http://www.lintellettualedissidente.it

23 ottobre 2017

 

L’Impero e il suo declino

di Riccardo Antonucci

 

La crescente difficoltà degli Stati Uniti di destreggiarsi all’interno di alcuni scenari ed i quantomeno ridotti successi bellici sono segnali di una crisi profonda. Uno stato di estrema difficoltà che sta lentamente portando al collasso l'impero americano: assediato da decenni di difetti organizzativi e strategici.

 

Sembra quasi una contrapposizione ironica: chi vincerà tra la potenza militare più grande del mondo ed il centesimo Stato per estensione (120.540 km²)? A quanto pare, la storia di Davide e Golia pare ripetersi: secondo un articolo di Politico dell’8 settembre 2017, la Corea del Nord rimane sostanzialmente un enigma per i servizi segreti statunitensi che, tutt’ora, non riescono a fornire un adeguato background informativo alle Forze armate USA – la Corea è stata infatti definita come uno dei bersagli più difficili, se non il più difficile. Ciò rende possibili attacchi aerei contro i siti nucleari e strategici nordcoreani di limitata utilità, dal momento che questi lascerebbero con tutta probabilità intatto il potenziale offensivo di Pyongyang che, come ricorda Gian Micalessin il 29 settembre 2017, è composto da un complesso sistema di tunnel e impianti sotterranei.

 

La situazione non sembra meno favorevole per quanto riguarda lo scenario europeo. Politico lamenta l’impreparazione dell’esercito americano: le forze di reazione rapida sarebbero, infatti, mal equipaggiate e mal organizzate per affrontare un’aggressione russa. La base italiana 173 Airborne Brigade non avrebbe la capacità di svolgere le sue missioni efficacemente e con rapidità decisiva, stando all’analisi svolta dalla brigata e di cui Politico ha ottenuto una copia il 2 settembre 2017. Mentre le esercitazioni congiunte con le forze armate ucraine mostrano un buon grado di operatività da parte di Kiev, non si può dire lo stesso delle forze statunitensi, i cui ufficiali sul posto lamentano l’assoluta necessità di guardare a noi stessi criticamente.

 

Il terreno di confronto fra Russia e Stati Uniti non include solamente l’operatività sul campo: secondo quanto riportato da Robert Beckhusen in War Is Boring l’11 ottobre 2017, qualora tutto dovesse andare secondo i piani, la Marina militare russa potrebbe adottare per il 2020 circa un nuovo missile cruise antinave chiamato Zircon. Si tratta di un missile ipersonico con testata di 650 libbre, capace di volare a velocità superiori al Mach 5 e strutturato in modo da utilizzare, oltre al combustibile tradizionale, aria compressa ottenuta tramite lo stesso movimento aereo così da portare la propria velocità oltre ogni livello finora raggiunto. in aggiunta a questo, il missile è in grado di ridurre al minimo il calore e la frizione causato dall’aria, rendendolo un progetto qualitativamente oltre ogni standard finora raggiunto. Qualora la Russia riuscisse a realizzare questo progetto – e le possibilità, secondo War Is Boring, sono considerevoli – sarebbe provvista di uno dei più letali missili antinave del mondo, con un raggio d’azione massimo di 500/640 miglia, più di tre volte il raggio della versione dell’equivalente americano Harpoon.

 

Design e velocità rendono Zircon estremamente difficile da captare da parte dei radar; un’arma – stando ad un recente studio della RAND – particolarmente ardua da contrastare attraverso i moderni sistemi di difesa antimissilistica sia aerei che navali. Ciò che però rende Zircon più insidioso è la possibilità di poter essere inserito in dotazione presso la maggior parte delle navi e dei sottomarini della Marina militare russa, rendendolo così anche arma fortemente versatile. In pratica, la Russia potrebbe dotarsi di una Marina con un grado di interoperabilità ancor più elevato – anche grazie alla crescente collaborazione con forze di terra e aeree – e capace di adempiere sia funzioni difensive – in cui è fondamentalmente impegnata come guardia di confine – che offensive.

