Originale: Truthout

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25 ottobre 2017

 

Immaginare la nostra via d’uscita dal neoliberismo

CJ Polychroniou intervista Noam Chomsky e Robert Pollin

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Questa è la parte seconda di un’intervista a largo raggio agli intellettuali pubblici di fama mondiale Noam Chomsky e Robert Pollin. (parte prima in inglese)

 

C.J.POLYCHRONIOU: Noam, razzismo, disuguaglianza, incarcerazioni di massa e violenze armate sono patologie che percorrono in profondità la società statunitense. Come comincerebbe ad affrontare questi problemi un governo progressista se si trovasse in una posizione di potere nel, diciamo, prossimo decennio o giù di lì?

NOAM CHOSMKY: Problemi molto seri, indubbiamente. Al fine di affrontarli efficacemente è innanzitutto necessario comprenderli; non è una faccenda semplice. Prendiamo le quattro patologie singolarmente.

Il razzismo certamente scorre in profondità. Non c’è bisogno di entrare in dettaglio. E’ giusto davanti ai nostri occhi in innumerevoli modi, alcuni con considerevole risonanza storica. L’attuale isterismo contro gli immigrati difficilmente può non richiamare alla mente le leggi razziste sull’immigrazione che inizialmente misero al bando [gli asiatici] e furono estese negli anni venti agli italiani e agli ebrei (sotto sembianze diverse), per inciso contribuendo a mandare molti ebrei nelle camere a gas e dopo la guerra a mantenere fuori dalle coste statunitensi miserevoli sopravvissuti all’Olocausto.

Naturalmente il caso più estremo di razzismo degli ultimi 400 anni è l’amara storia degli afroamericani. La situazione attuale è sufficientemente vergognosa e poco meno lo sono dottrine comunemente condivise. L’odio nei confronti di Obama e di qualsiasi cosa egli abbia toccato riflette sicuramente un razzismo profondamente radicato. Studi comparativi di George Frederickson dimostrano che le dottrine del suprematismo bianco negli Stati Uniti sono state più rampanti di quelle del Sudafrica dell’apartheid.

I nazisti, nella ricerca di precedenti per le leggi di Norimberga, si rivolsero agli Stati Uniti, prendendone a modello le leggi contro i matrimoni misti, anche se non interamente: certe leggi statunitensi erano troppo dure per i nazisti a causa della dottrina dell’”una goccia di sangue” [il riferimento è a una dottrina legale che considerava ‘negro’ chiunque avesse anche un lontano antenato di colore – n.d.t.]. E’ stato solo nel 1967, sotto l’impatto del movimento per i diritti civili, che questi abomini sono stati cancellati dalla Corte Suprema.

E risale molto indietro, assumendo forme strane compreso il bizzarro culto anglosassone prominente per secoli. Benjamin Franklin, la grande figura statunitense dell’illuminismo, si chiedeva se tedeschi e svedesi dovessero essere banditi dal paese perché “di carnagione troppo scura”. Adottando un’interpretazione familiare egli osservò che “i sassoni sono l’unica eccezione” a questo “difetto” razziale, e per qualche processo misterioso quelli che ce la fanno ad arrivare negli Stati Uniti possono diventare anglosassoni, come quelli già accettati nel canone.

Il poeta nazionale Walt Whitman, onorato per il suo spirito democratico, giustificava la conquista di metà del Messico chiedendo: “Che cos’ha a che fare il miserabile, inefficiente Messico … con la grande missione di popolare il Nuovo Mondo con una razza nobile? Siano i nostri a realizzare tale missione!”, una missione portata a termine con la “guerra più malvagia” della storia, secondo il giudizio del presidente-generale statunitense Grant che in seguito si rammarico di aver servito in essa da sottufficiale.

Venendo a tempi recenti, Henry Stimson, uno dei membri più illustri dei governi FDR-Truman (e uno dei pochi che si opposero all’uso della bomba atomica) “ritenne costantemente che gli anglosassoni fossero superiori a ‘razze inferiori’”, osserva lo storico Sean Langdon Malloy nel suo libro Atomic Tragedy: Henry L.Stimson and the Decision to Use the Bomb e, riflettendo di nuovo idee non insolite, chiese il trasferimento di uno dei suoi aiutanti “per la vaga possibilità che potesse essere ebreo”, nelle sue stesse parole.

