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22 novembre 2017

 

Le società del malessere: gli Stati Uniti

di Emanuel Pietrobon

 

La strage di Sutherland Springs è solo l'ultimo di numerosi massacri che da decenni affliggono gli Stati Uniti: società del malessere che sta attraversando un tramonto di sangue.

 

324 milioni di abitanti, 33.636 morti e 73.505 feriti causati da armi da fuoco nel 2013, 372 sparatorie di massa nel 2015 e 307 nell’anno in corso, 716 detenuti ogni 100mila abitanti, il secondo tasso d’incarcerazione più alto del mondo dopo le Seychelles, 2.298.300 persone dietro le sbarre. Gli Stati Uniti d’America rappresentano il 4,4% della popolazione mondiale, ma ospitano il 22% dei detenuti del pianeta, dati alla mano del Prison Policy Initiative, e il 31% delle sparatorie di massa mondiali. Tra il 1968 e il 2011, Politifact ha calcolato che i morti causati dalle armi da fuoco siano stati quasi un milione e mezzo, una cifra ancora più esorbitante se comparata al milione e 200mila di  statunitensi caduti in campi di battaglia, dalla rivoluzione americana alla guerra d’Iraq. Con l’inizio del nuovo secolo la violenza è andata aumentando, raggiungendo la media di quasi una sparatoria di massa al giorno, secondo quanto riportato da Gun Violence Archive. L’anno scorso, la celebre rivista Forbes denunciava in Stopping Gun Violence la pericolosa deriva intrapresa dalla società statunitense con l’adozione della cultura delle armi, i cui risultati erano sotto gli occhi di tutto il mondo: un adolescente maschio statunitense fra i 15 e 24 anni ha una probabilità di 70 volte maggiore di essere ucciso con una pistola rispetto ad un coetaneo residente in uno dei 7 paesi più industrializzati del mondo, come Giappone, Canada, Italia o Germania.

 

La domanda che un consumatore di informazioni dovrebbe porsi è la seguente: è davvero la quasi libera circolazione di armi nel paese, resa possibile dalla morbidissima legislazione, ad originare questi livelli di violenza endemica? Senza dubbio, il contributo è stato significativo, ma le cause che spingono dei normali cittadini a trasformarsi in degli stragisti andrebbero cercate altrove e basta osservare la situazione della Svizzera, in cui vige una legislazione, per certi versi, simile a quella statunitense a comprendere il perché. Su una popolazione di circa 8 milioni e 300mila abitanti, in Svizzera circolano 2 milioni di armi da fuoco, ossia è armato un cittadino su quattro, ma l’Ufficio di Statistica Federale nel periodo 2009/15 ha registrato una media annuale di 41 morti per armi da fuoco. Nello stesso periodo, posizionandosi come il primo Stato al mondo per armi pro capite, 113 per abitante, 357 milioni di armi per 317 milioni di abitanti, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti registrava una media annuale di 11.385 morti per armi da fuoco.

Cosa distingue i due paesi? In apparenza niente, ma le cifre parlano chiaro: negli Stati Uniti esiste un serio problema legato alla violenza da armi da fuoco e nessuna autorità pubblica di rilievo sembra volerlo (o poterlo, leggi pistola, vedi NRA) affrontare e fino a quando mancherà la volontà di trovare una soluzione, magari ponendo delle limitazioni all’acquisto per delle categorie a rischio, le stragi continueranno in gran numero.

 

La National Rifle Association è la più influente organizzazione per i diritti civili impegnata nella difesa del diritto alla detenzione di armi per i cittadini statunitensi. Costituisce un gruppo di pressione molto potente, capace di bloccare ogni iniziativa tesa a porre limitazioni al mercato delle armi.

 

Tra il 2005 e il 2012, secondo lo United Nations Office on Drugs and Crime, il paese ha registrato un tasso medio di omicidi di 4.9 ogni 100mila abitanti, al di sotto della media globale (6.2) ma di gran lunga superiore a quella dei paesi sviluppati, di 0.8. Prima di analizzare la natura multidimensionale della violenza che avvolge il paese, è bene ripetere che le armi sono parte del problema, non il problema, essendo palese che l’origine di questo male è il radicamento di una perversa cultura della violenza in ogni livello della società e che coinvolge ogni etnia. Il Violence Policy Center ha stimato che ogni giorno vengano uccise quasi tre donne negli Stati Uniti per motivi passionali e il problema dei “femminicidi” riguarda soprattutto la comunità afroamericana, nella quale avvengono oltre un terzo di questi delitti.

