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14/03/2016

 

La Turchia sta pagando i calcoli sbagliati della sua leadership.

di Alberto Negri

 

Terzo attacco compiuto ad Ankara negli ultimi mesi

 

Domenica 13 marzo, un’autobomba esplosa a a Güvenpark, un’area vicina al ministero dell’Educazione, in un quartiere centrale di Ankara, la capitale della Turchia, ha causato la morte di 37 persone e il ferimento di 120. Si tratta del terzo attacco compiuto ad Ankara negli ultimi mesi. Il 17 febbraio un'autobomba è esplosa nella capitale turca  a poca distanza dalla sede del Parlamento e della sede centrale dell’esercito e in prossimità di un incrocio dove stavano passando alcuni autobus con a bordo personale dell’esercito turco. L'esplosione ha causato la morte di 28 persone. Il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo primo ministro Ahmet Davutoglu hanno accusato i ribelli del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e i combattenti curdi siriani delle Unità di protezione Popolare (YPG).

Il più grave attacco terroristico nella storia del paese è stato quello compiuto lo scorso ottobre durante una manifestazione per la pace organizzata per protestare contro la guerra tra il governo turco e i curdi del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. La manifestazione era stata organizzata da sindacati, organizzazioni di sinistra e i filocurdi del Partito democratico del popolo (Hdp).  

 

Come spiega Alberto Negri su Il Sole 24 Ore, "la Turchia è un Paese in guerra dentro e fuori: la questione curda dura da oltre tre decenni, a questa si è aggiunto il conflitto in Siria, dove Ankara è diventata l'avamposto dei jihadisti che volevano abbattere il regime di Bashar Assad, e l'afflusso di 2,5 milioni di profughi ha complicato la situazione: l'Europa se ne vuole sbarazzare pagando Erdogan in euro e visti ma sarà costretta in ogni caso a fare i conti con la destabilizzazione della Turchia. 

 

Se i curdi siriani hanno successo, con l'appoggio anche di Mosca, possono cambiare i rapporti di forza ai confini di un Paese membro della Nato. È una guerra dentro la guerra siriana e per ora senza soluzione [..]

 

Soltanto la consueta faciloneria degli europei del Nord può indurre a pensare che la Turchia sia la soluzione e non il problema. Ankara fa parte del problema mediorientale e dopo l'intervento della Russia a fianco di Assad è un Paese sul piede di guerra, ipersensibile a quanto accade alle frontiere, avviluppata dall’incubo che possa costituirsi uno Stato o una regione autonoma curda.

 

Ma questo non assolve il presidente Tayyip Erdogan e la sua politica, incoraggiata per altro a lungo proprio dalla signora Hillary Clinton, ex segretario di Stato e ora in campagna elettorale, e dagli altri Stati europei come la Francia. La Turchia sta pagando i calcoli sbagliati della sua leadership: aveva puntato sulla caduta di Bashar Assad a Damasco e con l'assenso anche delle potenze occidentali ha favorito il passaggio di migliaia di jihadisti.

 

Non solo: l'”autostrada della jihad” si è chiusa con l'ingresso in campo di Mosca il 30 settembre scorso, ma adesso i jihadisti e i gruppi di opposizione hanno perso la battaglia di Aleppo e ripercorrono in senso contrario la rotta della guerriglia mescolandosi ai profughi che fuggono in Turchia. È per questo che la Turchia e l'Arabia Saudita si stanno mobilitando: rischiano un'altra sconfitta per il fronte sunnita anti-Assad e un ulteriore rafforzamento dell'influenza iraniana nella regione.

 

Ma la Turchia paga soprattutto una questione nazionale non risolta, le cui radici certamente non dipendono da Erdogan, il quale che dopo avere concluso un accordo con Ocalan ha preferito poi imboccare la strada della repressione violenta, favorito anche dalle decisioni spericolate del Pkk che ha messo in difficoltà il partito curdo Hdp di Salahettin Demirtas. La pacificazione, come dimostrano le distruzioni di Cizre, Silvan e del quartiere di Sur a Diyarbakir, è ancora molto lontana. La crisi curda è un'emergenza cronica che serve a Erdogan per giustificare il pugno di ferro, come un tempo serviva ai generali kemalisti per restare in sella. 

 

E soprattutto è ancora utile a coprire la protezione fornita ai jihadisti in questi anni, le complicità con i gruppi salafiti, finanziati dai sauditi e dalla monarchie del Golfo. Questo è il motivo di fondo per cui sapere la verità dei fatti in questo intreccio è assai complicato. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta, anche se poi pagano gli innocenti a una fermata di un autobus: banale, ma è proprio questa la banalità del male contemporaneo e di un terrorismo feroce". 

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