Le altre tre patologie che hai citato sono anch’esse caratteristiche impressionanti della storia statunitense, per certi versi persino caratteristiche distintive. Ma diversamente dal razzismo si tratta in parte di un fenomeno contemporaneo.

Prendiamo la disuguaglianza. Per gran parte della loro storia gli Stati Uniti non hanno avuto un’elevata disuguaglianza rispetto all’Europa. Di fatto, ne ebbero di meno. Ciò cominciò a cambiare nell’era industriale, toccando un picco nel 1928, dopo la distruzione forzata del movimento sindacale e la repressione del pensiero indipendente. In larga misura come risultato della mobilitazione sindacale la disuguaglianza declinò durante la Grande Depressione, una tendenza che proseguì nel periodo di grande crescita del capitalismo disciplinato dei primi decenni postbellici. L’era neoliberista che seguì invertì tali tendenze portando a una disuguaglianza estrema che supera persino il picco del 1928.

Il carcere di massa è anch’esso specifico di un periodo; in effetti dello stesso periodo. Aveva raggiunto livelli elevati nel Sud negli anni post-ricostruzione dopo che un accordo Nord-Sud del 1877 aveva lasciato campo libero al Sud per istituire lo “schiavismo sotto altro nome”, come Douglas Blackmon chiama il crimine nel suo studio di come gli stati già proprietari di schiavi idearono tecniche per incarcerare gran parte della popolazione nera. Nel farlo, crearono una rinnovata manodopera schiava per la rivoluzione industriale di quegli anni, questa volta con lo stato, non il capitale privato, responsabile del mantenimento della manodopera schiava, un considerevole vantaggio per la classe proprietaria. Passando a tempi più recenti, trent’anni fa, i tassi di incarcerazione statunitensi erano nell’ambito delle società sviluppate, un po’ verso l’alto. Oggi sono da cinque a dieci volte maggiori, molto superiori a quelli di qualsiasi paese con statistiche credibili. Di nuovo, un fenomeno degli ultimi tre decenni.

Il culto delle armi è anch’esso non radicato così profondamente come si suppone. Le armi furono, ovviamente, necessarie per condurre i due maggiori crimini della storia statunitense: controllare gli schiavi e sterminare [i nativi americani]. Ma il pubblico generale aveva scarso interesse per le armi, una questione di maggior interesse per l’industria delle armi. Il culto popolare delle armi è stato coltivato dai produttori nel diciannovesimo secolo per creare un mercato oltre ai governi. Normale capitalismo. I metodi hanno incluso l’ideazione della mitologia del “Selvaggio Ovest” in seguito divenuta iconica. Tali sforzi continuano, vigorosamente, fin nel presente. Orma in vasti settori della società entrare spavaldamente in un caffè con un’arma dimostra che sei davvero qualcuno, forse un clone di Wyatt Earp. Gli esiti inducono a riflettere. Gli omicidi con armi negli Stati Uniti sono ben oltre quelli in paesi paragonabili.  In Germania, ad esempio, le morti da armi da fuoco sono al livello delle morti negli USA da “contatto con un oggetto gettato o che cade”. E persino tali dati sconvolgenti sono fuorvianti. Metà dei suicidi negli Stati Uniti sono con armi da fuoco, più di 30.000 l’anno, rappresentando i due terzi di tutti le morti da armi da fuoco.

Passando alla tua domanda circa le quattro “patologie” – i quattro cavalieri [dell’Apocalisse – n.d.t.] verrebbe da dire – le domande si rispondono virtualmente da sé se guarda attentamente alla storia, particolarmente alla storia dopo la seconda guerra mondiale. Ci sono state due fasi nel periodo postbellico: capitalismo disciplinato negli anni ’50 e ’60, seguito dal periodo neoliberista dalla fine degli anni ’70, accelerato fortemente con Reagan e i suoi successori. E’ stato in quest’ultimo periodo che le ultime tre delle quattro patologie hanno spinto gli Stati Uniti fuori dai grafici.

