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11 aprile 2017

 

Tap, storia d’ulivi e d’imbrogli

di Maurizio Zuccari

 

Bufale pugliesi. Contro il gasdotto si lotta per non vedersi espiantare la vita, non i piantoni. Ma quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda l’ulivo.

 

Si chiama Tap, si legge Trans adriatic pipeline. È la tratta finale di un gasdotto di circa 4mila chilometri. Un’opera ciclopica, dal Caspio alla Puglia, ideata un lustro fa per foraggiare l’Europa, l’Italia in primis, di metano proveniente dai paesi dell’Ex Unione Sovietica posti fuori dalle grinfie di Putin, col placet di Washington. Da Baku, in Azerbaigian, a Melendugno (Lecce) passando per la Georgia, la Turchia e la Grecia. Dopo 800 e passa chilometri, un centinaio in mare, il Tap sfocerà poco distante dalla spiaggia di San Foca, in un bel campo d’ulivi secolari e, dopo un tragitto di una cinquantina di chilometri, dovrebbe connettersi al metanodotto Snam della rete nazionale del gas, presso Brindisi. Quarantacinque miliardi e rotti i costi preventivati dell’infrastruttura, talmente importante da essere considerata strategica, e perciò finanziata dalla comunità europea. Dunque, un progresso tangibile per tutti, per il paese.

Davanti a tanto bisogno, sottoscritto dagli ultimi tre governi del paese, la popolazione locale protesta coi blocchi e busca le botte, anziché plaudere all’opera che porterebbe nelle casse del comune bei milioni. La regione si mette di traverso, ricorrendo ai vari gradi della magistratura. Finché il Tar del Lazio non le dà ragione e blocca l’espianto dei primi 200 olivi (su un totale di circa 2.000) dai terreni dove sorgerà il cantiere d’arrivo, invitando le parti a riconsiderare l’utilità dell’opera e il percorso. Uno stop temporaneo – a cui il fantasmatico governo Gentiloni ribadisce l’ineluttabilità dell’impegno – che ha rinverdito le contumelie ai danni dell’Italia che dice no, sempre e comunque no. Alle grandi opere che portano occupazione e benessere, all’avanzare della civiltà, al progresso. Incancrenita nella difesa del proprio particulare, dell’orticello di casa. O, come nel caso, d’ulivi sia pure secolari.

Davanti al solito zurlare pel manico di tanti accade però che un’inchiesta – di quelle d’una volta, ormai rare – riveli sull’Espresso talune cosucce. A partire da alcune domande non di lana caprina. Ad esempio: chi ha scelto il tracciato? Perché è un consorzio privato svizzero a gestire un’opera dichiarata strategica da Bruxelles? È proprio necessario far passare 10 miliardi di metri cubi di gas tra spiagge e oliveti, anziché in zone già industrializzate come chiede, tra gli altri, la stessa regione Puglia? Ma, soprattutto, svela che a suo tempo a capo della società responsabile del progetto per la parte italiana, la Egl Produzione Italia, controllata dal gruppo svizzero Axpo dopo aver intascato tre milioncini tondi per dare il via ai lavori, c’era un manager in affari con le cosche. Che i pezzi grossi dell’affare sono a pié pagina dei Panama papers (per cui lo stesso settimanale ha vinto il Pulitzer) e che tra gli oligarchi azerbaigiani e georgiani coinvolti nell’affare ci sono pure magnati russi intimi di Putin, con buona pace di chi vuole tirare il bidone all’oligarca del Cremlino col nuovo gasdotto, facendo affari con galantuomini del calibro di Erdogan e Aliyev.

Un’inchiesta sul campo, mosca bianca in tempi di vere bufale – o fake news, com’è in voga dire oggi – e di pseudogiornalismo virtuale, certo non basterà a smetterla di pensare che le comunità locali si possano asfaltare in nome di opere (Tav, ponte sullo Stretto) che di grande hanno solo inutilità, danno e malaffare. Né a far rispettare le autonomie locali, anche in nome del tanto decantato federalismo, e chi lotta per non vedersi espiantare la propria vita, non solo quattro piantoni d’olivo. Ma, si sa, quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda l’ulivo.

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