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24 agosto 2017

 

Le ombre dello stato di polizia statunitense

di Alfred W. McCoy

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Questo testo è stato adattato e ampliato dall’introduzione al nuovo libro di Alfred W. McCoy ‘The Shadows of the American Century: The Rise and Decline of U.S. Global Power’ [Le ombre del secolo statunitense: ascesa e declino della potenza globale statunitense].

Dopo gli attacchi terroristici del 2001 Washington ha perseguito i suoi elusivi nemici attraverso i paesaggi di Asia e Africa in parte grazie a una massiccia espansione della sua infrastruttura di spionaggio, particolarmente emergenti tecnologie di sorveglianza digitale, agili droni e identificazioni biometriche. Nel 2010, dopo quasi un decennio di questa guerra segreta con il suo vorace appetito di informazioni, il Washington Post ha scritto che lo stato della sicurezza nazionale si era gonfiato a “quarto ramo” del governo federale, con 854.000 funzionari veterani, 263 organizzazioni della sicurezza e più di 3.000 unità di spionaggio, diffondendo 50.000 rapporti speciali ogni anno.

Per quanto sbalorditivi, tali dati statistici hanno solo sfiorato la superficie visibile di quello che era diventato l’apparato clandestino più vasto e più letale della storia. Secondo documenti segretati fatti trapelare da Edward Snowden nel 2013, le sole 16 agenzie di spionaggio della nazione avevano 107.035 dipendenti e un “bilancio in nero” totale di 52,6 miliardi di dollari, l’equivalente del 10 per cento del vasto bilancio della difesa.

Spazzando i cieli e sondando cavi sottomarini della rete mondiale, l’Agenzia della Sicurezza Nazionale (NSA) ha potuto penetrare chirurgicamente le comunicazioni confidenziali di quasi ogni leader del pianeta, contemporaneamente rastrellando miliardi di messaggi ordinari. Per le sue missioni segrete la CIA ha avuto accesso al Comando Operazioni Speciali del Pentagono, con 69.000 unità d’élite (Rangers, SEAL, Commando dell’Aviazione) e al loro agile arsenale. In aggiunta a questa formidabile capacità paramilitare, la CIA ha usato trenta droni Predator e Reaper responsabili di più di 3.000 morti in Pakistan e in Yemen.

Mentre gli statunitensi praticavano una forma collettiva di “a terra e coprirsi” [‘duck and cover’ nell’originale; si trattava del consiglio in caso di guerra nucleare, accucciarsi e coprirsi la testa – n.d.t.] con gli allarmi colorati del Dipartimento della Sicurezza Patria che pulsavano nervosamente dal giallo al rosso, pochi si sono fermati a porsi la domanda difficile: tutta quella sicurezza era realmente diretta unicamente a nemici oltre i nostri confini? Dopo mezzo secolo di abusi nazionali della sicurezza – dallo “spauracchio rosso” degli anni ’20 attraverso le molestie illegali di manifestanti contro la guerra negli anni ’60 e ’70 da parte del FBI – potevamo davvero avere fiducia che non c’era un costo nascosto di tutte quelle misure segrete proprio qui, in patria? Forse, solo forse, tutte quella sicurezza non era realmente così benigna quando si trattava di noi.

Dalla mia esperienza personale nell’ultimo mezzo secolo e dalla storia della mia famiglia lungo tre generazioni ho scoperto nel modo più personale possibile che c’è un costo reale nell’affidare le nostre libertà civili alla discrezione di agenzie segrete. Consentitemi di condividere solo alcune delle mie storie di “guerra” per spiegare come sono stato costretto a continuare a imparare e imparare di nuovo questa sgradevole lezione a mie spese.

Sulle tracce dell’eroina

Dopo aver completato l’università nei tardi anni ’60 decisi di perseguire un dottorato di ricerca in storia giapponese e fui piacevolmente sorpreso la Yale Graduate School mi ammise come membro a pieno titolo della facoltà. Ma la Ivy League in quei giorni non era una torre d’avorio. Nel corso del mio primo anno alla Yale il Dipartimento della Giustizia incriminò il leader delle Pantere Nere Bobby Seale per un omicidio locale e le proteste del Primo Maggio che riempirono il New Haven Green chiusero anche il campus per una settimana. Quasi simultaneamente il presidente Nixon ordinò l’invasione della Cambogia e le proteste studentesche chiusero centinaia di campus di tutti gli Stati Uniti per il resto del semestre.

