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23 Set 2017

 

Trump all’Onu: manifesto di una realpolitik nazionalista

di Cesare Merlini

 

Per dirla alla francese, l’attenzione internazionale per il discorso tenuto da Donald Trump all’Assemblea delle Nazioni Unite è durata “lo spazio di un mattino”. Lì per lì i titoli dei media avevano puntato soprattutto sulle frasi minacciose riguardanti la Corea del Nord e l’Iran. Ma una volta constatato che le “minacce” in realtà non includevano azioni militari, se non in risposta a quelle eventuali di Kim Yong-un, nel primo caso, né almeno per ora ritiri unilaterali dall’accordo con Teheran nel secondo, l’interesse delle opinioni pubbliche sembra essere alquanto diminuito.

 

Tuttavia ciò che il colorito presidente americano ha detto nell’anfiteatro del Palazzo di Vetro, parlandovi per la prima volta, merita di essere rivisitato da un’ottica più ampia. Cosa per la verità non facile, perché dietro al tono roboante la sostanza è stata spesso confusa quando non contraddittoria. Ma, con un po’ di buona volontà, un filo conduttore vi può esser individuato ed è quello del realismo, nel quale le potenze sovrane fanno patti fra loro ispirandosi ai loro interessi nazionali. Un testo dunque che si potrebbe arrivare a definire ‘kissingeriano’, avendo a mente il volume ‘World Order’, che Henry Kissinger, ex consigliere nazionale ed ex-segretario di Stato di Richard Nixon, ha pubblicato tre anni fa, per affermarvi la sua immutata affezione al sistema ‘westfaliano’ dell’equilibrio e degli accordi fra Stati e al periodo di pace relativa che ne derivò nel XIX secolo.

 

L’ispirazione kissingeriana del World Order
E come tale il discorsodi Trump è stato giudicato da alcuni osservatori in sostanziale continuità con la tradizionale politica estera di Washington. Ed è stato in prevalenza apprezzato, pur con sfumature, dall’establishment repubblicano. In parte questa reazione riflette anche un senso di sollievo da parte di chi, avendo ancora nelle orecchie il devastante discorso dell’Inauguration in gennaio, aveva temuto eccessi verbali imbarazzanti e vi ha invece trovato conferma del fatto che la macchina di competenze (principalmente militari), faticosamente costruita intorno al presidente, non senza molte sanguinose epurazioni, ha in qualche modo funzionato.

 

Prima di esporre un motivo di cautela circa questa lettura, non è male ricordare ai signori del Grand Old Party qualche disavventura precedente. Semplificando un po’, prenderò in considerazione tre correnti che hanno marcato l’America conservatrice prima dell’avvento di un presidente del tutto imprevisto: quella dei cosiddetti ‘neo-con’, cultori della realpolitik, dell’interventismo e dell’esportazione della democrazia; quella degli ultras della deregulation e della detassazione; e quella della destra cristiana che combatte l’aborto, l’omosessualità e l’islamismo (quando non l’Islam stesso).

 

Il ricordo degli insuccessi e i giochi sfuggiti di mano
Forse anche in conseguenza di alcuni insuccessi (la disastrosa guerra in Iraq per i neo-con, la crisi finanziaria del 2008 per gli ultraliberali e il mancato ‘ritorno della religione’ fra i millennials per la destra cristiana), il gioco è sfuggito di mano ai conservatori tradizionali: il populismo anti-establishment, la sfiducia nei media, il destrismo anti-immigrazione e, in politica estera, la retorica bellicosa, il protezionismo e il bilateralismo – tutte tendenze non nuove nella storia americana – si sono estremizzati bruscamente, facendosi persona in The Donald.

L’apparato repubblicano e le tre correnti qui menzionate, che a quel partito prevalentemente, ma non esclusivamente, facevano riferimento, ne sono stati spiazzati, come è apparso evidente già nel corso nelle primarie repubblicane del 2016. E a seguire vi sono stati gli effetti convergenti nel mettere in questione non solo la politica estera, ma anche la separazione e l’equilibrio dei poteri pubblici e la tutela delle diversità e delle minoranze, come si è visto in questi primi nove mesi della nuova Amministrazione. E ora il problema quotidiano è appunto incapsulare un presidente inesperto e umorale ad un tempo.

