Originale: LeftEast

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11 gennaio 2017

 

“Che cosa significa abbattere lo stato? Questa è la nostra grande sfida”

intervista a Leo Panitch

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Nota della redazione di LeftEast: I nostri compagni del portale serbo di sinistra MASINA hanno parlato con il politologo marxista Leo Panitch (York University) nel corso del suo soggiorno a Belgrado. Era ospite della conferenza “Il ritorno dell’Utopia (BCS)” organizzato dal Centro per l’Emancipazione Politica.  Questa è la prima apparizione dell’intervista in inglese. La sua pubblicazione originale in serbo è accessibile qui.

 

D: Ti dichiareresti pubblicamente un socialista?

R: Decisamente.

D: Perché?

R: E’ una domanda alla quale è difficile decidere come rispondere. In termini dell’irrazionalità, del caos e della disuguaglianza del capitalismo, che diviene sempre più irrazionale, più caotico e più disuguale ogni ora che passe, è difficile essere una persona umana e non essere socialista.

Ma c’è anche un modo di rispondere a questa domanda collegato alla formazione personale. Provengo da una comunità della classe lavoratrice in Canada, i miei genitori erano socialisti e dunque, in un certo senso, sono socialista quasi per nascita.

D: Da quando è iniziata la crisi finanziaria si va diffondendo un’idea su come le banche sono agenti del, nelle tue parole, caos, dell’irrazionalità e della disuguaglianza che stiamo affrontando. Ma come molte altre idee riguardo alla nostra realtà sociale ed economica, queste tendono a suonare come teorie cospirative. Quanto è considerevole l’influenza del settore finanziario sulla società?

R: Viviamo in un capitalismo finanziarizzato, un capitalismo che facilita il flusso e il movimento libero del capitale intorno al mondo e facilità la vasta struttura di finanziamento e indebitamento necessaria sia perché il capitale investa, sia perché i lavoratori consumino. C’è una tendenza a separare il ruolo della finanza a questo riguardo dal ruolo delle imprese multinazionali, a vedere queste ultime come produttive e la finanza come speculativa. La finanza è speculativa, ma è necessario per la produzione globalmente integrata, ed è necessaria per realizzare profitti e per i consumi.

Ad esempio, se sei Walmart e fai un contratto per far produrre blue jeans da qualche parte in Cina, se non acquisti un derivato sul rapporto di cambio tra yuan, o renminbi, è dollaro USA, può non esserci profitto se il rapporto di cambio muta anche pochissimo tra il momento in cui hai firmato il contratto e quando il prodotto va consegnato. Così c’è bisogno di derivati che sono scambiati prevalentemente nel mercato delle valute.

D: Dunque questa è una specie di assicurazione?

R: Si specula in tutto il mondo su quale sarà in futuro il rapporto di cambio. Si acquistano contratti a termine e tu, come produttore, acquisti in quel senso una polizza di assicurazione. La produzione non potrebbe andare avanti senza di questo. Sai, quando il Congresso statunitense ha voluto imporre maggiori restrizioni alle banche dopo la crisi del 2008-09, specialmente sul commercio di derivati, è stata la Caterpillar, ma più grande multinazionale industriale statunitense, a opporsi, perché ciò avrebbe aumentato i suoi costi nel mercato dei derivati. Dunque è un’illusione che la finanza non sia collegata al genere di produzione che abbiamo in tutto il mondo. E’ speculativa, ma ogni capitalista specula quando investe.

E’ vero che in un mondo di libero movimento dei capitali le banche e le istituzioni che rappresentano i prestatori, come il FMI, sono rigide per la preoccupazione di essere rimborsate. Così uno dei motivi per cui c’è una simile disciplina sui deficit governativi consiste nel tentare di garantire che i governi non finiscano per essere insolventi relativamente ai loro debiti, ai loro titoli di stato, che assumono sui mercati finanziari. Il FMI, come rappresentante dei prestatori, impone ai governi, ad esempio, che se devono decidere tra l’assicurare il benessere del popolo o il rimborsare i detentori di titoli di stato, essi decidano la seconda cosa. Questo è stato in un certo modo sempre così nel capitalismo, ma è tanto più vero in un’economia globale.

Dobbiamo vedere il capitalismo come un sistema integrativo, di sfruttamento. E si deve riconoscere che non esiste alcun insieme unificato di banchieri. Sono fortemente competitivi gli uni nei confronti degli altri. Sono integrati, dipendono gli uni dagli altri, si concedono reciprocamente prestiti, ma sono anche in competizione. Non esiste una finanza coerente.

D: Quando rifletto sulla nostra situazione materiale, che è così legata ai servizi finanziari, la prima cosa che mi viene in mente come problema grave è la nostra posizione sempre più precaria, che rende sempre più difficile usare i servizi finanziari o rimborsare i nostri debiti. Non so se saresti d’accordo che lavorare in condizioni precarie è una delle principali difficoltà che affrontiamo oggi, ma quali possibilità vedi per la sinistra quanto al contrastare questo?