Nel mezzo di tutto quel tumulto la concentrazione dei miei studi passò dal Giappone all’Asia sud-orientale e dal passato alla guerra del Vietnam. Sì, quella guerra. Dunque che cosa feci riguardo alla chiamata alle armi? Nel corso del mio primo semestre alla Yale, il 1 dicembre 1969, per essere precisi, l’Ufficio della Leva suddivise il calendario per un’estrazione a sorte. Le prime 100 date di nascita scelte erano certe di essere arruolate, ma qualsiasi data oltre le 200 sarebbe stata probabilmente esonerata. La mia data di nascita, 8 giugno, fu l’ultimissima data estratta, non la numero 365 bensì la numero 366 (non dimenticate l’anno bisestile); la sola lotteria che ho mai vinto a parte una friggitrice elettrica Sunbeam a una lotteria studentesca. Attraverso un convoluto calcolo morale tipico degli anni ’60 deciso che il mio esonero dalla leva, anche se ottenuto del tutto fortunosamente, richiedeva che mi dedicassi, sopra ogni altra cosa, a riflettere e scrivere sulla guerra del Vietnam e a lavorare per farla finire.

Nel corso di quelle proteste nei campus riguardo alla Cambogia nella primavera del 1970, il nostro piccolo gruppo di specializzandi in storia dell’Asia sud-orientale alla Yale si rese conto che la crisi strategica statunitense in Indocina avrebbe presto richiesto un’invasione del Laos per tagliare il flusso nel Vietnam del Sud di rifornimenti nemici. Così mentre le proteste per la Cambogia inondavano i campus di tutta la nazione, noi eravamo raccolti nella biblioteca, preparandoci all’invasione successiva curando un libro di saggi sul Laos per l’editore Harper & Row. Alcuni mesi dopo l’apparizione di quel libro una delle giovani curatrici della società, Elizabeth Jakab, colpita da un resoconto che avevamo incluso a proposito del raccolto di oppio del paese, telefonò da New York per chiedere se potevo condurre una ricerca a scrivere un libretto “veloce” sulla storia dietro l’epidemia di eroina che allora infestava l’esercito statunitense in Vietnam.

Iniziai prontamente la ricerca alla mia scrivania di studente in quella torre gotica che la Biblioteca Sterling della Yale, rintracciando vecchi rapporti coloniali sul commercio dell’oppio nel sud-est asiatico, che terminavano improvvisamente negli anni ’50, proprio quando la storia si faceva interessante. Così, dapprima con molta esitazione, uscii dalla biblioteca per condurre alcune interviste e presto mi ritrovai a seguire una traccia investigativa che girava intorno al globo. Dapprima viaggiai per tutti gli Stati Uniti per incontri con agenti della CIA in pensione. Poi attraversai il Pacifico recandomi a Hong Kong per studiare i sindacati della droga, grazie alla cortesia della squadra antidroga della polizia di quella colonia. Poi mi diressi a sud a Saigon, poi nella capitale del Vietnam del Sud per indagare il traffico di eroina mirato ai militari e poi nelle montagne del Laos per osservare le alleanze della CIA con signori della guerra trafficanti di oppio e con le milizie tribali delle colline che coltivavano il papavero da oppio. Infine volai da Singapore a Parigi per interviste a funzionari dei servizi segreti francesi a proposito del loro traffico di oppio nel corso della prima guerra d’Indocina degli anni ’50.

