Fonte: Corriere della Sera

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24/09/2017

 

Iran, un missile e due messaggi

di Sergio Romano

 

Quando ha visitato l’Arabia Saudita nello scorso maggio ed è stato accolto trionfalmente dai suoi ospiti, Donald Trump non poteva ignorare quali fossero i loro rapporti con l’Iran sciita. L’Arabia custodisce due luoghi santi dell’Islam (Mecca e Medina), riceve ogni anno immense folle di pellegrini prevalentemente sunniti ed è la capitale religiosa della loro grande famiglia in un periodo storico in cui le crisi medio-orientali hanno inasprito il secolare dissidio fra sunniti e sciiti. Non poteva ignorare quindi quale sarebbe stata la reazione di Teheran non appena il governo iraniano avesse appreso che Trump aveva approfittato del suo viaggio per concludere con i sauditi uno dei maggiori contratti per forniture belliche stipulati negli ultimi anni. L’America venderà armi al Regno dei Saud per una somma pari a 110 miliardi di dollari, destinati a diventare 350 nel corso del prossimo decennio. E Trump, nei mesi seguenti, non ha smesso di dichiarare pubblicamente che l’Iran è uno Stato canaglia e che quello stipulato da Barack Obama insieme ad altri Paesi (i cinque del Consiglio di sicurezza e la Germania) è un pessimo accordo, da abolire o rinegoziare il più rapidamente possibile. Il missile iraniano delle scorse ore contiene dunque almeno due messaggi. Il primo dice ai sauditi che Teheran è in grado di colpire le loro città e le loro installazioni militari. Il secondo dice a Trump che l’Iran non si lascerà intimidire dalle sue provocazioni.
Ma anche quella degli iraniani, per molti aspetti, è una provocazione. Era davvero necessario lanciare questo missile in un momento in cui il presidente degli Stati Uniti non perde occasione per dipingere l’Iran, agli occhi del mondo, come uno Stato terrorista? Non sarebbe stato meglio evitare gesti bellicosi e lasciare all’uomo della Casa Bianca il ruolo del provocatore irresponsabile, soprattutto in un momento in cui molti Paesi sarebbero disposti a pronunciare su di lui questo stesso giudizio? Perché l’Iran, uno Stato non privo di antica saggezza, ha deciso di adottare una strategia non troppo diversa, anche se meno pericolosa, di quella del leader coreano Kim Jong-un?
Forse ciascuno dei tre Paesi persegue obiettivi non troppo diversi da quelli del suo nemico e ogni giocatore cerca di costringere il proprio avversario a fare un passo indietro. Trump spera di convincere la Cina a uscire dal suo riserbo per obbligare la riluttante Corea del Nord, con i mezzi persuasivi di cui dispone, ad abbandonare il proprio programma nucleare. Kim è pronto a tirare la corda fino al giorno in cui il Giappone e la Corea del Sud (i due Paesi maggiormente esposti ai rischi di un conflitto) diranno a Trump che non ha il diritto di giocare con le loro vite. E il presidente iraniano Hassan Rouhani spera di potere contare sul sostegno di quei Paesi, dall’Europa occidentale alla Russia, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare al mercato iraniano per compiacere l’America. Ciascuno dei tre gioca d’azzardo ed è quindi imprevedibile. Ma nessuno mi sembra essere più imprevedibile del presidente americano. Mentre gli altri hanno una strategia più o meno razionale, Trump sembra essere dominato soprattutto dal desiderio di essere sempre e comunque il contrario di Obama. Ma anche il presidente ha un tallone d’Achille: le crescenti preoccupazioni di molti collaboratori per la volubilità del suo carattere e i timori di molti repubblicani che non vorrebbero essere costretti a preparare le elezioni di mezzo termine (probabilmente il 6 novembre 2018) durante una incontrollabile crisi internazionale.
Sono giorni grami, comunque, quelli in cui la speranza della pace è affidata a considerazioni e calcoli di questa natura.

 

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