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29 novembre 2017

 

L'agenda politica dei nemici dell'Italia

Federico Ferraù intervista Alessandro Mangia

 

C'è una campagna in atto che prelude al commissariamento dell'Italia. Serve a convincere gli italiani che votare non serve. Per ingoiare più facilmente il boccone amaro.

 

La legge di bilancio non è ancora stata approvata e Moscovici ha invitato l'Italia a rifare bene i conti. Ne va di 3 miliardi e mezzo. Cose di settimana scorsa, si dirà, ma assai più attuali della candidatura a premier del generale Gallitelli o della guerra sulle fake news tra Renzi e Di Maio. Perché, altrimenti cosa succede? — hanno certamente pensato Gentiloni e Padoan davanti all'ennesimo monito europeo. La risposta la conoscono benissimo. Proprio per questo, onde evitare sorprese "populiste", qualcuno si è da tempo messo al lavoro per preparare il terreno. Sul Corriere della Sera del 23 novembre scorso Antonio Polito ha firmato un vero e proprio manifesto di rinuncia a quel poco che resta della nostra sovranità. A che serve votare, se la politica è quella che vediamo? Forse meglio rinunciarvi (e farsi governare da altri). "C'è una campagna in atto che prelude a un commissariamento del paese nei prossimi mesi — è l'analisi di Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano —. Da qui la necessità di preparare l'opinione pubblica alla svolta che ci attende".

Quale svolta, professore?

Un commissariamento del paese per via finanziaria. E' da tempo che lo andiamo dicendo, e gli indizi parlano chiaro, proprio come il pezzo del Corriere che ha citato. Un articolo importante, non per ciò che dice, ma per il fatto di essere l'editoriale del Corriere della Sera.

L'attacco è perentorio: "A che serve votare? È una domanda che molti cittadini europei cominciano a farsi". 

Dovremmo piuttosto chiederci perché oggi si può dire ormai apertamente che votare non serve. Che senso ha esercitare un diritto, se questo esercizio non produce nessuna scelta reale?

Appunto. Si inceppa perfino la democrazia tedesca, nota il Corriere, quella che noi avremmo dovuto imitare. E poi la Brexit, la Catalogna, l'Italia dove le urne non daranno una maggioranza. Un panorama desolante.

Probabilmente tutte le democrazie europee si trovano oggi in una situazione in cui la portata del diritto di voto è enormemente limitata rispetto al passato. L'elettore esprime il suo voto scegliendo all'interno di una pluralità di liste, ma i programmi politici che possono essere realizzati da queste liste sono praticamente identici.

Forse giova ricordare perché, anche se lo abbiamo già detto.

Perché sono condizionati da un'agenda politica comune alla quale non si può sfuggire. E quest'agenda politica è quella scritta nei Trattati europei.

Ecco il punto: dopo un'allarmata denuncia del confine sottile che separa democrazia e populismo, si parla, senza imbarazzo, di "emigrazione della sovranità" verso "consessi internazionali che per loro natura non possono decidere democraticamente". Un "problema complicato da risolvere".

Infatti non si può risolvere un problema se i dati di partenza sono errati. Parlare di emigrazione della sovranità infatti è sbagliato. Le parole, in questi casi, sono importanti. E' da un pezzo che nelle dichiarazioni dei nostri politici, da Napolitano in giù, si continua a ripetere che l'Italia per risolvere i suoi problemi deve cedere sovranità. E magari non sappiamo nemmeno di che cosa stiamo parlando.

Ci spieghi, per favore.

In termini giuridici, la sovranità non è una sostanza astratta e inafferrabile. La sovranità se è popolare, come ci dice l'articolo 1 della nostra Costituzione, non è nient'altro se non la somma dei diritti politici di cui ciascun cittadino italiano è portatore. E cioè, innanzi tutto, dei singoli diritti di voto. In questo senso sovranità è essenzialmente la libertà di tutti i cittadini italiani di scegliere un programma politico e la pretesa di vederlo realizzato. E per questo la sovranità va esercitata "nelle forme e i limiti" sanciti dalla Costituzione: perché è una somma di singoli diritti soggettivi.

Verrebbe da dire che il diritto di voto non è diverso dal diritto di proprietà e da qualunque altro diritto riconosciuto.

Infatti è proprio così. Per questo convincere le persone che la sovranità va ceduta significa convincerle a rinunciare alle proprie libertà politiche. Ripeto, tutti parlano di cessione di sovranità, ma l'articolo 11 non usa questo termine. Dice che l'Italia "consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia". Cedere un diritto e limitarsi nell'esercizio di un diritto sono cose molto diverse.

Se trasferisco un bene o un diritto di proprietà, esso finisce nella disponibilità di un altro e io non sono più titolare di quel diritto.

Appunto. Per questo ho sempre avvertito nella formula della cessione di sovranità qualcosa di ambiguo, che altera sottilmente l'immagine di sovranità che la Costituzione ci consegna. Semplicemente, se cedo un diritto quel diritto non è più mio, ma di un altro. Non credo ci voglia una laurea in giurisprudenza per capire questa cosa. 

Alla fine si conclude con una carrellata dei poteri che dovrebbero essere attribuiti o riportati nei parlamenti: dal controllo e dalla revisione in materia di nomine e appalti al "dibattito informato sulle delicatissime questioni bioetiche".