Il traffico di droga che riforniva di eroina i soldati statunitensi che combattevano nel Vietnam del Sud non era, scoprii, esclusivamente opera di criminali. Una volta che l’oppio lasciava i capi tribali di papavero in Laos, il traffico richiedeva complicità ufficiali a ogni livello.  Gli elicotteri di Air America, la linea aerea che allora la CIA gestiva, trasportavano oppio grezzo dai villaggi dei suoi alleati tribali delle colline. Il comandante dell’Esercito Reale Lao, uno stretto collaboratore degli statunitensi, gestiva il più grande laboratorio di eroina del mondo ed era così noncurante delle implicazioni del traffico che mi aprì i suoi libri mastri dell’oppio perché li ispezionassi. Molti dei più alti generali di Saigon erano complici della distribuzione della droga ai soldati statunitensi. Arrivati al 1971 tale rete di collusioni garantiva che l’eroina, secondo un successivo sondaggio della Casa Bianca su un migliaio di veterani, era “utilizzata comunemente” dal 34 per cento dei soldati statunitensi nel Vietnam del Sud.

Nulla di tutto questo era trattato nei seminari di storia del mio college. Non avevo modelli per investigare un mondo sotterraneo inesplorato di criminalità e operazioni clandestine. Una volta sceso dall’aereo a Saigon, il corpo assalito dal caldo tropicale, mi ritrovai in un’estesa città straniera di quattro milioni di abitanti, perso in uno sciame di motociclette rombanti e in un labirinto di strade senza nome, senza contatti o un indizio riguardo a come esplorare quei segreti. Ogni giorno sulle tracce dell’eroina mi presentava nuove sfide: dove guardare, che cosa cercare e, soprattutto, come porre domande difficili.

Leggere tutti quei testi di storia, tuttavia, mi aveva insegnato qualcosa che non sapevo di sapere. Invece di affrontare le mie fonti con domande su eventi sensibili di attualità, cominciai con il passato coloniale francese, quando il commercio dell’oppio era ancora legale, scoprendo gradualmente la sottostante logistica immutata della produzione della droga. Mentre seguivo quella traccia storica fino al presente, quando il traffico era divenuto illegale e pericolosamente controverso, cominciai a utilizzare parti di quel passato per mettere insieme il puzzle del presente, fino a quando non finirono al loro posto i nomi dei trafficanti contemporanei. In breve, avevo creato un metodo storico che si sarebbe dimostrato, nei successivi quarant’anni della mia carriera, sorprendentemente utile per analizzare un insieme variegato di controverse politiche estere: alleanze della CIA con signori della droga, la propagazione della tortura psicologica da parte dell’agenzia e il nostro dilagante stato della sorveglianza.

La CIA fa il suo ingresso nella mia vita

Quei mesi in viaggio, a incontrare criminali e signori della guerra in luoghi isolati, presentarono solo un minimo di vero pericolo. Percorrendo le montagne del Laos, intervistando contadini Hmong sulle loro consegne di oppio a elicotteri della CIA, stavo scendendo una pista scoscesa quando una raffica di pallottole lacerò il terreno ai miei piedi. Ero caduto in un’imboscata di mercenari dell’agenzia.

Mentre i cinque miliziani Hmong di scorta che il capo del villaggio locale ci aveva prudentemente fornito aprivano un fuoco di copertura, il mio fotografo australiano John Everingham ed io ci appiattimmo nell’erba elefantina e strisciammo in salvo attraverso il fango. Senza quella scorta armata la mia ricerca sarebbe giunta al termine, e anch’io. Dopo il fallimento dell’imboscata un agente paramilitare della CIA mi convocò a un incontro in cima a una montagna in cui minacciò di uccidere il mio interprete Lao se non avessi abbandonato la mia ricerca. Dopo aver avuto assicurazioni dall’ambasciata statunitense che il mio interprete non avrebbe subito violenze, decisi di ignorare quell’avvertimento e di non mollare.

Sei mesi e trentamila miglia dopo tornai a New Haven. La mia indagine sulle alleanze della CIA con i signori della droga mi aveva insegnato più di quanto avrei potuto immaginare sugli aspetti clandestini del potere globale statunitense.  Sistemandomi nel mio appartamento in mansarda per un anno accademico di scrittura avevo fiducia di sapere più che abbastanza per un libro su questo argomento non convenzionale. Ma la mia istruzione, emerse, era solo agli inizi.