R: Sì, penso che questa sia la maggiore sfida del nostro tempo. Ma dobbiamo chiarire che il genere di persone che hanno identificato il precariato come una forma classe separata dal proletariato sono, secondo me, molto fuorvianti. Il proletariato era precariato, prima di organizzarsi. Fino a quando non ha creato i sindacati, i partiti socialisti, i partiti comunisti, eccetera. E’ divenuto disorganizzato, per propri errori, per nazionalismo, per un sindacalismo che entrato in un rapporto corporativista sia con gli stati comunisti sia con gli stati socialdemocratici e ha perso la sua capacità di mobilitare, di creare un senso di collettività, e la capacità di essere flessibile. E’ dipeso troppo dalle leggi e dal riconoscimento da parte dello stato e troppo poco dall’avere quadri che organizzano le persone. La grande sfida, perciò, è: può il proletariato precario di oggi – che è un proletariato precario molto più istruito di quanto erano nel diciannovesimo secolo – organizzarsi, sviluppare quadri di organizzatori? Sai, viene da dire ai sindacati: “Dovete prendere i giovani precari istruiti, assumerli per quello che guadagnano ora e metterli a lavorare da sindacalisti”.  Quelle persone, probabilmente di nuovo come ai vecchi tempi, dovranno dormire sui divani di amici, andare da un posto all’altro … E’ un sacrificio anche … inserirsi in comunità. Non sto dicendo che è facile e per certi versi è oggi più difficile, perché quelle comunità del mondo precedente avevano una maggiore identità collettivamente e le persone sono oggi più mercificate, più individualizzate. Ci vogliono molte più risorse e ci vuole molta più dedizione, ma sono assolutamente convinto che nel ventunesimo secolo vedremo il proletariato precario – che include molti che ai vecchi tempi sarebbero stati definiti come l’intellighenzia, la classe media – organizzarsi in sindacati, in nuovi partiti socialisti. Con questo non voglio dire che usciremo dal capitalismo. Dipenderà da quanto bene lo faremo.

D: La sfida di organizzare il proletariato precario sembra anche maggiore se guardiamo alla legislazione sul lavoro. In Serbia lo stato, invece di creare sicurezza e stabilità, sta sostenendo l’instabilità, l’insicurezza, la precarietà della vita quotidiana. Ogni grande forza politica del paese direbbe che queste riforme ci stanno portando più vicini al centro capitalista e che ciò alla fine renderà migliori le cose. Ma c’è in effetti una differenza significativa o una somiglianza crescente tra la legislazione sul lavoro nei paesi del centro capitalista e in quelli della periferia?

R: Sono sempre più simili. Il lavoro resta più forte in alcuni luoghi rispetto ad altri; in Germania, in Svezia, ma anche là abbiamo visto un allentamento delle restrizioni alla capacità del capitale di imporre orari più lunghi, maggior informalità, competizione tra lavoratori, e soprattutto flessibilità. Varia in luoghi diversi.

Negli Stati Uniti il grande pericolo oggi con Trump è che una sentenza della Corte Suprema, che non avrebbe consentito la distruzione dei sindacati del settore pubblico negli USA, può essere rovesciata, sai, che sarebbero introdotte leggi sul diritto al lavoro che significheranno che non occorre iscriversi al sindacato nemmeno se si ottiene un posto in una scuola pubblica. Così io penso che la tendenza generale sia simile, piuttosto che diversa. E’ urgente che i sindacati nei paesi capitalisti divengano nuovamente organizzatori e in tale processo si associno a partiti che siano impegnati a rafforzare le capacità dei sindacati.

D: E vedi sindacati che abbiano questo potenziale?

R: Non abbastanza, ma posso farti alcuni esempi.

Nel Sud Globale c’è per esempio l’Iniziativa Nazionale Sindacale dell’India, che è un sindacato notevolmente creativo, che è cresciuto da scioperi nell’industria metallurgica a Mumbai agli inizi degli anni ’90 e portano le persone nel sindacato e le organizzano non necessariamente nel loro luogo di lavoro. Possono organizzarle in un quartiere e poi impegnarsi nel tentativo di garantir loro diritti nel luogo di lavoro. Avevano 36 organizzatrici donne a tempo pieno che hanno organizzato 20.000 donne che lavoravano per Nokia a Chennai.

Numerosi sindacati, tra cui i lavoratori dell’automobile in Canada e Unite the Union in Gran Bretagna, hanno creato sezioni di comunità cui persone che sono membri del precariato aderiscono senza costituire già un rapporto di contrattazione collettiva e cercano di sviluppare competenze e potenziale per uscire a organizzare. Dunque si possono vedere alcuni esempi. Inoltre io raccomanderei il fantastico libro “Raising Expectations and Raising Hell”  [Suscitare aspettative e scatenare l’inferno] di Jane McAlevey sulla questione dell’organizzazione sindacale. E’ stata un’organizzatrice del Sindacato dei Lavoratori dei Servizi e ha organizzato sette ospedali in Nevada, che è uno stato del diritto al lavoro, espressione con la quale intendono il diritto a non aderire al sindacato.