Nel primo periodo postbellico ci furono alcuni passi considerevoli per contrastare il razzismo endemico e il suo impatto devastante sulle vittime. Quella fu la grande conquista del movimento di massa per i diritti civili, con il suo picco a metà degli anni ’60, anche se con una storia molto variegata da allora. Le conquiste ebbero anche un grande impatto sul sistema politico. Il Partito Democratico aveva partecipato a una coalizione scomoda, compresi di Democratici del Sud, dedita a politiche razziste ed estremamente influente a causa della maggior anzianità negli stati a partito unico. E’ per questo che le misure del New Deal furono in larga misura limitate ai bianchi; ad esempio famiglie e lavoratori agricoli furono esclusi dalla previdenza sociale.

L’alleanza finì a pezzi negli anni ’60 con la feroce reazione all’estensione di diritti minimi di cittadinanza agli afroamericani. Il Sud passò nei ranghi Repubblicani, incoraggiato dalla “strategia meridionale” apertamente razzista di Nixon. Il periodo successivo non è stato certo incoraggiante per gli afroamericani, a parte i settori d’élite.

Le politiche sociali hanno potuto compiere dei passi verso l’alleviamento di queste patologie sociali, ma è necessario molto di più. Tali necessità possono essere soddisfatte solo da un attivismo popolare di massa impegnato e da sforzi di istruzione e organizzazione. Essi possono essere agevolati da un governo più progressista, ma, proprio come nel caso del movimento per i diritti civili, esso può essere solo un aiuto, spesso riluttante.

Quanto alla disuguaglianza essa era ridotta (in base a parametri comparativi) durante il periodo del capitalismo disciplinato, l’era finale della “grande compressione” del reddito, come a volte è definita. La disuguaglianza ha cominciato a crescere rapidamente con l’avvento dell’era neoliberista, non solo negli Stati Uniti anche se gli Stati Uniti sono il caso estremo tra le società sviluppate. Durante la tiepida ripresa dalla Grande Recessione del 2008 virtualmente tutti i guadagni sono andati alla ridotta percentuale al vertice, prevalentemente all’un per cento o a una sua frazione. “Negli Stati Uniti nel complesso l’un per cento al vertice si è impossessato dell’85,1 per cento della crescita totale del reddito tra il 2009 e il 2013”, ha rivelato uno studio dell’Economic Policy Institute. “Nel 2013 l’un per cento al vertice delle famiglie nazionalmente ha portato a casa 25,3 volte quanto il 99 per cento al fondo”. E così, continua. I più recenti studi della Federal Reserve mostrano che “la quota del reddito percepita dall’un per cento al vertice delle famiglie è salita al 23,8 per cento nel 2016, in aumento rispetto al 20,3 per cento del 2013. La quota del 90 per cento più in basso nella distribuzione è scesa al 49,7 per cento, il livello più basso nella storia dell’analisi”. Altri dati sono grotteschi. Così “la ricchezza media detenuta dalle famiglie bianche nel 2016 è stata di circa 933.700 dollari, rispetto ai 191.200 dollari delle famiglie ispaniche e ai 138.200 dollari delle famiglie nere”, un risultato del razzismo profondamente radicato che esacerba l’aggressione neoliberista.

Anche la cultura delle armi si è ampliata rapidamente in decenni recenti. Nel 1975 la NRA ha creato un ramo lobbistico – pochi anni dopo un PAC [Comitato d’azione politica – n.d.t.]  – per canalizzare fondi ai parlamentari. E’ presto diventato uno dei gruppi lobbistici di interesse più potenti, con una partecipazione popolare spesso fervente. Nel 2008 la Corte Suprema, in un trionfo intellettuale di “originalità” ha rovesciato l’interpretazione tradizionale del Secondo Emendamento, che in precedenza rispettava la sua esplicita condizione riguardo al diritto di portare armi: la necessità di “una milizia bene disciplinata, necessaria per la sicurezza di uno stato libero…” Tale norma era comprensibile nel 1790. Praticamente non esisteva un esercito permanente. Lo stato più potente del mondo era ancora un nemico. La popolazione schiava doveva essere controllata. E l’invasione del resto di quello che divenne il territorio nazionale stava per essere avviata. Non esattamente la situazione di oggi.

Dal 2008 il nostro “diritto costituzionale di portare armi”, come dichiarato dalla Corte Suprema  presieduta dal membro della destra Roberts, è diventato Sacra Scrittura.