Nel giro di settimane un tizio massiccio, di media età in un completo interruppe il mio isolamento accademico. Apparve alla mia porta d’ingresso e si identificò come Tom Tripodi, agente anziano del Bureau of Narcotics, che in seguito sarebbe diventato l’Agenzia Antidroga (DEA).  La sua agenzia, confessò in una seconda visita, era preoccupata del mio lavoro e lui era stato mandato a indagare. Aveva bisogno di qualcosa da raccontare ai suoi superiori. Tom era un tipo di cui ci si poteva fidare. Così gli mostrai alcune pagine in bozza del mio libro. Scomparve in salotto per un momento e tornò dicendo: “Roba parecchio buona. E’ un lavoro organizzato bene”. Ma c’erano alcune cose, aggiunse, non del tutto giuste, cose che poteva aiutarmi a sistemare.

Tom fu il mio primo lettore. In seguito gli consegnavo interi capitoli e lui si metteva su una sedia a dondolo, le maniche della camicia tirate su, revolver nella sua fondina sotto il braccio, a sorseggiare caffè, scarabocchiare correzioni ai margini, e a raccontare storie favolose, come la volta in cui il boss della mafia del Jersey, “Bayonne Joe” Zicarelli, cercò di comprare un migliaio di fucili in un’armeria locale per rovesciare Fidel Castro. O quando un certo guerriero clandestino della CIA tornò in patria in ferie e dovette essere scortato in ogni luogo andasse in modo che non uccidesse qualcuno nella corsia di un supermercato.

Migliore di tutte c’era quella su come il Bureau of Narcotics aveva colto i servizi segreti francesi a proteggere i sindacati corsi che contrabbandavano eroina a New York City. Alcune di queste storie, normalmente non ammesse, sarebbero apparse nel mio libro The Politics of Heroin in Southeast Asia [La Politica dell’eroina nell’Asia sud-orientale]. Queste conversazioni con un agente sotto copertura, che aveva addestrato esuli cubani per la CIA in Florida e in seguito investigato i sindacati mafiosi dell’eroina per la DEA in Sicilia, erano simili a un seminario avanzato, un corso di perfezionamento in operazioni clandestine.

Nell’estate del 1972, con il libro in stampa, mi recai a Washington per testimoniare davanti al Congresso. Mentre facevo il giro degli uffici del Congresso in Campidoglio il mio curatore mi telefonò inaspettatamente per convocarmi a New York per un incontro con il presidente e il vicepresidente di Harper & Row, gli editori del mio libro. Accompagnato in una suite di uffici di lusso sovrastanti le guglie della Cattedrale di Saint Patrick, ascoltai quei dirigenti dirmi che Cord Meyer, Jr., il vicedirettore della CIA per le operazioni clandestine, era passato dal presidente emerito della loro società, Cass Canfield, Sr.. La visita non era un caso, poiché Canfield, secondo un racconto autorevole,  “aveva prolifici collegamenti con il mondo dei servizi segreti, sia da ex funzionario della guerra psicologica sia da intimo amico personale di Allen Dulles”, l’ex capo della CIA. Meyer aveva denunciato il libro come una minaccia alla sicurezza nazionale. Aveva chiesto a Canfield, anche un vecchio amico, di metterlo a tacere silenziosamente.

Ero in guai grossi. Non solo Meyer era un alto dirigente della CIA ma aveva anche collegamenti sociali impeccabili e risorse riservate in ogni angolo della vita intellettuale statunitense. Dopo essersi laureato alla Yale nel 1942 aveva servito nei marine nel Pacifico, scrivendo eloquenti dispacci di guerra pubblicati sull’Atlantic Monthly. In seguito aveva collaborato con la delegazione statunitense che aveva redatto la Carta dell’ONU. Reclutato personalmente dal capo dello spionaggio Allen Dulles, Meyer era entrato nella CIA nel 1951 ed era finito presto a dirigere la sua Divisione Organizzazioni Internazionali che, nelle parole di quello stesso racconto, “costituiva la più grande concentrazione singola di attività clandestine politiche e propagandistiche della CIA a quel punto divenuta simile a una piovra”, compresa l’Operazione Mockingbird che immetteva in ogni grande giornale di New York disinformazioni intese ad assistere le operazioni dell’agenzia. Fonti informate mi dissero che la CIA continuava ad avere risorse presso ogni grande editore di New York e aveva già ogni pagina del mio manoscritto.

