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09 Giugno 2017

 

UK dopo il voto 

Perché oggi Londra è più debole 

 

"Governerò per i prossimi anni. Rispetterò la promessa della Brexit decisa dal popolo". Questo quantomeno nelle sue intenzioni. La nuova "lady di ferro" della politica inglese non ha infatti ottenuto quello che sperava: una supermaggioranza che le conferisse un mandato forte per guidare il Regno Unito nel corso dei negoziati per uscire dall’Unione europea. Nella "snap election" di ieri, indetta a sorpresa dalla premier solo due mesi fa, i Tories sono arrivati primi, ma con una maggioranza risicata e, soprattutto, assediata dai laburisti di Jeremy Corbyn che un’inaspettata (e rapidissima) rimonta ha condotto a un successo sorprendente: sono solo 2 i punti percentuali che oggi li separano dai vincitori. Il risultato che emerge dalle elezioni annuncia un "hung parliament", un parlamento appeso in cui nessun partito ha una maggioranza sufficiente a governare da solo. Non a caso, May ha ora deciso di appoggiarsi alla "stampella" fornita dai seggi del nordirlandese Democratic Unionist Party. Ma basterà a mantenere la promessa di una "strong and stable leadership" al Regno in vista di Brexit? Difficile. L’inizio dei negoziati è alle porte e, senza un negoziatore credibile, per Londra potrebbe cominciare un’impresa ancora più ardua del previsto.

 

Perché Theresa May esce indebolita?

Theresa May ha basato la campagna elettorale sulla necessità di votare per i conservatori per garantire una leadership forte al paese, anche in vista dei negoziati su Brexit. Inoltre i dati a disposizione solo alcune settimane fa suggerivano un vantaggio conservatore di oltre il 20% sui laburisti, e che oltre 60 circoscrizioni laburiste in cui la stragrande maggioranza dei cittadini aveva votato per Brexit sarebbero potute essere "terreno di caccia" per i Tories. Così non è andata: se l’obiettivo di May era quello di ottenere un mandato popolare e mettere a tacere le voci di dissenso delle opposizioni, anche interne al partito, il dibattito elettorale si è invece spostato da Brexit – ormai data per acquisita dalla gran parte dell’elettorato britannico – ad alcuni temi caldi della politica interna inglese, in particolare giustizia sociale e sicurezza. Su questi, Theresa May non solo è sembrata meno convincente, soprattutto tra i giovani, rispetto a Corbyn, ma ha anche fatto degli errori, come nel caso della proposta di una "tassa sulla demenza", contenuta nel manifesto del partito e su cui ha dovuto fare anche una goffa marcia indietro. Inoltre, May non ha saputo fornire ricette adeguate sulle crescenti disuguaglianze di reddito (ai livelli massimi dagli anni Settanta) e tra le diverse regioni del paese (per esempio, "Inner London" ha un reddito medio che è tre volte più alto di quello medio britannico). Anche sul tema delle migrazioni non sono mancate critiche; già da ministro degli Interni Theresa May aveva promesso di ridurre di molto l’immigrazione netta. Promessa non mantenuta nemmeno come primo ministro.

 

Quale governo per il paese?