Ci sono molti fattori che hanno contribuito al forte divario tra i due periodi postbellici, nessuno dei quali ha cominciato ad affrontare ciò che è sicuramente possibile nella società più ricca della storia mondiale, con vantaggi incomparabili.

Un fatto determinante è la finanziarizzazione dell’economia con la creazione di un grande blocco di istituzioni in larga misura predatorie dedite a manipolazioni finanziarie piuttosto che all’economia reale, un processo mediate il quale “Wall Street ha distrutto Main Street” [circa ‘la gente comune’ – n.d.t.] nelle parole della redattrice del Financial Times Rana Foroohar. Uno dei sui molti esempi è la principale multinazionale del mondo: la Apple. Dispone di una ricchezza astronomica, ma per diventare ancora più ricca è passata dall’ideare beni commerciabili più avanzati alla finanza. Il suo settore Ricerca e Sviluppo come percentuale sulle vendite è diminuito dal 2001, tendenze che si estendono diffusamente tra le maggiori imprese. In parallelo il capitale delle istituzioni finanziarie che finanziava investimenti imprenditoriali durante il periodo della crescita postbellica oggi in larga misura “risiede nel sistema finanziario”, scrive la Foroohar, “arricchendo finanzieri, titani multinazionali e la frazione più ricca della popolazione che possiede la gran maggioranza delle attività finanziarie”.

Nel periodo di rapida crescita delle istituzioni finanziarie dagli anni ’70, pare ci siano stati pochi studi sul loro impatto sull’economia. Apparentemente era dato semplicemente per scontato che poiché essa (grosso modo) si accorda con i principi neoliberisti del mercato, deve essere una Cosa Buona.

Il mancato studio di queste materie da parte della professione è stato segnalato dal premio Nobel in economia Robert Solow dopo il crollo del 2008. La sua valutazione provvisoria era che l’impatto generale è probabilmente negativo: “i successi probabilmente aggiungono poco o nulla all’efficienza dell’economia reale, mentre i disastri trasferiscono ricchezza dai contribuenti ai finanzieri”. Oggi ci sono prove considerevolmente maggiori. Un documento del 2015 di due illustri economisti ha rilevato che la produttività scema in mercati con settori finanziari in rapida espansione, con un impatto maggiore sul settore più critico per la crescita a lungo termine e un’occupazione migliore: la manifattura avanzata. Un motivo, osserva la Foroohar, è che “la finanza preferisce investire in aree come il settore immobiliare e l’edilizia che sono molto meno produttive ma offrono guadagni a breve termine più rapidi e più affidabili” (e dunque anche maggiori premi ai dirigenti); l’economia in stile Trump, hotel in stile palazzo e campi da golf (assieme a debiti enormi e ripetute bancarotte).

In parte per motivi collegati, anche se la produttività è raddoppiata dai tardi anni ’70 quando la finanza stava cominciando a impossessarsi dell’economia, i salari sono ristagnati; per i lavoratori maschi sono scesi. Nel 2007, prima del crollo, al picco dell’euforia riguardo ai grandi trionfi del neoliberismo, dell’economia neoclassica e della “Grande Moderazione”, i salari reali dei lavoratori statunitensi era minori di quanto erano nel 1979, quando l’esperimento neoliberista stava appena decollando. Un altro fattore che ha contribuito a questo risultato è stato spiegato al Congresso nel 1997 dal presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, nel testimoniare sulla sana economia che stava amministrando. Nelle sue parole: “Una moderazione atipica riguardo agli aumenti delle remunerazioni è evidente da alcuni anni e pare essere la conseguenza della maggior insicurezza dei lavoratori”. Insicurezza che, come notò, stava marcatamente aumentando anche con il migliorare delle prospettive dell’occupazione. In breve, con il lavoro represso e i sindacati smantellati, i lavoratori erano troppo intimiditi per cercare salari e indennità decenti, un sicuro segnale della salute dell’economia.

Lo stesso è successo al salario minimo, che è la base per altri; se avesse continuato a seguire la produttività sarebbe oggi prossimo ai 20 dollari l’ora. Le crisi sono rapidamente aumentate con il decollo della liberalizzazione, conformemente alla “religione” che i mercati la sanno più lunga, deplorata da un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, in una pubblicazione della Banca Mondiale vent’anni fa, con nessun risultato. Ciascuna crisi è peggiore della precedente; ogni successiva ripresa più debole della precedente. Nulla di questo, per inciso, sorprenderebbe gli economisti marxisti, in larga misura spariti dalla scena negli Stati Uniti.