Da figlio di una ricca famiglia di New York, Cord Meyer si era mosso in circoli sociali d’élite, incontrando e sposando Mary Pinchot, la nipote di Gifford Pinchot, fondatore del Servizio Forestale statunitense ed ex governatore della Pennsylvania. La Pinchot era una bellezza mozzafiato che in seguito divenne l’amante del presidente Kennedy, facendo dozzine di visite segrete alla Casa Bianca.  Quando fu trovata uccisa lungo la riva di un canale di Washington nel 1964 il capo del controspionaggio della CIA, James Jesus Angleton, un altro ex alunno della Yale, irruppe a casa sua in un tentativo non riuscito di impossessarsi del suo diario. La sorella di Mary, Toni, e suo marito, il giornalista del Washington Post Ben Bradlee, trovarono in seguito il diario e lo consegnarono ad Angleton perché fosse distrutto dall’agenzia. A tutt’oggi il suo assassinio non risolto rimare oggetto di mistero e controversie.

Cord Meyer compariva anche sul Social Register delle famiglie distinte di New York insieme con il mio editore, Cass Canfield, il che aggiungeva un tocco di classe sociale alla pressione per sopprimere il mio libro. All’epoca in cui entrò nell’ufficio della Harper & Row in quell’estate del 1972, due decenni di servizio nella CIA avevano cambiato Meyer (secondo quello stesso racconto autorevole) da idealista liberale a un “inesorabile, implacabile promotore delle proprie idee”, mosso da “un disprezzo paranoico nei confronti di chiunque non fosse d’accordo con lui” e da maniere che erano “istrioniche e persino bellicose”. Un laureato ventiseienne non pubblicato contro il capo della manipolazione mediatica della CIA. Non fu certo uno scontro equo. Cominciai a temere che il mio libro non sarebbe mai apparso.

A suo merito, Canfield rifiutò la richiesta di Meyer di sopprimere il libro. Ma egli concesse all’agenzia la possibilità di rivedere il manoscritto prima della pubblicazione. Invece di aspettare in silenzio la critica della CIA io contattai Seymour Hersh, allora giornalista d’inchiesta del New York Times. Lo stesso giorno in cui arrivò da Langley il corriere della CIA per prendere il mio manoscritto, Hersh attraversò gli uffici della Harper & Row come una tempesta tropicale, bombardando dirigenti sfortunati di incessanti, imbarazzanti domande. Il giorno dopo la sua rivelazione del tentativo di censura della CIA apparve sulla prima pagina del giornale.  Altre organizzazioni mediatiche nazionali lo seguirono a ruota. Di fronte a un fuoco di sbarramento di copertura mediatica negativa la CIA consegnò ad Harper & Row una critica piena di negazioni non convincenti. Il libro fu pubblicato senza modifiche.

La mia vita come un libro aperto per l’Agenzia

Avevo appreso un’altra lezione importante: la protezione costituzionale della libertà di stampa era in grado di controllare persino l’agenzia di spionaggio più potente del mondo. Cord Meyer risulta avesse appreso la stessa lezione. Secondo il suo necrologio sul Washington Post: “Si presumeva che Meyer sarebbe alla fine avanzato” a capo delle operazioni clandestine della CIA, “ma la rivelazione pubblica riguardo alla questione del libro … apparentemente affossò le sue prospettive”. Fu invece esiliato a Londra e agevolato a un pensionamento anticipato.

Meyer e i suoi colleghi, tuttavia, non erano abituati a perdere. Sconfitta nell’arena pubblica, la CIA si ritirò nell’ombra e si vendicò strattonando ogni filo della vita lisa di uno studente laureato. Nei pochi mesi successivi funzionari federali del Dipartimento della Sanità, dell’Istruzione e dell’Assistenza Sociale si presentarono alla Yale per indagare il mio posto da laureato. L’Internal Revenue Service [grosso modo la nostra Agenzia delle Entrare – n.d.t.] verificò il mio reddito a livello di povertà. L’FBI intercettò il mio telefono di New Haven (cosa che appresi anni dopo da una causa collettiva).