Attualmente gli Stati Uniti sono alle prese con un’importante riorganizzazione delle proprie Forze armate, puntando su team di specialisti dalle dimensioni ridotte e capaci di combattere su più fronti, dalla terra al mare fino al web. La sfida per gli analisti è far fronte al contesto che si delineerà fra il 2025 ed il 2040, dove si preferirà l’operatività di piccoli gruppi semi indipendenti e capaci di svolgere più funzioni, piuttosto che grandi dispiegamenti di forze. Resta, però, il dubbio che tali sforzi non basteranno ad invertire il trend sostanzialmente negativo appena descritto.

 

Gli scenari delineati sembrano stridere con le aspettative suscitate dall’ingente spesa federale destinata alla Difesa, la quale ancora tutt’oggi equivale a circa il 40% della spesa mondiale per lo stesso settore. Eppure, come scrive ancora Robert Beckhusen, il continuo aumento della spesa non ha visto corrispondere un adeguato aumento della qualità dell’apparato; anzi, si potrebbe sostenere l’esatto opposto. Secondo l’articolo, la maggior parte dei finanziamenti viene incassata dalle grandi corporationsper poi essere ripartita in profitti per dirigenti, mentre solo una parte viene effettivamente destinata allo sviluppo di nuove tecnologie che, di solito, non funzioneranno come promesso dato che troppo di sovente il risultato sono armi che non servono a prezzi che non ci possiamo permettere. La radice di questa stortura è il sistema dei contractors che, solo per i premi assegnati alle compagnie, ha portato il Governo USA a spendere 304 miliardi di dollari su più di 600 miliardi che costituiscono il suo budget per il 2016. Come ricorda sempre War Is Boring, cinque contractors – Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, General Dynamics e Northrop Grumman – sono costati in termini di ricavi dalle tasse dei contribuenti americani 100 miliardi di dollari, circa un terzo di quanto speso dal Pentagono per tutti i contractors nell’anno 2016. Il giro dei contractors non si ferma solamente alle armi, coinvolgendo anche industrie farmaceutiche – come la United Health Group, la quale ha ricevuto dal Governo americano 2,9 miliardi di dollari – ed università – come MIT e John Hopkins, rispettivamente un miliardo e 902 milioni.

 

In alcuni casi come per la Lockheed Martin e la Northrop Grumman, il sistema attuale è pressoché l’unico motivo per cui determinate realtà economiche sono ancora attive e sotto la presidenza Trump i profitti destinati ai contractors sono aumentati nei primi due quarti del suo primo anno. Inoltre, Trump ha spinto per un aumento della spesa di 54 miliardi di dollari, mentre il senato ha sostenuto un aumento di 90 miliardi nel National Defense Authorization Act. D’altra parte, le grandi industrie sono particolarmente attive anche nel lobbismo, con una spesa per i Political Action Committee di 65 milioni di dollari dal 2009. Sebbene circa due terzi dei contributi siano ora diretti verso il GOP, si avrà prontamente un’inversione di tendenza qualora i democratici riescano a riottenere il controllo del Congresso. L’investimento in lobbying diretto, invece, è pari a 1 miliardo di dollari a partire dal 2009 e fra le 700 e le 1000 persone sono impegnate come lobbisti per ciascun anno. Inoltre, fra le persone che svolgono attività di lobbismo vi sono spesso ex funzionari del Governo o ex congressisti, che per il fenomeno delle “porte girevoli” concludono la propria carriera nelle alte sfere dello Stato per poi spendere il loro capitale politico, fatto di conoscenze influenti ed esperienza, all’interno del settore privato. Questo determina pericolosi conflitti di interesse che sono poi alla base della sovrapposizione evidente fra le necessità della sicurezza nazionale e la volontà delle grandi compagnie di accrescere i propri utili.