Nonostante molta elevata retorica riguardo al “libero mercato”, come altre maggiori industrie (energia, agroindustria, ecc.) le istituzioni finanziarie beneficiano enormemente di sussidi e altri interventi governativi. Uno studio del FMI ha rilevato che i profitti delle maggiori banche derivano in misura sostanziale dall’implicita polizza di assicurazione governativa (“troppo grandi per fallire”) che conferisce vantaggi ben superiori ai periodici salvataggi quando comportamenti corrotti portano a un crollo, cosa che non succedeva nel periodo precedente, prima che la dottrina neoliberista bipartisan promuovesse la liberalizzazione. Altri vantaggi sono reali ma non misurabili, come l’incentivo ad attuare transazioni rischiose (e dunque redditizie) con la consapevolezza che in caso di crollo i robusti contribuenti interverranno per riparare i danni, probabilmente lasciando le istituzioni più ricche di prima, come dopo il crollo del 2008 del quale sono state in larga misura responsabili.

Altri fattori includono l’attacco accelerato ai sindacati e la radicale riduzione delle imposte ai ricchi, entrambi naturali coincidenti dell’ideologia neoliberista. Un altro è la forma particolare della globalizzazione neoliberista, particolarmente dagli anni ’90, progettata in modo da offrire un’elevata protezione e altri vantaggi alle imprese, agli investitori e a professionisti privilegiati, mettendo contemporaneamente i lavoratori in competizione tra loro a livello mondiale, con ovvie conseguenze.

Tali misure hanno un effetto di muto rinforzo. Mentre la ricchezza diviene più concentrata, lo stesso avviene nel potere politico, il che conduce a politiche governative che fanno proseguire il circolo.

Un obiettivo primario della reazione neoliberista è consistito nell’invertire la caduta del saggio di profitto determinata, in parte, dalla crescente militanza del lavoro. Tale obiettivo è stato conseguito con un successo impressionante. Gli obiettivi professati, ovviamente, sono stati molto diversi. E come sempre la reazione è stata sostenuta dall’ideologia. Una base è stata la famosa tesi di Simon Kuznets: che mentre la disuguaglianza aumento agli inizi dello sviluppo economico, comincia a decrescere con raggiungimento di un livello più avanzato da parte dell’economia. Ne segue, allora, che non c’è alcuna necessità di politiche ridistributive che interferiscono con la magia del mercato. La tesi di Kuznets è presto diventata convinzione comune tra gli economisti e i pianificatori.

Ci sono, tuttavia, alcuni problemi. Uno, come osserva Jon Wisman (docente di economia presso l’American University), è che non si è trattato di una tesi, bensì di una congettura, proposta con molta prudenza. Come ha spiegato Kuznets, la congettura era basata su “forse il 5 per cento di informazioni empiriche e il 95 per cento di ipotesi, alcune delle quali fosse viziate da una pia illusione”. Questa insignificante precisazione nell’articolo è stata trascurata in modo non insolito quando c’è un’utilità dottrinale nel farlo. Altre giustificazioni funzionano in modo simile.

Si potrebbe anche descrivere il “neoliberismo” – un po’ impietosamente ma non del tutto ingiustamente – come un’ideologia dedita a stabilire con maggiore solidità una società basato sul principio “opulenza privata, miseria pubblica”, la condanna di John Kenneth Galbraith di ciò che osservava nel 1958. Molto di peggio doveva arrivare negli anni neoliberisti con lo scatenamento delle tendenze naturali del capitalismo, oggi rafforzate quando alle sue varianti più brutali è dato virtualmente campo libero sotto il Repubblicanesimo di Trump-Ryan-McConnell.