Nell’agosto del 1972, al picco della controversia sul libro, agenti dell’FBI dissero al direttore dell’agenzia che avevano “condotto un’indagine riguardo a McCoy” esaminando i documenti che avevano compilato su di me negli ultimi due anni e interrogando numerose “fonti lui cui identità sono coperte [che] hanno fornito informazioni affidabili in passato”, producendo in tal modo un rapporto di undici pagine contenenti i dettagli della mia nascita, istruzione e attività contro la guerra nel campus.

Un compagno di università che non vedevo da quattro anni, che aveva lavorato per lo spionaggio militare, comparve magicamente al mio fianco nella sezione libri della Co-op della Yale, apparentemente ansioso di riallacciare il nostro rapporto. Nella stessa settimana in cui una recensione elogiativa del mio libro apparve sulla prima pagina della New York Times Book Review, un risultato straordinario per qualsiasi storica, la Facoltà di Storia della Yale mi sottopose a un periodo di verifica accademica. Se non fossi in qualche modo riuscito a compiere in un singolo semestre un anno di lavoro arretrato rischiavo il licenziamento.

In quei giorni i collegamenti tra la CIA e la Yale erano vasti e profondi. I college residenziali del campus setacciavano gli studenti, compreso il futuro direttore della CIA Porter Goss, per possibili carriere nello spionaggio. Ex studenti come Cord Meyer e James Angleton detenevano posizioni elevate nell’agenzia. Se non avessi avuto un consulente di facoltà in visita dalla Germania, il distinto studioso Bernhard Dahm che era estraneo a questo legame sotterraneo, quella verifica si sarebbe probabilmente trasformata in un’espulsione, terminando la mia carriera accademica e distruggendo la mia credibilità.

Nel corso di quei giorni difficili il rappresentante di New York al Congresso, Ogden Reid, un membro di rango del Comitato Relazioni Estere della Camera, telefonò per dire che stava mandando investigatori del personale in Laos per esaminare la situazione dell’oppio. In mezzo a questa controversia un elicottero della CIA atterrò vicino al villaggio dove ero sfuggito a quell’agguato e trasportò in una pista di atterraggio dell’agenzia il capo Hmong che mi aveva aiutato nelle mie ricerche. Là un interrogatore della CIA chiarì che avrebbe fatto meglio a negare quello che mi aveva detto riguardo all’oppio. Temendo, come in seguito disse al mio fotografo, che “manderanno un elicottero ad arrestarmi o … soldati a uccidermi”, il capo Hmong fece esattamente ciò.

A livello personale, stavo scoprendo quanto in profondità potevano arrivare le agenzie di spionaggio del paese, persino in una democrazia, non lasciando intatta nessuna parte della mia vita: il mio editore, la mia università, le mie fonti, le mie tasse, il mio telefono e persino i miei amici.

Anche se avevo vinto la prima battaglia di questa guerra grazie a un blitz mediatico, la CIA stava vincendo la più lunga lotta burocratica. Mettendo a tacere le mie fonti e negando ogni colpa i suoi dirigenti convinsero il Congresso che essa era innocente di qualsiasi complicità nel commercio indocinese della droga. Durante le audizioni al senato riguardo agli assassinii della CIA da parte del famoso Comitato Church tre anni più tardi, il Congresso accettò l’assicurazione dell’agenzia che nessuno dei suoi agenti era stato coinvolto direttamente nel traffico dell’eroina (un’accusa che in realtà non avevo mai formulato). Il rapporto del comitato confermò tuttavia il nucleo centrale delle mie critiche rilevando che “la CIA è particolarmente vulnerabile a critiche” su risorse indigene in Laos “di considerevole importanza per l’agenzia”, tra cui “persone note o sospettate di essere coinvolte nel traffico di droghe”. Ma i senatori non esercitarono pressioni sulla CIA per una qualsiasi soluzione o riforma di quello che il suo stesso ispettore generale aveva definito il “particolare dilemma” posto da quelle alleanze con i signori della droga, l’aspetto centrale, secondo me, della sua complicità nel traffico.