 

I contractors – più di 600 mila – sono la spina dorsale di questo sistema e sono talmente numerosi e poco monitorati che il Pentagono non ha nemmeno una chiara idea di quanti siano attualmente da esso stipendiati. Secondo le stime più accurate, un taglio del 15% sul numero di contractors porterebbe ad un risparmio di 20 miliardi di dollari all’anno. Se a fronte di questo costo ci fosse un ritorno adeguato in termini di posti di lavoro, si potrebbe parlare di una spesa vantaggiosa. Il punto fondamentale è che tutto questo sistema, così dispendioso ed elefantiaco, in realtà abbia un impatto estremamente ridotto sull’occupazione. Secondo uno studio compiuto da economisti dell’Università del Massachusetts nel 2011, le spese militari sarebbero il sistema peggiore per creare posti di lavoro: la stessa somma di denaro investita in qualsiasi altra area, si parli di infrastrutture e trasporti fino all’educazione e alla sanità, crea fino al doppio dei posti di lavoro che si ricaverebbero dalle spese militari. La questione, dunque, è tutta politica, non economica.

Le cronache riportano una staticità di fondo nei principali scenari in cui gli Stati Uniti sono presenti militarmente, dalla Corea del Nord all’Europa. A fronte di un’analisi più accurata, però, appare evidente come gli USA stiano subendo le conseguenze di una forte crisi del proprio apparato militare, che paga sempre di più il costo di un’organizzazione inefficiente. I quantomeno ridotti successi bellici degli Stati Uniti sono però ben lontani dall’essere il frutto di un’iniqua fortuna. Essi riflettono uno stato di profonda crisi in cui versa l’apparato difensivo di Washington, messo alla prova dagli importanti difetti in terminiorganizzativi e strategici che si sono accumulati nel corso dei decenni e che, come sottolineato da un report del Pentagono e pubblicato il 29 giugno 2017, sta portando al collasso l’impero americano. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’egemonia militare statunitense sarebbe entrata in una fase di erosione, per non dire collasso, entrando in una fase di post primacy che vede come soluzione – sempre secondo il report del Pentagono – una linea più o meno già sentita e riassumibile in tre punti fondamentali:

1) Più sorveglianza;

2) Più propaganda (“manipolazione strategica delle percezioni”);

3) Più espansionismo e flessibilità militare.

 

Il contesto di post primacy in cui gli Stati Uniti si ritroverebbero ad operare, secondo il DoD (Department of Defense), è caratterizzato da una qualità peculiare riassumibile come resistenza all’autorità (“resistance to authority”), mentre l’ordine internazionale è sempre più caotico e difficile da imbrigliare. I pericoli che emergono dallo studio sono incarnati non solamente dalla Russia e dalla Cina, che sono tradizionalmente rappresentati come minacce crescenti nei confronti degli interessi americani, ma allo stesso tempo dal rischio sempre maggiore di eventi simili alle Primavere arabe, diffuse non solamente in Medioriente bensì in tutto il mondo. Il report è il frutto di un anno di ricerche compiuto con la collaborazione di numerose agenzie all’interno del Department of Defense e dello US Army, pubblicato in seguito dallo US Army War College’s Strategic Studies Institute per valutare l’approccio del DoD nell’assegnazione del rischio all’interno di tutti gli scenari in cui è coinvolto.

 

A riguardo è disponibile un esaustivo commento di Nafeez Ahmed, autore di Failing States, Collapsing Systems – BioPhysical Triggers of Political Violence (2017), per Insurge Intelligence. Il primo punto su cui l’autore dell’articolo focalizza la propria attenzione è proprio la nozione di “collasso”, che viene indicato dal rapporto tramite la seguente descrizione:

Mentre gli Stati Uniti rimangono un gigante politico, economico e militare globale, essi non beneficiano più di una posizione inattaccabile contro concorrenti statali.