Queste elezioni hanno segnato il ritorno dei due partiti maggiori del Regno Unito ai più alti livelli di consenso dal 1970. Eppure il risultato è stato un "parlamento appeso", ovvero senza una chiara maggioranza di un singolo partito (vedi grafico). Questo perchè i due partiti maggiori si sono entrambi rafforzati, ma il Labour ha guadagnato più voti nelle circoscrizioni in bilico. Inoltre, se questo potrebbe apparire un ritorno in forze dei partiti "tradizionali" – a differenza della Francia, dove l’outsider Macron ha guadagnato consensi sottraendoli alla classica alternanza tra neogollisti e socialisti – la dirigenza di entrambi i partiti è scivolata verso posizioni massimaliste. I conservatori sono infatti in maggioranza favorevoli a una "hard Brexit", mentre i laburisti hanno proposto un programma anti–austerity di maggiore spesa pubblica e maggiore pressione fiscale sugli strati più abbienti della popolazione, che qualcuno ha addirittura paragonato al programma del 1983 (la "più lunga lettera di suicidio mai scritta"). Quanto alle prospettive di governo, ai conservatori basta un solo altro partito per raggiungere una risicata maggioranza: il nordirlandese Democratic Unionist Party si è detto disposto a fornire alla May la "stampella" di cui ha bisogno per superare i 326 seggi necessari per una maggioranza assoluta. Bisognerà però vedere se i due partiti riusciranno a stringere un accordo solido e, soprattutto, duraturo. In ogni caso, un governo fragile potrebbe aumentare le probabilità di nuove elezioni a breve. Intanto Corbyn, per ora, si accontenta di stare all’opposizione. E probabilmente gli conviene così: può fare il disturbatore, e nel frattempo lavorare per presentare un volto laburista ancora più pulito e credibile nella prossima tornata elettorale.

 

Gli attacchi terroristici hanno influito?

Difficile valutare l’impatto degli attentati terroristici di Manchester e di Londra. Teoricamente attentati di questa tipologia hanno il potenziale di polarizzare a destra l’elettorato ma, poichè i conservatori sono già al governo, è su di essi che l’elettorato potrebbe aver riversato i propri timori e l’accusa di una scarsa capacità di protezione. Theresa May ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica dicendosi addirittura pronta a cambiare le leggi sul rispetto dei diritti umani, se queste avessero intralciato la lotta all’estremismo e al terrorismo. Una risposta che a molti potrebbe essere apparsa fuori misura e fuori tempo, soprattutto perché proprio la prima ministra era stata segretario agli Affari interni (2010–2015) e artefice dell’emanazione di alcune importanti leggi in materia di antiterrorismo, come il Counter–Terrorism Security Act, introdotto a fine 2014 ed entrato in vigore nel 2015. In realtà la parabola di consenso del primo ministro, nella percezione dei sondaggi, era già in forte declino anche prima degli attentati che hanno colpito il Regno in queste settimane.

 

Quali effetti sui negoziati Brexit?

A quasi un anno dal referendum su Brexit, e a due mesi dalla notifica formale di May che ha fatto partire il conto alla rovescia per i due anni di negoziati tra UK e UE, le trattative tra Bruxelles e Londra si sarebbero dovute aprire ufficialmente il prossimo 19 giugno. Come spiega Giancarlo Aragona (min. 00:50), nelle intenzioni di Theresa May le elezioni sarebbero dovute servire al suo governo per presentarsi più forte e coeso a Bruxelles, anche perché tra gli stessi conservatori si sarebbe fatta definitiva chiarezza sulla leadership nel partito e sui compromessi accettabili su Brexit. Nel frattempo il governo May si era sempre più posizionato per una "hard Brexit": uscita dal Mercato unico, limiti alla libertà di circolazione e la dichiarazione di May che è "meglio nessun accordo di un accordo svantaggioso". Malgrado le rassicurazioni di May ("I voti che abbiamo ottenuto ci danno stabilità"), dopo il risultato di oggi non potrà invece che uscire un governo molto meno forte e coeso, e l’appoggio del Democratic Unionist Party potrebbe non essere sufficiente a garantire la stabilità promessa. Se tra qui e marzo 2019 non si andasse a nuove elezioni, l’incertezza sulla tenuta del governo e sulla sua posizione su Brexit non potrà che portare a maggiore lentezza nelle varie fasi in cui è stato diviso il negoziato. Nonostante le dichiarazioni del capo negoziatore di Brexit per l’Ue, Michel Barnier, non è affatto detto che tutto questo faccia bene all’Europa: un governo di Londra compatto avrebbe di certo puntato a ottenere il massimo dai negoziati, ma avrebbe anche avuto maggiore capitale politico per far approvare qualsiasi accordo dal parlamento britannico. All’opposto, un governo debole come quello che si profila all’orizzonte potrebbe essere costretto su posizioni molto "hard" per evitare spaccature all’interno della maggioranza.

 

 

 

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