Durante la metà degli anni ’70, mentre il flusso di droghe negli Stati Uniti rallentava e diminuiva il numero dei tossicodipendenti, il problema dell’eroina recedette nei ghetti e i media passarono a nuovi argomenti sensazionali. Purtroppo il Congresso aveva rinunciato a un’occasione di controllare la CIA e di correggere il suo modo di condurre guerre clandestine. In meno di dieci anni il problema delle alleanze tattiche della CIA con trafficanti di droga a sostegno delle sue estese guerre clandestine si ripresentò a oltranza.

Nel corso degli anni ’80, mentre l’epidemia di crack-cocaina inondava le città degli Stati Uniti, l’agenzia, come scrisse in seguito il suo stesso ispettore generale, si alleò con il più grande contrabbandiere di droga dei Caraibi, usando le sue strutture portuali per mandare armi ai guerriglieri Contra in lotta in Nicaragua e proteggendolo da qualsiasi incriminazione per cinque anni. Contemporaneamente sull’altra faccia del pianeta, in Afghanistan, i guerriglieri mujaheddin imposero una tassa sull’oppio ai contadini per finanziare la loro lotta contro l’occupazione sovietica e, con il tacito consenso della CIA, gestirono laboratori di eroina lungo il confine pakistano per rifornire i mercati internazionali. A metà degli anni ’80 il raccolto di oppio dell’Afghanistan era cresciuto di dieci volte e forniva il 60 per cento dell’eroina per i tossicodipendenti degli Stati Uniti e sino al 90 per cento a New York City.

Quasi per caso io avevo avviato la mia carriera accademica facendo qualcosa di un po’ diverso. Inserito in quello studio del traffico di droga c’era un approccio analitico che mi avrebbe portato, quasi inconsapevolmente, in un’esplorazione di una vita dell’egemonia globale statunitense nelle sue molte manifestazioni, tra cui alleanze diplomatiche, interventi della CIA, sviluppo di tecnologie militari, ricorso alla tortura e sorveglianza globale. Passo dopo passo, argomento dopo argomento, decennio dopo decennio, avrei lentamente accumulato una comprensione delle parti sufficiente a cercare di mettere insieme l’intero. Nello scrivere il mio nuovo libro In the Shadows of the American Century: the Rise and Decline of U.S. Global Power, ho attinto a tale ricerca per valutare il carattere complessivo del potere globale statunitense e le forze che potrebbero contribuire al suo perpetuarsi o al suo declino.

Nel processo sono lentamente arrivato a vedere un’impressionante continuità e coerenza nella secolare ascesa di Washington al dominio globale. Le tecniche di tortura della CIA emersero all’inizio della Guerra Fredda negli anni ’50; la sua futuristica tecnologia robotica aerospaziale ebbe la sua prima sperimentazione nella guerra del Vietnam degli anni ’60; e, soprattutto, la dipendenza di Washington dalla sorveglianza apparve per la prima volta nelle Filippine coloniali intorno al 1900 e divenne presto uno strumento essenziale, anche se essenzialmente illegale, per la repressione del dissenso interno da parte dell’FBI proseguita negli anni ’70.

La sorveglianza oggi

Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre ho rispolverato quel metodo storico e l’ho usato per esplorare le origini e il carattere della sorveglianza interna negli Stati Uniti.

Dopo aver occupato le Filippine nel 1898 l’esercito statunitense, di fronte a una difficile campagna di pacificazione in un paese restio, scoprì il potere della sorveglianza sistematica per spezzare la resistenza dell’élite politica locale. Poi, durante la prima guerra mondiale, il “padre dello spionaggio militare” dell’esercito, l’arcigno generale Ralph Van Deman, che aveva imparato il mestiere nelle Filippine, attinse ai suoi anni di pacificazione di quelle isole per mobilitare una legione di 1.700 soldati e di 350.000 cittadini vigilantes per un intenso programma di sorveglianza contro sospette spie nemiche tra gli statunitensi di ascendenza tedesca, tra cui mio nonno. Nello studiare i documenti dello spionaggio militare presso gli Archivi Nazionali ho trovato lettere “sospette” sottratte dall’armadietto militare di mio nonno. Di fatto sua madre gli aveva scritto nel suo tedesco natio riguardo ad argomenti così sovversivi come confezionargli a maglia calzettoni per i suoi turni di guardia.