Tutto questo è sotto controllo umano e può essere rovesciato. Ci sono molte opzioni realistiche, anche senza guardare oltre la fattibilità di breve termine. Una piccola imposta sulle transazioni finanziarie ridurrebbe fortemente gli scambi rapidi che sono una perdita netta per la società mentre avvantaggiano pochi privilegiati, e fornirebbe anche a un governo progressista entrate a fini costruttivi. E’ sapere comune che il deterioramento delle infrastrutture ha raggiunto dimensioni grottesche. I programmi governativi possono cominciare ad affrontare questi gravi problemi. Possono anche essere dedicati a migliorare, anziché minare, il sistema in deterioramento dell’istruzione pubblica. Programmi di salario minimo e di economia verde del genere sviluppato da Bob Pollin potrebbero fare molto per ridurre la disuguaglianza e, oltre a ciò, creare una società molto più decente. Un altro grande contributo sarebbe un sistema sanitario [equo]. In effetti già solo eliminare le esorbitanti protezioni dei brevetti che sono una parte centrale degli “accordi di libero scambio” neoliberisti sarebbe una grande manna per l’economia generale, e gli argomenti a favore di queste misure altamente protezioniste sono molto deboli, come ha dimostrato in modo convincente l’economista Dean Baker. Leggi per porre fine al “diritto a leggi a favore dello scrocco” (in linguaggio orwelliano al “diritto a leggi sul lavoro”) che sono disegnate per distruggere i sindacati potrebbero contribuire a resuscitare il movimento del lavoro, ormai con basi differenti, compresi i lavoratori dei servizi e quelli a tempo parziale. Ciò potrebbe invertire la crescita del nuovo “precariato”, un’altra questione d’importanza fondamentale. E potrebbe ripristinare il movimento del lavoro al suo ruolo storico di forza guida nella lotta per diritti umani fondamentali.

Ci sono altri percorsi al ravvivare un movimento del lavoro vitale e progressista. L’espansione di imprese di proprietà dei lavoratori e gestite da essi, oggi in corso in molti luoghi, è uno sviluppo promettente e non è necessario sia limitato a dimensioni ridotte. Alcuni anni fa, dopo il crollo, Obama ha virtualmente nazionalizzato l’industria automobilistica, poi restituendola alla proprietà privata. Un’altra possibilità sarebbe stata consegnare l’industria alla manodopera o alle parti interessate più in generale (lavoratori e comunità) che avrebbero inoltre potuto scegliere di reindirizzare la produzione a ciò di cui il paese ha acuto bisogno: trasporti pubblici efficienti. Ciò sarebbe potuto succedere se ci fosse stato sostegno popolare di massa e un governo ricettivo. Un lavoro recente di Gar Alperovitz e David Ellerman si occupa di queste materie in modi molto istruttivi. La conversione dell’industria militare su linee simili è anch’essa molto concepibile; questioni discusse anni fa da Seymour Melman. Ci sono tutte le opzioni nell’ambito di iniziative progressiste.

La legge sul “diritto al lavoro”, beniamina dell’estrema destra, sarà probabilmente stabilita solidamente dalla Corte Suprema di Roberts ora che Neil Gorsuch è in carica, grazie a parte dei più sordidi maneggi di Mitch McConnell per escludere il candidato di Obama. La legge ha un pedigree interessante. Risale all’Associazione Cristiana Americana del Sud, un’estrema organizzazione razzista e antisemita che si opponeva ferocemente ai sindacati, i cui leader condannava come una macchinazione diabolica in cui “donne bianche e uomini bianchi saranno costretti in organizzazioni con scimmie nere africane”. Un altro nemico era il “marxismo giudeo”, i “talmudisti” che stavano programmando di sovietizzare il mondo e che lo stavano già facendo negli Stati Uniti mediante il “Giudeo Deal” altrimenti noto come “New Deal”.

Un obiettivo immediato di una politica moderatamente progressista dovrebbe consistere nel tagliare decisamente l’enorme bilancio dell’esercito, ben oltre metà della spesa discrezionale e oggi in espansione con il progetto dei Repubblicani di smantellare il governo, salvo che per il servizio alla loro ricca/industriale base elettorale. Uno dei molti buoni motivi per tagliare il bilancio militare è che esso è estremamente pericoloso per la nostra stessa sicurezza. Un esempio impressionante è il programma di Obama-Trump di modernizzazione delle armi nucleari, che ha fortemente aumentato la “potenza di uccisione”, ha scritto lo scorso marzo uno studio molto importante del Bollettino degli Scienziati Atomici. In tal modo il programma “crea esattamente quello che ci si potrebbe aspettare, se uno stato dotato di armi nucleari programmasse di avere la capacità di combattere e vincere una guerra nucleare disarmando i nemici con un attacco a sorpresa”. Questi sviluppi, certamente noti ai pianificatori russi, aumentano considerevolmente la probabilità che possano ricorrere a un attacco preventivo – il che significa la fine – nel caso di falsi allarmi o momenti molto tesi, dei quali ce ne sono sin troppi. E anche qui i fondi liberati potrebbero essere dedicati a obiettivi di cui c’è grande necessità, come svezzarci rapidamente dalla maledizione dei combustibili fossili.

