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Lunedì 17 ottobre 2016

 

Sultano del mondo arabo

di Mostafa El Ayoubi

 

A distanza di tre mesi dal colpo di stato in Turchia, molti elementi sulle dinamiche di quell’operazione fallita rimangono ancora avvolti nel mistero. Le analisi divergono sulla definizione stessa dell’accaduto. Alcune sostengono che sia stata una messa in scena orchestrata dal presidente Recep Tayyip Erdogan; altre parlano di golpe organizzato da dilettanti; altre ancora affermano che si trattava di un vero colpo di stato.

Diversi sono gli interrogativi ancora irrisolti. In seno alla Nato, l’esercito militare turco è secondo solo a quello statunitense. È possibile che i militari abbiano preparato un golpe destinato in partenza al fallimento? In Turchia c’è la base militare di Incirlik, una delle più strategiche della Nato. È verosimile che l’intelligence militare atlantica non sapesse nulla di quello che stava per accadere? Il sostegno di Washington ai separatisti curdi siriani del nord, al confine con la Turchia, ha messo in crisi la strategica alleanza con Ankara, la quale non accetterebbe mai la nascita di un Kurdistan alle sue porte. L’intelligence americana ha avuto a che fare con quel golpe? E, se fosse così, quali erano le intenzioni degli americani? Richiamare all’ordine Erdogan? Gli elementi emersi finora non consentono di capire cosa sia accaduto realmente.

Ma da questa faccenda emerge un dato certo: il consolidamento del potere di Erdogan. A poche ore dal fallito putsch, egli ha ordinato un’incarcerazione massiccia nei settori militare, giudiziario e dell’amministrazione pubblica, oltre a quello dei media: più di 26 mila arresti secondo il quotidiano The Independent del 9 agosto scorso. Ha proceduto al licenziamento di massa di decine di migliaia di dipendenti statali, compresi 3mila giudici. Più di cento giornali e tv sono stati chiusi. Il golpe è stato il pretesto che ha consentito a Erdogan di sbarazzarsi di molti dei suoi oppositori politici, dopo essersi di fatto attribuito dei poteri non previsti dalla Costituzione, la quale stabilisce che il regime politico in Turchia è parlamentare e non presidenziale.

Pare che il presidente turco abbia serie intenzioni di riformattare l’intero apparato dello stato, a cominciare dall’esercito, in seno al quale molti generali erano contrari all’aggressione contro la Siria. Arrestando e licenziando centinaia di militari di alto rango, egli mira a dare un’impronta confessionale – basata sulla dottrina dei Fratelli musulmani – a un esercito storicamente laico.

Il golpe – vero o no – ha di fatto spianato la strada ad Erdogan per inseguire la sua ambizione di coronarsi sultano del mondo arabo. Dopo aver partecipato alla destabilizzazione della Siria, il 24 agosto l’establishment turco ha lanciato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, invadendo il territorio siriano e creando una zona cuscinetto al suo interno. Lo scopo dichiarato è quello di “combattere” il gruppo Stato islamico; quello reale, invece, è impedire ai separatisi curdi siriani dell’YPG (Partito dell’unione democratica) di controllare il confine tra la Siria e la Turchia.

Il progetto “imperialista neo-ottomano” di Erdogan non si limita, tuttavia, al Medioriente, ma si estende all’Asia centrale. La Turchia sta mobilitando le realtà turcofone musulmane nelle ex repubbliche dell’Urss, specie in Turkmenistan, per contrastare la crescente egemonia dei russi ed estendere la sua.

La Turchia, forte della sua buona crescita economica – nel 2013 ha estinto il suo debito estero con il Fondo monetario internazionale – sta puntando anche sull’Africa. Negli ultimi 15 anni, gli investimenti turchi nel continente sono decuplicati. Fino al 2009, le ambasciate turche in Africa erano solo 6, ora sono 39. Erdogan ha scelto la Somalia come portone d’ingresso in Africa: è stato il primo capo di stato non africano a recarsi a Mogadiscio. Ciò non avveniva dal 1991. Il 25 gennaio 2015 ha inaugurato il nuovo aeroporto della capitale somala e il 3 giugno è tornato per inaugurare la nuova ambasciata turca. I turchi investono ora nella costruzione delle infrastrutture (scuole, ospedali, strade) e nella formazione degli imam. Tra i progetti di Ankara in questo paese devastato dalla guerra vi è la costruzione di una base militare. La scelta di Ankara d’installarsi in Somalia è geostrategica: le consente di avere una posizione nevralgica rispetto al golfo di Aden, una delle principali rotte mondiali di transito degli idrocarburi.

La gente in Somalia (al sud almeno) sembra contenta; in diversi chiamano i neonati Erdogan o Istanbul. Ma se i somali sapessero le vere intenzioni imperialiste neo-ottomane di Erdogan forse direbbero “Mamma li turchi!”.

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