Negli anni ’50 agenti dell’FBI di Hoover intercettarono senza mandato migliaia di telefoni e tennero sotto stretta sorveglianza sospetti sovversivi, tra cui il cugino di mia madre, Gerard Piel, un attivista antinucleare ed editore della rivista Scientific American. Nel corso della guerra del Vietnam l’agenzia ampliò le sue attività con una serie stupefacente di intrighi perfidi, spesso illegali, in un tentativo di paralizzare il movimento contro la guerra mediante una sorveglianza pervasiva del genere visto nella mia stessa pratica dell’FBI.

Il ricordo dei programmi illegali di sorveglianza dell’FBI fu in larga misura cancellato dopo la guerra del Vietnam grazie a riforme del Congresso che prescrissero mandati giudiziari per tutte le intercettazioni governative. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre, tuttavia, hanno dato all’Agenzia della Sicurezza Nazionale via libera per lanciare una rinnovata sorveglianza di dimensioni in precedenza inimmaginabili. Scrivendo per TomDispatch nel 2009, osservai che i metodi coercitivi sperimentati inizialmente in Medio Oriente erano in corso di rimpatrio e potevano preparare il terreno per uno “stato di sorveglianza nazionale”. Sofisticate tecniche biometriche e informatiche forgiate nelle zone di guerra dell’Afghanistan e dell’Iraq avevano reso “realtà uno stato di sorveglianza digitale” e stavano così modificando il carattere della democrazia statunitense.

Quattro anni dopo la diffusione di documenti segreti della NSA ad opera di Edward Snowden rivelò che, dopo un periodo di gestazione lungo un secolo, lo stato della sorveglianza digitale statunitense era alla fine arrivato. Nell’era di Internet, la NSA poteva controllare decine di milioni di vite private in tutto il mondo, comprese quelle statunitensi, attraverso poche centinaia di indagini computerizzati nella griglia globale dei cavi a fibre ottiche.

E poi, quasi a ricordarmi nel modo più personale possibile la nostra nuova realtà, quattro anni fa mi sono trovato di nuovo oggetto di una verifica dell’IRS, di perquisizioni dell’Amministrazione della Sicurezza dei Trasporti in aeroporti nazionali e – come ho scoperto quando è caduta la linea – di un’intercettazione del mio telefono d’ufficio presso l’Università del Wisconsin-Madison. Perché? Forse è stato per i miei attuali testi su argomenti sensibili come le torture della CIA e la sorveglianza della NSA, o forse il mio nome è spuntato fuori da qualche vecchio archivio di sospetti sovversivi avanzato dagli anni ’70.  Quale che sia la spiegazione, si è trattato di una ragionevole rammemorazione che, se l’esperienza della mia famiglia lungo tre generazioni è in qualche modo rappresentativa, lo stato della sorveglianza è una parte integrante della vita politica statunitense da molto più tempo di quanto si potrebbe immaginare.

A prezzo della riservatezza personale, la rete mondiale di sorveglianza di Washington è oggi divenuta un’arma di eccezionale potenza nel tentativo di approfondire l’egemonia globale statunitense nel ventunesimo secolo. Tuttavia merita di essere ricordato che presto o tardi quello che facciamo all’estero sembra sempre tornare in patria a perseguitarci, proprio come la CIA e compagni mi hanno perseguitato in questo mezzo secolo. Quando impariamo ad amare il Grande Fratello il mondo diventa un luogo più, non meno, pericoloso.

Alfred W. McCoy, collaboratore regolare di TomDispatch, è il titolare della cattedra Harrington di storia presso l’Università del Wisconsin-Madison. E’ l’autore del libro oggi classico ‘The Politics of Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade’ che ha indagato la congiuntura di traffici illeciti di droga e operazioni clandestine nel corso di cinquant’anni, e dell’imminente In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of U.S. Global Power (Dispatch Books, settembre) dal quale questo testo è adattato. 


Questo articolo è apparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione e cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars, and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-shadows-of-americas-security-state/

 

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