E’ semplicemente un esempio. La lista è lunga.

Gli Stati Uniti spendono per l’assistenza sanitaria più di qualsiasi altra nazione al mondo, tuttavia il loro sistema sanitario è fortemente inefficiente ed esclude milioni di persone persino dalla copertura elementare. Come sarebbe un sistema di assistenza sanitaria socializzato negli Stati Uniti e come può essere superata l’opposizione del settore delle assicurazioni private, della grande industria farmaceutica e delle industrie mediche in generale? 

NOAM CHOMSKY: I fatti sono allarmanti. E’ uno scandalo internazionale e non ignoto. Uno studio recente del Commonwealth Fund con sede negli Stati Uniti, un gruppo di ricerca indipendente sulla politica sanitaria, ha rilevato una volta di più, com’è accaduto ripetutamente in passato, che il sistema di assistenza sanitaria statunitense è il più costoso del mondo, molto più di altri paesi paragonabili, e che si classifica ultimo come prestazioni tra tali paesi. Aver sommato questi due risultati è un vero trionfo del mercato. Le radici di tale risultato non sono oscure. Gli Stati Uniti sono unici nell’affidarsi a compagnie di assicurazione private in larga misura non regolamentate.  Il loro impegno è al profitto, non alla salute, e producono un enorme spreco in costi amministrativi, pubblicità, profitti e compensi alla dirigenza. La componente del sistema sanitario gestita dal governo (Medicare) è molto più efficiente, ma soffre per la necessità di operare attraverso istituzioni private. Gli Stati Uniti sono anche unici in leggi che vietano al governo di negoziare i prezzi dei farmaci che, non sorprendentemente, sono molto superiori a quelli di paesi paragonabili.

Queste politiche non riflettono la volontà popolare. I risultati dei sondaggi variano, secondo come le domande sono formulate, ma nel tempo mostrano un sostegno considerevole, spesso di maggioranza, al sistema sanitario pubblico del genere che si trova altrove. Solitamente il modello è il Canada, perché si sa così poco del resto del mondo, anche se non si classifica come il migliore. Tale primo posto è stato regolarmente vinto dal Sistema Sanitario Nazionale britannico, anche se pure esso vacilla sotto l’aggressione neoliberista. Quando è stata introdotta la legge sulle cure accessibili di Obama essa comprendeva un’opzione pubblica, appoggiata da quasi due terzi della popolazione. E’ stata cancellata senza cerimonie. L’opinione pubblica colpisce in modo particolare per il fatto che riceve così poco sostegno mediatico, nemmeno articolazione; e se viene evidenziata, solitamente è condannata. Il principale argomento contro i sistemi migliori altrove è che adottarli aumenterebbe le imposte. Tuttavia l’assicurazione unica solitamente si traduce in tagli alle spese considerevolmente superiori e in vantaggi per la vasta maggioranza; questo indica l’esperienza di altri paesi, così come quella del Medicare statunitense.

La marea può star finalmente volgendo. Sanders ha ricevuto un considerevole sostegno, anche all’interno del sistema politico, nella sua richiesta di un sistema sanitario universale da realizzare passo per passo nel suo piano, mediante una graduale estensione di Medicare e altri mezzi. Il temporaneo collasso della fanatica campagna settennale Repubblicana per distruggere l’”Obamacare” può offrire un’apertura; collasso temporaneo, perché l’organizzazione estremista al potere ha messi per minare l’assistenza sanitaria e probabilmente li userà nella sua appassionata dedizione a distruggere qualsiasi cosa sia collegata al vituperato presidente nero …  Ciò nonostante ci sono nuove aperture per un qualche grado di razionalità che potrebbe rafforzare molto il benessere popolare, nonché migliorare l’economia generale.