Numerosi sono anche i minori vittime di violenze: nel 2010, il 91% dei minori uccisi da armi da fuoco nei paesi sviluppati proveniva dagli Stati Uniti e, ancora, due anni dopo, il paese registrava il più alto tasso di adolescenti uccisi del mondo sviluppato, 4 ogni 100mila abitanti. Secondo la rivista Pediatrics, nel biennio 2012/14, sono morti in media 1297 bambini per via di incidenti con armi da fuoco, e mediamente vengono ricoverati 16 minori al giorno per lo stesso motivo, come emerso dal Pediatric Academic Societies Meeting dell’anno scorso. Un capitolo a parte meriterebbe il banditismo di strada. Nel 2011, la Fbi mappava la presenza di oltre 33mila bande nel paese a cui erano affiliate circa 1 milione e 400mila persone, di cui 273mila minorenni, responsabili dell’80% delle morti per armi da fuoco. La domanda sorge spontanea: c’è un problema con la legge sulle armi o con le bande di strada?

 

La Mara Salvatrucha, con oltre 20mila membri, è la più numerosa banda di strada degli Stati Uniti, non che la più numerosa del mondo, con oltre 100mila pandilleros sparsi tra Americhe ed Europa occidentale. Dal 2005 è monitorata da una speciale task force del Fbi

La letteratura ed il cinema hanno

abituato il consumatore a vedere la violenza di strada come qualcosa di esotico, appartenente a subculture criminali dell’America Latina, dell’Africa nera o dell’Asia orientale, ma non è così. Negli Stati Uniti il banditismo è tanto diffuso quanto il capitalismo e provoca più morti delle sparatorie di massa che riempiono i titoli dei giornali. Il perché un giovane scelga di abbandonare gli studi per dedicarsi alla vita di strada, occupando gli spazi vuoti lasciati negli strati bassi della società dal capitalismo selvaggio, o perché decida di sfruttare una legge fatta per garantire ai cittadini il diritto all’autodifesa e alla sicurezza per commettere una strage di innocenti in una scuola, in un supermercato o in una chiesa, meriterebbero degli studi psicologici e sociologici che tardano a essere fatti e che probabilmente spiegherebbero quale malessere affligge gli abitanti della terra delle opportunità, sempre più lontana dall’idea radicatasi nell’immaginario collettivo di un paradiso terrestre in cui ogni sogno può divenire realtà con la giusta dose di talento, impegno e fortuna e ormai assomigliante ad uno scenario post-apocalittico pervaso da caos sociale, regresso comportamentale e violenza.

La violenza rappresenta un grave problema per la tenuta della società statunitense, già di per sè frammentata per via di questioni etnorazziali che portano periodicamente allo scoppio di tumulti urbani di carattere razziale e per via di divisioni politiche tra opposti estremismi che si affrontano durante grandi manifestazioni o applicano violenza arbitraria per imporre il proprio pensiero, soprattutto nei college e nelle università. Il presidente Donald Trump, commentando la recentissima strage di Sutherland Springs (Texas), nella quale Devin Patrick Delley, un ex militare, ha ucciso 26 persone in una chiesa battista, ha dichiarato che non è la legge sulle armi la causa dell’eccidio e ha ragione. La quasi-libera circolazione delle armi accentua un problema esistente, ma sulle cui origini nessuno si interroga e che pertanto non può eliminato pensando di imporre soltanto delle restrizioni alla compravendita di armi.

 

Forse, per comprendere che cosa stanno attraversando gli Stati Uniti, e in misura minore e diversa le altre società del malessere, è necessario rileggere il profetico libro Prospettive sulla guerra civile dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, incentrato sul probabile futuro che i paesi del mondo sviluppato avrebbero affrontato qualora non avessero ripreso il controllo sulle loro società, sempre più instabili e violente. Introducendo il concetto di guerra civile molecolare, l’autore si posizionò tra i cosiddetti neomedievalisti delle relazioni internazionali, ritenendo tutt’altro che prospero l’orizzonte occidentale e avvertendo della possibilità di una pericolosa regressione sociale:

Osserviamo il mappamondo. Localizziamo le guerre in corso in territori a noi lontani, preferibilmente nel Terzo mondo. Parliamo di sottosviluppo, non-contemporaneità, fondamentalismo. Questa lotta incomprensibile sembra svolgersi a grande distanza. Ma si tratta di un’illusione. In realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città […] I suoi protagonisti non sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes, ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial killer. E questi mutanti, come nelle guerre africane, sono sempre più giovani. La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini.