Dire che i parlamenti dovrebbero occuparsi di "questioni bioetiche" e dovrebbero lasciare ad altri la politica economica dà per scontato che le scelte politiche dirimenti siano già state prese altrove e ai parlamenti resti solo di trovare un modo per passare il tempo. Ma nell'articolo c'è qualcosa di peggio ed è la sovrapposizione di democrazia e stato di diritto. Che sono due cose completamente diverse.

Questo il Corriere lo dice: anche in Russia e Iran si vota. 

Ma in Russia e Iran non sembra che la logica dello stato di diritto sia mai stata moneta corrente. E questo è corretto. Non dice però che una struttura politica che vive soltanto del principio liberale — che risolve le sue funzioni  nella garanzia di alcune libertà economiche — e che lascia sullo sfondo il principio democratico — e cioè la determinazione popolare delle politiche pubbliche — ce l'abbiamo già e si chiama Unione Europea.

Però in Europa c'è un parlamento eletto.

Un parlamento che non ha parte alcuna nelle politiche attuate dalla Commissione. In fondo la Ue non ha bisogno di politica. Tutte le scelte politiche sono già cristallizzate nei Trattati e al massimo si tratta di vedere come queste scelte politiche di fondo possano essere attuate, con quali tempi e con quali meccanismi. Questo fanno Consiglio e Commissione in Europa. Le dirò di più: l'elencazione di compiti che Polito mette alla fine del suo articolo è interessante perché è qualcosa di non troppo diverso dai "poteri" che ha il parlamento europeo. 

Vuoi vedere che per rinunciare ai rischi del populismo è meglio cautelarsi anche dalla democrazia e votare una volta in meno? O rinunciare a farlo?

Quello di populismo è un concetto politico. E tutti i concetti politici sono inevitabilmente armi politiche. Populismo rinvia, per opposizione, alla nozione di élite: e populista è il modo in cui le élites qualificano chi contesta il loro ruolo. Se qualcuno, disgraziatamente per lui, mette in dubbio l'utilità o la legittimità di un sistema nettamente oligarchico come quello che si è andato realizzando in Europa, è pronta l'etichetta che lo squalifica.

A che cosa stiamo assistendo?

Al ritorno degli argomenti cari alla vecchia politica antiparlamentare che l'Italia ha conosciuto negli anni Venti e che dall'Italia sono transitati in Germania prima del '33. Con l'aggiunta al vecchio antiparlamentarismo della teoria nata negli anni Settanta del sovraccarico democratico: troppa democrazia fa male a se stessa e alla "governabilità". Gli argomenti sono sempre gli stessi: l'inefficienza della classe politica, la sua corruzione, l'incapacità di prendere decisioni. 

Stiamo facendo i nostri compiti, ma ci rimproverano di non farli abbastanza bene. L'Italia — ha detto Napolitano — dia retta a Draghi su ordine fiscale e debito. 

Ecco l'agenda politica. Ed ogni agenda politica ha bisogno di un sostegno mediatico. Il martellamento continuo sulla necessaria cessione di sovranità e sulla democrazia immatura, troppo incline al populismo e la squalificazione della politica e del Parlamento, preludono a un nuovo commissariamento finanziario del paese da parte dell'Ue. L'insistenza sul debito italiano, la pressione sul sistema bancario e sui problemi di ricapitalizzazione, alla fine generano l'idea che questa soluzione sia naturale e inevitabile.

Ma come si attua una soluzione del genere?

Si rifinanzia il bilancio pubblico o il sistema bancario del paese in difficoltà in cambio di politiche interne imperniate su "strette condizionalità", se si vuole essere precisi ed usare il linguaggio dei Trattati. Beninteso a fronte di una ulteriore "cessione" di sovranità a chi presta i soldi. E che sta a Bruxelles, a Berlino o altrove.

Vige sempre la Rule of law, lo Stato di diritto.

Vero. Però dovremmo chiederci chi pone la legge della cui applicazione dovrebbe vivere questo Stato diritto. E nell'interesse di chi questa legge venga posta. E' in questa domanda che sta quella saldatura tra Stato di diritto e democrazia di cui si parlava prima e che oggi, in modi diversi, sembra essere venuta meno ovunque in Europa. Insomma, io mi domando, e spero di non essere il solo, perché mai un'Italia governata dall'esterno secondo le logiche del diritto fallimentare dovrebbe essere meglio di un'Italia governata dagli italiani attraverso il voto. E, sinceramente, non so darmi una risposta.

I burocrati che nessuno ha eletto da una parte e i loro contoterzisti nostrani dall'altra. Insomma gli uni e gli altri che cosa vogliono?

Cosa vogliano non glielo so dire. Quello che vedo avvicinarsi però è un periodo di turbolenze e di operazioni simili  a quelle che abbiamo sperimentato tra il 1991 e il '93, stavolta, però, condotte secondo le logiche della Rule of law e del diritto fallimentare applicato agli stati. Faccio fatica a credere che campagne di delegittimazione della politica e inviti, più o meno velati, all'astensione,  sulla base dell'argomento "in fondo a cosa serve votare?", siano fini a se stessi. Quel che in tutto questo è molto divertente è che, in un passato anche recente, ad essere definiti populisti o qualunquisti sarebbero stati discorsi di questo genere. Segno che è cambiato qualcosa e non ce ne siamo accorti.

 

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