D: Oltre ai sindacati, quali forme di organizzazione pensi dovrebbe perseguire la sinistra?

R: Dipende da quanto ampiamente si parla di organizzazione. Quello che voi fate con il vostro sito Masina, o quello che fa Jacobin, è una forma di organizzazione, una forma di organizzazione discorsiva. Lo sviluppo di Momentum, [il movimento] dietro Jeremy Corbin, che ha 20.000 membri, ha una lista di indirizzi email di media sociali di centinaia di migliaia, è molto in gamba nel condurre campagne, può identificarsi proprio come può farlo una società industriale, dalle località all’individuo, i simili all’individuo nella demografia che sono in grado di raggiungere, eccetera; anche quella è una forma di organizzazione. Penso che entrambe le cose siano importanti. Ma penso anche che dovrebbe dedicare molto più tempo, sforzi e dedizione a organizzare le persone come lavoratori e come consumatori.

D: Come consumatori?

R: Ai vecchi tempi donne comuniste erano solite organizzare picchetti di fronte a macellerie a Toronto per contestare il prezzo della carne a fine degli anni ’20. Anche quella è una forma di organizzazione. E … organizzare i call center, organizzare meglio che possiamo i lavoratori precari non è impossibile: voglio dire, i lavoratori più precari erano gli scaricatori di porto, persone che andavano sul molo e non sapevano se sarebbero state in grado di lavorare quel giorno.

Alla fin fine, per uscire effettivamente dal capitalismo, devono essere creati modi alternativi di produzione e consumo. Il che nella crisi ecologica in cui stiamo vivendo è tanto più necessario. E quella è una forma di organizzazione che è molto importante, in cui le persone saranno preparate a vedere uno stile di vita alternativo, saranno specializzate in forme alternative di produzione.

D: Nella nostra situazione data, quale importanza daresti all’organizzazione partitica e alla conquista del potere statale?

R: Le ondate di protesta contro il neoliberismo sono state in larga misura di carattere antipartitico. C’è stato in esse un elemento anarco-sindacalista, non sorprendentemente, considerata l’esperienza con i partiti comunisti e con la socialdemocrazia, contro cui già la mia generazione si era ribellata per il loro corporativismo, la loro burocrazia e via dicendo. La generazione successiva si è ribellata perché c’era tanta complicità dovunque con il neoliberismo: Tony Blair, Clinton, i socialdemocratici tedeschi e persino svedesi. Dunque c’era un rifiuto dei partiti. Ha assunto la forma dell’antiglobalizzazione fino a dopo l’inizio della crisi e poi ha assunto la forma del movimento Occupy che si occupava più dell’uguaglianza, era molto più concentrato sulla classe. Quello che è accaduto negli ultimi pochi anni è stato una consapevolezza che si può protestare fino a quando non si geli l’inferno e non si cambierà nulla, che non è vero che si può cambiare il mondo senza prendere il potere e abbiamo visto una svolta dalla protesta alla politica. E’ questo che è stato rappresentato, per esempio, da SYRIZA e Podemos, nei nuovi partiti, e da Corbin e Sanders nei partiti vecchi. Penso che questo sia giusto, penso che sia necessario entrare nello stato. Ma se si entra nello stato, si ha la capacità di trasformare le istituzioni statali?

D: Un problema che si è trovata di fronte SYRIZA.

R: Esattamente. Il vecchio concetto strumentale dello stato, che è una macchina, e ci si impossessa di essa e la si usa per i propri fini, o persino più stupidamente, la si distrugge, è sbagliato. Che cosa significa abbattere lo stato? Questa è la nostra grande sfida.

E c’è una separazione nelle tempistiche per la quale non ho una risposta. Considerato il caos, l’irrazionalità, la xenofobia del capitalismo neoliberista contemporaneo, l’importanza di conquistare le cariche statali al fine di bloccare l’incendio è molto urgente. Al tempo stesso, se si ottiene il potere troppo rapidamente e non si sa che cosa farne, si entra nello stato senza sapere come trasformarne gli apparati, si portano tutti i propri quadri migliori nello stato e non se ne lascia nessuno a organizzare la società, a sviluppare forme alternative di produzione e consumo. Non ho una risposta a questo. Ma penso che questo sia esattamente ciò su cui dobbiamo concentrarci.

 


Leo Panitch detiene la cattedra canadese di Ricerca in Economia Politica Comparativa e professore distinto di ricerca in Scienze Politiche alla York University. Editore del The Socialist Register per 25 anni, i suoi molti libri includono Working Class Politics in Crisis, A Different Kind of State, The End of Parliamentary Socialism, e American Empire and The Political Economy of Global Finance.


Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/what-does-it-mean-to-smash-the-state-this-is-our-great-challenge/

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