 

LEAD Technologies Inc. V1.01

Hans Magnus Enzensberger (Kaufbeuren, 11 novembre 1929 – vivente), scrittore e poeta tedesco. Ha introdotto nella scuola di pensiero neomedievalista delle relazioni internazionali la teoria della guerra civile molecolare, uno scenario di violenza capillare e regressione culturale e umana che attenderebbe i paesi sviluppati

 

Nell’attesa che un’altra strage cancelli dalla debole memoria dell’opinione pubblica quanto accaduto a Sutherland Springs, è doveroso ricordare che le vittime della guerra civile molecolare che sta prendendo piede nelle società del malessere, non solo negli Stati Uniti, avevano dei sogni e delle speranze, ma sono rimaste vittime della decadenza dell’uomo post-tutto, post-eroico, post-moderno, post-cristiano, post-umano, moralmente vuoto, votato solo alla gratificazione personale, violentemente narcisista e irrimediabilmente perduto.

Quando un uomo decide di entrare in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga, per uccidere delle persone colpevoli di credere in una realtà ultraterrena dominata da giustizia e perfezione, lì, quel momento, è segno che l’uomo non è più così umano. Haley Krueger, 16 anni, voleva diventare un’infermiera. Annabelle Pomeroy, 14 anni, figlia del pastore di Sutherland Springs. Famiglia Holcombe, insieme per assistere alla messa. I morti gridano, i vivi piangono, la società del malessere ringrazia.

 

Bowling a Columbine (2002) (Italiano): https://youtu.be/bPOfYAfz7W0

 

Intro del documentario Bowling a Columbine (2002) di Michael Moore, incentrato sul tema della violenza da armi da fuoco negli Stati Uniti. Vinse un premio Oscar al miglior documentario

 

Seconda Parte

 

Malattie alimentari, disturbi mentali e di genere, suicidi e una nuova epidemia di droghe pesanti stanno letteralmente uccidendo la popolazione degli Stati Uniti.

 

I problemi della prima potenza mondiale non riguardano solo la diffusa delinquenza giovanile, le tensioni inter-etniche, il dramma del record delle sparatorie di massa e le difficoltà di creare le condizioni adatte per ridurre le disparità sociali ed economiche che hanno prodotto la più numerosa popolazione carceraria del pianeta. L’allarme sociale è causato anche da altri eventi, che stanno letteralmente uccidendo gli Stati Uniti, anch’essi – come gli altri trattati nel precedente approfondimento – largamente ignoranti dalle autorità e finora privi di una soluzione. In quali condizioni di salute versa la popolazione della società del benessere (o malessere) per antonomasia? Innanzitutto, secondo il National Center for Hearth Statistic, l’aspettativa di vita dalla nascita, dopo anni di crescita, nel 2015 si è ridotta di 0.1 punti, posizionandosi a 78.8 anni: la prima riduzione dal 1993, l’anno nero dell’epidemia di Aids.

 

Tra i motivi alla base del calo, l’aumento di 8 delle 10 principali cause di morte, tra cui ictus, diabete, suicidio, malattie cardiache, renali e dell’apparato respiratorio. Non è un caso che il calo dell’aspettativa di vita sia avvenuto in concomitanza all’aumento di coloro che soffrono di obesità, che è alla base di buona parte dei problemi suscritti, che rappresentavano il  38% della popolazione adulta americana nel 2016 e che dovrebbero aumentare di 4 punti percentuali entro il 2030, secondo i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC).

 

L’obesità rappresenta un’emergenza sanitaria nazionale: annualmente vengono spesi circa 149 miliardi di dollari nella prevenzione e nella lotta di questa patologia, di cui soffre – in ognuno dei 50 Stati, il 20% degli abitanti, con il record del Mississippi di 4 obesi ogni 10 abitanti nel 2014

 

La cultura del cibo spazzatura della fast food nation ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione dei disturbi alimentari nel paese e sono stati nulli gli effetti di campagne governative tese alla sensibilizzazione sul fenomeno, come Let’s Move inaugurata sotto l’amministrazione Obama, o le iniziative di contrasto all’ignoranza alimentare, come l’introduzione di nuove etichettature dei beni alimentari tese ad informare il pubblico consumatore sui loro valori nutrizionali. Non solo obesità, ma anche epidemia di suicidi, divenuti la prima causa di morte per i maschi adulti sotto i 50 anni in accordo con il CDC. Nel 1999 il tasso di suicidio era di 10 persone ogni 100mila abitanti, nel 2014 era salito a 13.

