Fonte:La Jornada

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31 dicembre 2016

 

2016. Primi lampi

di Raúl Zibechi

Traduzione di Marco Calabria

 

I governi perdono legittimità e la stabilità evapora a grandi velocità. Le crisi dell'economia dilagano accrescendo povertà e disuguaglianze. Siamo però appena all'inizio della tormenta, che nei prossimi anni si farà più intensa

 

Quello che si conclude in queste ore è l’anno dell’arrivo della tormenta. Nella primavera scorsa l’allarme lo lanciarono, per prime, le sentinelle del Chiapas. Istrionici e inguaribili visionari per alcuni, tra i pochissimi capaci di cercare con tenacia una visione profonda e di lungo periodo delle cose, per altri. Nel momento in cui le raffiche di vento spalancano le porte del 2017, quel che sembra più urgente non è più il “se” ma il “come”. Come affrontare l’espressione più violenta della crisi di una forma di organizzazione sociale che conduce a velocità folle il pianeta e chi lo abita nel vortice dell’autodistruzione? Con la consueta lucidità di analisi, Raúl Zibechi prova a guardare dentro le nubi che si addensano con crescente intensità sull’anno che va a cominciare e legge tre rilevanti aspetti di una tempesta che può seppellire il capitalismo ma incombe come una terribile minaccia su tutti i popoli.

 

La tormenta si avvicina. Gli oscuri nuvoloni che si vedevano all’orizzonte si trasformano in raffiche di vento; esplodono i lampi che annunciano l’imminenza della tempesta. La discussione sull’eventualità che sia in arrivo una tormenta o no cessa di avere importanza di fronte all’urgenza di definire come agire di fronte a situazioni di emergenza. E’ questo, a grandi linee, il messaggio che ci lascia il 2016, l’anno in cui si sono cominciati a sentire i primi segni di quel che è già qui.

Possiamo perfino elencare alcune delle caratteristiche che questa tormenta assume. Il successo della Brexit nel Regno Unito, la crescita delle destre estreme e del razzismo contro i migranti, con la possibilità che conquistino il governo in Francia, sono alcune delle sue principali manifestazioni europee.

Il colpo di stato fallito in Turchia e la crescente destabilizzazione del Medio Oriente, dove la violenza è il modo pressoché unico di risoluzione dei conflitti. L’intervento di tutte le potenze nello scenario più caldo del mondo, Russia e Cina comprese, in difesa dei loro interessi nazionali. La terribile e oscurata guerra in Yemen, dove l’Arabia Saudita perpreta crimini di lesa umanità senza che l’Occidente alzi la voce.

La vittoria di Donald Trump e la svolta anti cinese a Washington, con grandi possibilità che un conflitto maggiore si sviluppi nel Mare del Sud della Cina, lo scenario strategico dove transita la maggior parte del commercio estero della potenza asiatica e navigano le grandi navi che le portano il petrolio. Il “vantaggio” del successo di Trump è che impedisce di occultare la decadenza strategica e la debacle morale della superpotenza.

In América Latina, il 2016 è stato l’anno in cui le destre si sono fatte governo in due paesi chiave: Argentina e Brasile. La pace in Colombia è materia pendente, in quanto la firma dell’accordo tra il governo e le FARC non impedisce che i militanti sociali continuino a essere assassinati, superando di molto il centinaio di morti negli anni recenti. In Venezuela s’incrociano la volontà destituente dell’opposizione con l’incapacità del governo di stabilizzare il paese.

 

La svolta conservatrice è solo di natura congiunturale. Ciò che conta è che i governi perdono legittimità e la stabilità evapora a velocità impensabili anni addietro. Sono crisi di legittimità aggravate con la persistenza di crisi economiche e l’aumento della già gigantesca disuguaglianza.

In ciascuno di questi scenari i settori popolari sono i più colpiti. Siamo di fronte, tuttavia, appena alla prima parte della tormenta che, senza alcun dubbio, nei prossimi anni si farà più intensa. Vorrei commentare tre aspetti di questa tempesta che può seppellire il capitalismo ma che incombe come una terribile minaccia anche sui popoli.

Il primo è che siamo davanti a una tormenta sistemica, non congiunturale. Non si tratta di una crisi che sarà superata con l’introduzione di alcuni cambiamenti perché poi tutto torni alla normalità. Pertanto, le soluzioni dovranno essere sistemiche oppure tutto proseguirà uguale. Il modello estrattivo/quarta guerra mondiale ha eroso gli stati-nazione, ha disorganizzato le società, dissolto le autorità e ha spostato tutte le variabili del sistema mondo, compresi i partiti di sinistra e i sindacati.

Questo vuol dire che non potremo più appoggiarci alle vecchie istituzioni ereditate da un sistema mondo anch’esso disarticolato, saremo costretti a crearne altre nuove, capaci di sostenersi e navigare in questo periodo di acute tormente. Come sempre accade, le culture politiche sono molto resistenti ai cambiamenti e si negano a essere sostituite dal nuovo.

A sua volta, il nuovo è spesso poco consistente o è considerato scarsamente utile dalle vecchie culture necrotiche; questo scontro è inevitabile, fa parte della tormenta in corso e andrà avanti per molto tempo. Sarà necessario, pertanto, avere molta pazienza per non cedere alle provocazioni.

La seconda questione è una domanda: chi ci proteggerà adesso che gli stati e le istituzioni del sistema mondo sono incapaci di farlo? È un interrogativo che vent’anni fa si pose Immanuel Wallerstein e in questa direzione si è andati molto avanti, anche se non ancora abbastanza. La risposta è: noi stessi, con le nostre forze, a patto di esserci organizzati. Vale a dire, in modo collettivo.

A questo proposito, dovremmo riflettere sui diritti umani. Nessuno stato, nessuna istituzione, nessun governo difenderà la vita di quelli in basso. O perché non vogliono o perché non possono. Oppure per entrambe le cose insieme. In Messico, per esempio, i familiari e gli amici dei 43 di Ayotzinapa sanno che non si farà giustizia. Il ragionamento è molto semplice. Se lo Stato è il responsabile della scomparsa dei desaparecidos, non può essere lo stesso Stato a fare giustizia. Fare giustizia è superare le cause della politica di genocidio. Cioè, mettere fine alla quarta guerra mondiale/accumulazione per spoliazione.

La terza questione affonda le sue radici nel “come”. Nei percorsi che andremo a intraprendere per superare questa tormenta. È, pertanto, una questione di lungo respiro, strategica o come la si voglia chiamare. Le strategie, però, non si inventano. Si tratta di mettere a sistema quel che fanno i popoli per sopravvivere.

Abbiamo così un doppio lavoro che consiste nel resistere e nel creare, nel difendersi dai cavalieri della morte e nel ricreare e riprodurre la vita. Niente di nuovo, ma il senso comune dei popoli in lungo e largo per il mondo. Dal Rojava fino al Chiapas, passando per dove si possa immaginare, si resiste e si crea o, se si preferisce, si resiste creando, basandosi sull’organizzazione collettiva.

L’autonomia è, pertanto, un imperativo imposto dalle circostanze, non una mera opzione di questa o quell’altra corrente ideologica. Se non siamo autonomi, non potremo costruire né resistere. Oggi più che mai, la vita è sinonimo di autonomia.

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