Il report è allo stesso tempo molto chiaro nel definire in termini imperialisti – come nota lo stesso Ahmed – la tipologia di potere esercitato dall’impero americano dal momento che, dalla fine della Seconda guerra mondiale

Le forze dello status quo sono collettivamente a loro agio nel loro ruolo dominante nel dettare i risultati dei termini della sicurezza internazionale e resistere contro l’emergere di centri di potere ed autorità rivali.

 

Il fine di tutto questo sistema, come affermato dal documento, è assicurare che gli Stati Uniti e i loro partner internazionali abbiano accesso incontrastato al cielo, al mare, al cyberspazio e allo spettro elettromagnetico in modo da mantenere la loro sicurezza e prosperità. Questo comporta che gli Stati Uniti debbano poter contare sulla possibilità di accedere fisicamente in ogni regione del mondo in qualsiasi momento, fatto che mal si concilia con le ambizioni dei numerosi concorrenti che puntano a ridefinire l’assetto geopolitico contemporaneo. La guerra che si profila è sempre più legata alla lotta pro o contro la globalizzazione, da sempre sostenuta tanto dalla possibilità di condizionare il comportamento di organizzazioni come l’FMI e dal massivo dislocamento di potere militare nel mondo da parte degli Stati Uniti, che ancora oggi configurano l’attuale conflitto fra una globalizzazione da loro diretta e ispirata e coloro che mostrano segni di resistenza.

 

Le potenze rivali – Russia, Cina, ma anche Corea del Nord e Iran – sono indicate come la principale minaccia per quello stesso status quo di cui si è parlato precedentemente. La loro pericolosità, stando al rapporto stesso, è dovuta alla loro semplice volontà di perseguire il proprio legittimo interesse nazionale, visto di per sé come una minaccia nei confronti della supremazia statunitense – niente a che vedere con una reale minaccia dal punto di vista bellico, che il rapporto non menziona. In particolare, la Russia e la Cina sono descritte come “forze revisioniste” che traggono benefici dal sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti ma cercano allo stesso tempo di ottenere una nuova distribuzione di potere ed autorità corrispondente al loro emergere come rivali legittimi del dominio USA. Tuttavia, come fa notare Ahmed, nel report non è fornita una descrizione particolarmente sostanziosa di come effettivamente queste potenze rivali costituiscano una minaccia concreta nei confronti della sicurezza nazionale americana.

Lo strumento che il DoD indica come chiave della minaccia costituita da Cina e Russia è l’utilizzo strategico di tecniche di “zona grigia”, ossia legate all’uso di “mezzi e metodi ben al di sotto di un’inequivocabile o chiara provocazione o conflitto”, giungendo alla conclusione che anche gli USA dovrebbero avvalersi della stessa tecnica per garantire la propria supremazia. Inoltre, il documento mostra come gli Stati rivali costituiscano un rilevante ostacolo all’influenza di tipo imperialista degli Stati Uniti all’interno della loro regione.

 

Al livello minimo, intendono distruggere il raggio d’azione dell’ordine guidato dagli Stati Uniti all’interno di ciò che loro percepiscono come la loro legittima zona d’influenza. Sono anche risoluti nel sostituire quell’ordine a livello locale con un nuovo insieme di regole da loro stabilito.

Niente minaccia nucleare, insomma, ma la semplice volontà di poter decidere autonomamente senza piegarsi ai diktat di Washington sembra essere una minaccia ancor più grave.

 

Il rapporto analizza in maniera esaustiva anche il ruolo giocato dalla disponibilità di informazioni all’interno del declino del potere militare statunitense. Oltre alla minaccia nei confronti della segretezza, messa a rischio assieme all’efficacia delle operazioni rese di dominio più o meno pubblico, ricadono fra i fattori destabilizzanti anche i fatti che vengono diffusi all’interno dell’opinione pubblica, finendo per minare la solidità del “fronte interno”. Fra questi vi sono due categorie fondamentali:

1) I “fact-free”: informazioni che minano la cosiddetta “verità oggettiva”.