Chi e perché decide di togliersi la vita? L’identikit del suicida medio è quello del maschio bianco, in età matura, con problemi lavorativi o di famiglia, ma la scelta di uccidersi è aumentata in ogni etnia, sesso e categoria sociale. Il disturbo post traumatico da stress (DPTS) contribuisce in maniera importante ad instillare negli statunitensi tendenze suicide, trattandosi del paese con le percentuali più alte di persone affette dalla patologia: il 3.5% della popolazione adulta la sperimenta annualmente (contro lo 0.5% – 1% della media globale) e si manifesta, almeno una volta nella vita, al 9% degli statunitensi, secondo le stime dell’American Psychiatric Association del 2013. Emblematico il caso dei suicidi tra gli universitari, i militari e i veterani. Secondo il Dipartimento degli Affari dei Veterani, tra i 20 e i 22 ex militari si tolgono la vita quotidianamente, per un totale di circa 8mila suicidi l’anno. Tra le cause alla base del malessere che affligge militari ed ex militari, il DPTS e le difficoltà di reintegrazione nella società causate dall’esperienza bellica o dal mancato riconoscimento del valore sociale dell’impresa svolta.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 100 Diverse problematiche di natura sociale e psichiatrica rendono i veterani dell’esercito degli Stati Uniti particolarmente inclini a tendenze suicide. Nel 2013, secondo le stime del Dipartimento degli Affari dei Veterani, il 20% dei reduci dall’Iraq e dall’Afganistan soffriva di DPTS

 

Nelle università statunitensi, complici l’elevata competizione, la tensione emotiva e la pressione legata alle aspettative personali e al costo dell’istruzione, il suicidio è diventato la seconda causa di morte tra gli studenti, secondo quanto denunciato dal College Degree Search. Il tasso dei suicidi tra gli universitari statunitensi è di 7.5 ogni 100mila studenti, per un totale di 1100 suicidi l’anno. Poche e infruttuose le iniziative promosse per contrastare il problema, tra cui l’istituzione del National Graduate Student Crisis Line e della National Action Alliance for Suicide Prevention. In aumento vertiginoso anche le morti per overdose da sostanze stupefacenti, soprattutto eroina e droghe sintetiche, e da farmaci oppiacei, come l’OxyContin e il Fentanyl. Le morti per droga sono quadruplicate tra il 1999 e il 2015 secondo il CDC. Soltanto tra il 2014 e il 2015, il tasso di morti per overdose da eroina è passato da 6.2 ogni 100mila abitanti a 14.7.

Un servizio-inchiesta del New York Times che ha creato molta discussione nel paese, ha stimato in oltre 59mila i morti da overdose per droga nel 2016, in aumento del 19% rispetto all’anno precedente, in cui se ne registrarono 52.404. Come nel caso dei suicidi, l’identikit del tossicomane e farmacodipendente medio è un bianco americano adulto, seguito a grande distanza da afroamericani e latinos. Secondo uno studio di Arthur Williams e Adam Bisava per il New England Journal Of Medicine particolarmente sottovalutato è l’allarmante fenomeno della dipendenza da OxyConti, Fentanyl e altri farmaci oppioidi, di cui farebbero uso circa 95 milioni di persone l’anno, di questi 2.4 milioni ne sarebbero dipendenti, sviluppando successivamente dipendenza da eroina, una crisi paragonabile a quella dell’Aids degli anni ’90. Emarginazione sociale, malessere esistenziale, problemi familiari, smarrimento nella società dell’ipercompetizione capitalistica nel mondo studentesco e lavorativo, i fattori alla base dell’aumento delle tossico- e farmacodipendenze. Particolarmente significativo è il caso dell’Ohio, lo Stato che ha sofferto maggiormente la recente crisi economica e che è sede del più elevato numero di morti per droga della nazione, 2590 soltanto nel 2015.

