grido e all'hashtag di «Indossiamo una gonna per Ozgecan». Un modo per richiamare l'attenzione su un fenomeno, quello delle violenze sessuali, aumentato del 400% dal 2002 e cioè da quando l'Akp è al potere. «Da allora la condizione delle donne è peggiorata», spiega Karaka?. «Le politiche dell'Akp non sono pro-donne, sentiamo esponenti del partito parlare in modo ostile nei confronti del mondo femminile e sono pessimista riguardo al futuro».

 

Il velo di Erdogan sulla società

L'islamizzazione è stata come un velo con cui l'Akp ha gradatamente coperto la società turca insieme con il capo delle donne. Vietato nelle scuole, nelle università e negli edifici pubblici dal 1997, il turban era considerato uno strumento antiliberale simbolo della sottomissione della donna.  Il partito di Erdogan si è sempre schierato, in nome della libertà di religione, per l'abolizione del divieto. Raccogliendo i malumori della popolazione islamica oppressa - anche economicamente - dal regime kemalista.

 

TURBAN, UNA QUESTIONE POLITICA.

Sotto la parvenza culturale, il dibattito è in realtà politico. Capace di infiammare gli animi, come dimostrò nel 2006 l'uccisione da parte di un fanatico religioso del giudice Yucel Ozbilgin che aveva negato a una donna di indossare il velo durante il lavoro in una scuola.

Sei anni dopo, nel 2012, l'ingresso della first lady Emine Erdogan con il turban al party organizzato per il 92esimo anniversario dell'assemblea nazionale fu lo schiaffo ufficiale del leader Akp alla laicità imposta da Atatürk. E nel 2014 il divieto venne abrogato nelle scuole pubbliche.

 

Allah, patria, famiglia

Il velo, che ora alcuni fanatici vorrebbero addirittura imporre, è solo uno dei sintomi superficiali del processo di islamizzazione lanciato dal presidente turco.

Nostalgico dell'impero ottomano, Erdogan ha sempre portato avanti una politica demografica volta a riportare la Turchia alla sua passata grandezza.

 

VISIONE NEO-OTTOMANA.

«Accresceremo le prossime generazioni», aveva dichiarato lo scorso maggio. «Moltiplicheremo i nostri discendenti perché abbiamo bisogno di aumentare il numero dei nostri eredi. Rispetteremo le indicazioni di Dio e del nostro amato profeta». A giugno, invece, inaugurando la nuova sede del Kadem, l'associazione per le donne e la democrazia a Istanbul presieduta da una delle sue figlie, ha invitato le signore a «fare almeno tre figli», perché «una donna senza figli ha una vita incompleta». «Rifiutare la maternità», ha pontificato, «significa rifiutare l'umanità».

Questo non significa rinunciare alla carriera. Ma deve essere chiaro che «il loro ruolo professionale non dovrebbe mai fare ombra alla possibilità di essere madre».

Una Turchia tutta Allah, patria e famiglia quella pensata da Erdogan. Che lo scorso anno ha pensato bene di sostituire il ministero della Donna con quello della Famiglia.

 

LA FATWA CONTRO L'ABORTO.

Tutte posizioni coerenti con la fatwa lanciata contro il controllo demografico definito «tradimento della patria» e pure contro gli «innaturali» parti cesarei che «riducono la fecondità». Erdogan ha maledetto a più riprese anche l'aborto paragonandolo a un «omicidio», anzi peggio a un «Uludere» disse nel 2012, riferendosi al distretto ai confini con l'Iraq nel quale un raid dell'aviazione uccise 34 civili. Nell’estate 2012, l'allora premier aveva cercato di forzare la mano dal punto di vista legislativo, facendo preparare una proposta di legge che permetteva di abortire solo entro la quarta settimana. Progetto bloccato solo perché il 55% della popolazione si disse contraria. Nel 2013 invece, poco prima dell'esplosione delle proteste di Gezi Park, riuscì a fare passare il divieto della vendita della pillola del giorno dopo senza ricetta medica.

 

La first lady ha nostalgia degli harem

La donna turca è moglie, madre. E, per svolgere questa sua funzione sociale al meglio, deve prepararsi. Perché non in un harem? Come quelli dell'impero ottomano, scuole che «preparavano le donne alla vita», ha dichiarato l'8 marzo in occasione di un'uscita ufficiale la first lady. «L’harem era una scuola per i membri della dinastia ottomana e un centro educativo per preparare le donne alla vita», ha aggiunto. Peccato che le ospiti fossero anche sottomesse e a volte ridotte in schiavitù. 

 

SORRISO BLASFEMO.

Nel 2014, per celebrare l'Eid-al-Fitr, la fine del Ramadan, il vicepremier Bülent Arinç sentenziò: «La donna saprà riconoscere cosa è peccato e ciò che non lo è. Lei non dovrà ridere in pubblico: è immorale. Non sarà invitante nelle sue attitudini e proteggerà la sua castità». La risposta arrivò dai social, che furono inondati da foto di sorrisi seguiti dagli hashtag #kahkaha (ridere) e #direnkahkaha (resistere e ridere).

Il ruolo della donna-madre e il rapporto con l'uomo lo spiegò senza giri di parole lo stesso Erdogan nel 2015: «Porre donne e uomini sullo stesso piano è contro natura», disse a un incontro dedicato a Donne e Giustizia.

 

«SIAMO STATI CREATI DIVERSI».

«Uomini e donne sono stati creati diversi», aggiunse. «La loro natura è differente. La loro costituzione è differente. Perché alle donne non è richiesto di fare lo stesso lavoro degli uomini, come nei regimi comunisti. Mentre le madri godono di una posizione alta, la più alta. Che solo loro possono raggiungere». Ma questa posizione a molte ragazze e donne turche non è mai andata giù. E ora, con lo strapotere conquistato da Erdogan, temono che lo spazio di libertà si restringa ancora. «I nostri diritti sono davvero in pericolo», insiste Burcu Karaka?. «Ma la solidarietà tra donne e è forte. Spero solo che ci salvi».

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