2) Le “actual truths”: informazioni che, al contrario, sono veritiere, divise a loro volta in tre sottocategorie:

– “Fact inconvenient”: informazioni consistenti nella divulgazione di “dettagli che, per implicazione, minano l’autorità legittima ed erodono le relazioni fra i governanti e i governati.

 

“Fact-perilous”: fughe di notizie legate alla sicurezza nazionale – come nel caso Snowden e Chelsea Manning – che riguardano la diffusione di informazioni “altamente classificate, sensibili o riservate che possono essere usate per accelerare una reale perdita di vantaggio tattico, operativo o strategico”.

 

“Fact-toxic”: informazioni che riguardano fatti “esposti in assenza di un contesto”, dunque capaci di esacerbare un importante dibattito politico. Data la loro capacità di minare le basi della sicurezza fino al livello individuale, questo tipo di informazioni sono indicate dal rapporto come particolarmente pericolose, essendo più capaci di “scatenare un’insicurezza virale o contagiosa attraverso o all’interno dei confini e fra le persone”.

 

Come nota ironicamente Ahmed, è interessante vedere come costituisca una minaccia per la legittimitàdel potere abituale non tanto il comportamento da esso seguito, quanto il fatto che questo possa divenire di pubblico dominio. Contro questa minaccia si propone un uso migliore dei sistemi di sicurezza di massa, descritti come “il sistema di intelligence più grande, sofisticato e integrato del mondo”. Viene da chiedersi, però, come mai presenti carenze di questo tipo. Probabilmente, la sfida principale a cui l’intelligence USA non ha saputo far fronte è legata all’utilizzo delle informazioni, prima ancora che alla loro acquisizione, in uno scenario in cui la stessa popolazione americana diventa terreno di una battaglia fatta di spie e di fughe di notizie. L’era di dominio incontrastato, come riconoscono gli autori del report, si è però ormai conclusa e il sistema costruito dagli USA è descritto come “sotto pressioni enormi”. Il punto chiave evidenziato in questo rinnovato scenario internazionale è la crescente incapacità del DoD di rispondere in tempo alle situazioni di crisi nel momento in cui si presentano, tanto da non riuscire ad esprimere automaticamente una “consistente e sostenuta superiorità militare locale”, concludendo con l’amara constatazione che gli Stati Uniti “non possano più contare sull’inattaccabile posizione di dominio, supremazia o preminenza di cui hanno goduto per i 20 e più anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica”. Il rischio concreto è che la maggiore complessità che si sta delineando “sfidi maggiormente l’attuale strategia, pianificazione e convenzioni e errori di assegnazione di rischio”.

 

Per dovere di cronaca, bisogna tenere presente che qualsiasi rapporto dello US Army War College non rappresenta necessariamente la posizione delle Forze armate o del DoD, implicando che qualsiasi osservazione compiuta non può essere definita come rappresentativa del Governo statunitense. Nel caso specifico, è però interessante notare come il documento ammetta di rappresentare la “coscienza collettiva” dei numerosi ufficiali consultati”, costituendo un’importantissima finestra nella mente del Pentagono e nei suoi schemi comportamentali. È profondamente educativo anche perché mostra una metodologia di ricerca che, come lo stesso Ahmed afferma, mostra di ignorare sistematicamente i reali fattori alla base di quei fenomeni politici che minano la supremazia statunitense: i processi alimentari, climatici ed energetici alla base delle primavere arabe; la confluenza della violenza militare, degli interessi petroliferi e le alleanze geopolitiche alla base della nascita dell’Isis; la crisi di fiducia verso le istituzioni a partire dalla crisi finanziaria del 2008 e la prolungata successione di fallimenti dell’economia neoliberale.

 

Forse è però troppo esigente aspettarsi che tali conclusioni vengano riconosciute da un apparato che applica “un metodo di ricerca così profondamente narcisista che riguarda poco più del parlare a se stessi”. L’autoreferenzialità della diagnosi non sembra essere adatta a curare la malattia e, probabilmente, ciò sarà alla base di un ulteriore peggioramento delle condizioni del malato.

 

top