 

L’attuale crisi della droga che sta uccidendo oltre 50mila statunitensi l’anno è considerata la più grave emergenza di questo genere dai tempi dell’epidemia del crack e dell’Aids

Oggetto di studio è anche la diffusione della povertà, soprattutto quella estrema, anch’essa divenuta un serio problema nazionale. Coloro in stato di povertà nel 2015 erano tra i 43 milioni e i 46 milioni, ossia quasi il 15% della popolazione totale, di questi quasi 21 milioni vivrebbero in condizioni di povertà estrema. Una situazione che ha colpito ogni comunità etnica, soprattutto quella latinoamericana: nel 2016, secondo l’organizzazione caritativa Pan para el Mundo, il 18.5% delle famiglie versava in condizioni di indigenza. Nel 2016, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura, 15.8 milioni di famiglie statunitensi nel corso dell’anno hanno avuto difficoltà a nutrirsi, cifre in linea con le stime di Feeding America secondo le quali quasi un americano su 7 ogni notte va a letto senza mangiare.

Il caso dell’impoverimento degli statunitensi è stato argomento di approfondimento da parte della professoressa Elisabetta Grande, che nel recentissimo libro Guai ai poveri ha raccontato il paradosso americano: la creazione ed accumulazione di ricchezza dal 1976 ad oggi ha prodotto ricadute positive solo su una piccola parte della popolazione, lasciando che la maggioranza pagasse i costi di tale processo e, sebbene i poveri siano presuntamente 46 milioni, coloro che vivono al limite della sussistenza, senza riuscire a soddisfare altro che i bisogni primari, sarebbero circa 105 milioni. Si tratta di numeri discutibili, ma confermati anche da enti autorevoli del settore come Oxfam America ed Economic Policy Institute, secondo i quali nel 2015 la metà di tutti i lavoratori statunitensi riceveva una paga oraria al limite della sopravvivenza. L’impoverimento non ha riguardato solo la classe media e le più deboli comunità etniche, ma anche le famiglie, facendo aumentare il numero dei minori in stato di povertà alimentare: 16 milioni e 700mila nel 2013 secondo Feeding America, in aumento di 600mila unità rispetto all’anno precedente.

 

Le persone in stato di povertà e povertà estrema sono aumentate in maniera costante dagli anni ’70 ad oggi, nonostante l’espansione del ciclo economico. Degno di nota l’aumento dei poor workers e dei senzatetto

 

Ma la popolazione statunitense vive anche altri problemi, di natura psichiatrica, come l’aumento dei casi di disturbi dell’identità di genere. Un’indagine del Public Religion Research Institute del 2015 ha evidenziato che i Millennials sono la generazione più incline a tendenze omosessuali, bisessuali e la più identificata in un genere diverso dal sesso di nascita, il 7% del totale. Un simile sondaggio effettuato quest’anno dalla nota organizzazione lgbt GLAAD avrebbe invece messo in luce che il 20% dei Millennials non si identificherebbe con un genere.

Non solo i più giovani degli statunitensi, ma il 4,1% della popolazione adulta – secondo il Williams Institute, nel 2016 si identificava come appartenente ad un’identità lgbt, un dato in aumento rispetto agli anni precedenti. Le cifre sono state ovviamente accompagnate da un aumento del ricorso ad operazioni di chirurgia di riassegnazione di genere, soprattutto da persone di bambini ed adolescenti. Secondo l’American Society of Plastic Surgeons, questo tipo di trattamenti ha subito un picco del 20% nel 2016, rispetto all’anno precedente.

 

La controversa copertina del National Geographic dedicata alla rivoluzione gender che sta avendo luogo in Occidente, una vera e propria rivoluzione sessuale 2.0 che sta scardinando schemi e credenze tradizionali sul rapporto sesso ed identità

 

L’aumento dei casi di riassegnazione di genere tra i bambini è stato così vertiginoso che in tutto il paese sono state aperte cliniche apposite, come quella dell’ospedale pediatrico di Boston, una delle più laboriose del paese. Secondo il direttore dell’unità di genere del suscritto ospedale, il dottor Norman Spack, i disordini d’identità di genere sarebbero sempre più frequenti tra i bambini e ne soffrirebbe 1 ogni 10mila. In un rapporto pubblicato da Spack sul tema bambini e riassegnazione di genere, è emerso come il paziente più giovane mai trattato dalla clinica avesse soltanto 4 anni, troppo pochi per imparare a contare fino a 20, ma abbastanza per finire vittime delle follie delle società del malessere.

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