Di certo di sarà una massiccia opposizione da parte del potere privato, che ha una straordinaria influenza sulla nostra limitata democrazia classista. Ma può essere superata. La storia mostra che le élite politico-economiche reagiscono all’azione popolare militante – e alla minaccia di altra – sottoscrivendo misure migliorative che conservano al suo posto il loro fondamentale dominio sulla società. Le misure di riforme sociali del New Deal sono uno dei molti esempi.

Bob, tu hai recentemente prodotto un’analisi economica a favore del sostegno alla legge sull’assicurazione unica in California (SB-562) e hai lavorato sulla proposta di Bernie Sanders di un’assistenza sanitaria universale, dunque quali sono le tue idee sulla domanda precedente?

ROBERT POLLIN: Un sistema di assistenza sanitaria socializzato negli USA  – che lo si chiami “assicurazione unica”, “Medicare per tutti”, o altro – dovrebbe includere due caratteristiche fondamentali. La prima è che a ogni residente dovrebbe essere garantito l’accesso a un’assistenza sanitaria decente. La seconda è che il sistema realizzi considerevoli risparmi complessivi rispetto al sistema esistente, riducendo i costi amministrativi, controllando i prezzi dei farmaci su ricetta e i compensi ai medici e agli ospedali, riducendo cure non necessarie e ampliando quelle preventive.

Nel nostro studio che ha analizzato la proposta di assicurazione unica della California, abbiamo stimato che fornire una copertura decente a tutti i residenti dello stato – compreso, in particolare, il 40-45 per cento della popolazione dello stato attualmente non assicurata o che ha una copertura inadeguata – aumenterebbe i costi totali di circa il 10 per cento nel sistema esistente. Ma abbiamo anche stimato che gestire il sistema dell’assicurazione unica potrebbe realizzare risparmi complessivi dell’ordine del 18 per cento rispetto al sistema esistente nelle aree dell’amministrazione, dei prezzi dei farmaci, dei compensi ai prestatori e tagliando prestazioni di servizi che comportano sprechi. Nel complesso, dunque, abbiano rilevato che la spesa totale per l’assistenza sanitaria in California scenderebbe di circa l’8 per cento, anche con il sistema dell’assicurazione unica che presti assistenza decente a tutti. Per ora il mio lavoro sulla proposta di Sanders di “Medicare per tutti” è in corso, dunque mi asterrà dal fornire stime sul suo impatto complessivo.

Consideriamo quanto trasformativi sarebbero risultati del tipo californiano. Con un assicuratore unico in California l’assistenza sanitaria decente sarebbe stabilita come fondamentale diritto umano, come già accade in quasi tutti gli altri paesi avanzati. Nessuno dovrebbe rinunciare a ricevere cure necessarie perché non ha un’assicurazione o perché non può permettersi premi assicurativi e franchigie elevati. Nessuno dovrebbe temere un disastro finanziario perché si trova ad affrontare una crisi sanitaria in famiglia. Virtualmente tutte le famiglie starebbero finanziariamente meglio e anche la maggior parte delle aziende avrebbe risparmi sui costi con un assicuratore unico rispetto a quanto pagano ora per coprire i propri dipendenti.

Come può essere superata l’opposizione del settore privato dell’assicurazione sanitaria, della grande industria farmaceutica e delle industrie mediche in generale? Ovviamente non sarà facile. L’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è un affare da tre trilioni di dollari. I profitti delle compagnie private ammontano a centinaia di miliardi, anche se la maggior parte dei finanziamenti del sistema sanitario esistente provengono dai bilanci del governo federale, di quelli statali e di quelli locali. Come esempio di come reagire a questa realtà politica possiamo imparare dal lavoro dalla California Nurses Association/National Nurses United. Il sindacato delle infermiere lotta per l’assicurazione unica da più di vent’anni. Ha apportato un’enorme credibilità al problema, perché i suoi membri vedono di prima mano come la salute e il benessere finanziario specialmente delle persone non ricche negli Stati Uniti soffrono nel sistema attuale.

Non c’è nessun segreto nel modo in cui il sindacato delle infermiere lotta nell’interesse dell’assicurazione unica. Credono nella loro causa e sono molto efficaci nei modi in cui si organizzano e promuovono la loro posizione. I fondamenti sono davvero così semplici.    


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/imagining-our-way-beyond-neoliberalism/

 

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