 

Il dubbio di seri rischi per il sistema internazionale
La cautela qui suggerita deriva dal quesito se l’interpretazione trumpiana della realpolitik non rechi in sé dei seri rischi per il sistema internazionale, Europa compresa, ma anche per gli Stati Uniti stessi. Il discorso in questione infatti veste di realismo un peana al nazionalismo. Muovendo dalla convinzione che “lo Stato-nazione è il miglior veicolo per innalzare l’essere umano”, esso saluta il “grande risveglio delle nazioni” in atto e l’esercizio incondizionato dei loro poteri sovrani (magari con qualche eccezione più o meno arbitraria, come per il Venezuela minacciato di “intervento per la democrazia”). La parola “sovranità” (o suoi derivati) compare 21 volte nel testo dell’allocuzione.

Si può immaginare come tesi del genere siano musica agli orecchi di autocrati come Vladimir Putin e Xi Jinping (che peraltro hanno disertato il debutto del presidente americano) e di governanti che fondano la loro forza sulla mobilitazione nazionalista e religiosa come Recep Tayyip Erdogan o Narendra Modi. Le orecchie possono apprezzare, ma gli occhi soffrono di miopia.

 

Il fatto è che proprio il precedente storico del passaggio dall’ ‘800 al ‘900 ammonisce tutti sulle conseguenze del sovrapporsi del nazionalismo esasperato dell’ “America first” di Donald Trump (ma ogni nazione è “prima” per sé stessa) allo schema dell’equilibrio fra potenze sovrane, inevitabilmente ossessionate dai rapporti di forza in essere, o in fieri, e dunque intrinsecamente instabile. Alla luce della storia, le conseguenze sono quelle di una guerra mondiale immanente, si spera non imminente.

 

L’alea di una guerra mondiale con due novità
Con almeno due novità principali rispetto al passato. Innanzitutto quella delle armi nucleari, il cui uso è stato esorcizzato, durante la Guerra Fredda e in seguito, grazie alla deterrenza. Ora proprio un Kissinger può spiegare a un Trump le condizioni perché questa funzioni: che gli attori principali siano pochi (donde la non-proliferazione) e che siano raziocinanti, non impulsivi. Se il nipotino Kim mette in questione la prima condizione, Donald ‘nuvola gialla’ mette in questione la seconda.

 

L’altra novità è lo stato di interdipendenza esistente fra gli Stati, nominalmente sovrani: interdipendenza economico-commerciale (ben maggiore di quella di un secolo fa) e ancor di più tecnologica (senza precedenti). Non so se lo speach-writer di Trump ha letto il menzionato libro di Kissinger e, se sì, è arrivato fino all’ultimo capitolo, intitolato “La politica estera nell’era digitale”. In esso il maestro della realpolitik ammette che le comunicazioni di massa pongono una grande sfida di innovazione alla diplomazia, anche se poi la lascia lì un po’ in sospeso l’analisi delle conseguenze.

 

La risposta resta quella dei ‘patti’ multilaterali (più che bilaterali) e degli istituti internazionali, capaci di condizionare le sovranità nazionali agli interessi condivisi. Il discorso di Trump all’Onu invece, e non inaspettatamente, giunge a conferma di un’impostazione contraria alle istituzioni tutte, quelle globali, quelle occidentali e infine quelle europee (peraltro mai menzionate nel discorso). Giustamente sia Emanuel Macron sia Paolo Gentiloni, nei loro interventi alla stessa tribuna, hanno invece insistito sulla necessità di tutelare, anzi dove possibile rafforzare il multilateralismo.

 

Non è una questione di preferenze filosofiche, bensì di rispondenza alle esigenze del mondo odierno, in assenza della quale si ha il degrado del sistema internazionale, tanto più se la sua maggior potenza rinuncia alla leadership, come sembra.

 

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