globalist.it - 22 marzo 2017 - Per Paul Manafort 10 milioni all'anno per promuovere gli interessi di Putin negli Stati Uniti. Il Russiagate o Putingate sembra allargarsi, e chissà se si arriverà a qualche grana realmente grossa per Trump: l'ex presidente della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, ha lavorato segretamente per un miliardario russo con l'obiettivo di promuovere gli interessi del presidente russo Vladimir Putin. E' quanto risulta all'agenzia di stampa statunitense Ap. Manafort, riporta la Ap, era al servizio del magnate russo Oleg Deripaska - uno stretto alleato di Putin - e scrisse un piano strategico nel 2005 che secondo lui poteva "beneficiare moltissimo il governo Putin".  In particolare, l'ex presidente della campagna elettorale di Trump firmò un contratto da 10 milioni di dollari l'anno a partire dal 2006 e mantenne un rapporto d'affari con Deripaska almeno fino al 2009. Manafort ha confermato alla Ap di avere lavorato per il magnate russo, affermando però che questa sua attività viene presentata adesso, in modo ingiusto, come inappropriata.

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Mercoledì 22 marzo 2017

 

La cospirazione del “Russiagate”

di Mario Lombardo

 

Il misero spettacolo offerto questa settimana dal Congresso americano, nel corso delle prime audizioni pubbliche sul “caso” della presunta interferenza russa nelle elezioni presidenziali del novembre 2016, ha confermato come negli Stati Uniti sia in atto un’autentica caccia alle streghe, basata sul nulla, per spingere la nuova amministrazione Trump verso lo scontro aperto con il Cremlino.

 

Le testimonianze rilasciate alla commissione servizi segreti della Camera dei Rappresentanti dai direttori di FBI e NSA, James Comey e Michael Rogers, hanno generato un interesse enorme nella stampa ufficiale americana. Le parole di entrambi sono state però sfruttate quasi soltanto per alimentare un’operazione propagandistica in atto da tempo e che non ha finora trovato alcun reale riscontro nella realtà dei fatti né, peraltro, nelle stesse audizioni di lunedì.

 

Il punto centrale delle deposizioni raccolte dai deputati americani è stato senza dubbio la rivelazione da parte del numero uno dell’FBI dell’esistenza di un’indagine ufficiale sulle possibili “collusioni” tra Donald Trump, o membri del suo staff, e agenti del governo russo al fine di influenzare l’esito del voto per la Casa Bianca.

 

Questa vicenda ha prevedibilmente occupato quasi per intero un’audizione durata più di cinque ore. Al contrario, l’altra questione all’ordine del giorno, l’accusa di Trump di essere stato intercettato in campagna elettorale in seguito a un ordine diretto dell’ex presidente Obama, si è risolta in pochi minuti dopo che lo stesso Comey ha assicurato di non avere elementi per confermare quanto sostenuto per la prima volta lo scorso 4 di marzo in un “tweet” scritto dal miliardario newyorchese.

 

Le modalità con cui le due vicende sono state trattate lunedì in un’aula del Congresso di Washington riflettono l’attitudine dei media “mainstream” in queste settimane. L’accusa di Trump è stata cioè scartata rapidamente come una delle solite uscite bizzarre del neo-presidente, mentre le presunte operazioni di hackeraggio russe negli USA sarebbero del tutto reali e rappresenterebbero una seria minaccia alla democrazia americana.

 

In realtà, per entrambe le accuse non esiste una sola prova concreta presentata pubblicamente che ne attesti l’attendibilità. Lo stesso Comey ha ricalcato in sostanza il copione della stampa nel suo intervento, limitandosi a interpretare in maniera ridicola il pensiero e le azioni del presidente russo Putin per spiegare l’intervento del suo governo nelle elezioni, così da favorire Trump o, più precisamente, per danneggiare la candidatura di Hillary Clinton.

 

Il tono surreale dell’audizione di lunedì è stato dato dal discorso di apertura del numero uno dell’opposizione nella commissione servizi segreti, il deputato Democratico della California Adam Schiff. Quest’ultimo ha riassunto in pochi minuti le teorie cospirazioniste fatte proprie dal suo partito per offrire un resoconto dell’interferenza russa nel processo elettorale americano basato su una serie di “fake news”, ampiamente screditate o smentite da analisi indipendenti, o su rivelazioni e rapporti provenienti da non meglio definite fonti all’interno dell’intelligence USA.

 

La natura artificiosa e del tutto politica del circo messo in piedi in particolare dal Partito Democratico contro Trump è provata anche dal fatto che, come hanno spiegato i giornali americani, l’FBI è solito rivelare l’esistenza di indagini in corso solo “in rare circostanze”.

 

Per il suo direttore, quello relativo ai legami tra gli uomini di Trump ed esponenti del governo di Mosca sarebbe un caso di “pubblico interesse” che giustifica la rivelazione delle indagini. Piuttosto, l’iniziativa di Comey è motivata dal fatto che le accuse rivolte a Trump e al Cremlino, non avendo alcun fondamento nella realtà, necessitano di un’ampia risonanza pubblica attraverso l’azione coordinata dei media, dei politici e, ora, dei vertici della sicurezza nazionale, la cui indipendenza e imparzialità viene data per scontata.

 

L’FBI, così come la NSA o la CIA, è invece tutt’altro che estraneo alle lotte politiche all’interno della classe dirigente d’oltreoceano. L’attuale direttore Comey, d’altra parte, proprio alla vigilia delle presidenziali di novembre era stato protagonista di un’uscita pubblica, giudicata universalmente inopportuna e contraria al tacito impegno dell’FBI di non influenzare il processo elettorale.

 

Singolarmente e a conferma dell’esistenza di uno scontro durissimo nel cuore dei poteri dello stato, in quell’occasione l’intervento di Comey aveva con ogni probabilità penalizzato Hillary Clinton, a carico della quale aveva annunciato l’esistenza di un’indagine per l’uso di un server di posta elettronica non governativo durante il mandato della ex first lady alla guida del dipartimento di Stato.

 

Lunedì, il direttore dell’FBI non ha in effetti aggiunto nulla di concreto alle teorie anti-russe che circolano a Washington, ma ha anzi ammesso in sostanza che eventuali responsabilità di Mosca e dello stesso Trump o dei suoi fedelissimi sono tutte da indagare. Quali siano i fatti o gli indizi che giustifichino un’iniziativa in questo senso a carico del presidente degli Stati Uniti continuano però a non essere spiegati.

 

Comey, oltretutto, ha ammesso che non esistono prove del fatto che eventuali cyber-operazioni russe abbiano contribuito a modificare l’esito del voto che ha portato Trump alla Casa Bianca. Questa affermazione, assieme agli altri elementi della vicenda, solleva ancor più l’interrogativo su quale sia esattamente il contenuto delle accuse rivolte alla Russia.

 

A ben vedere, le accuse di interferenza nelle elezioni sembrano essere tutt’al più scaturite da normali operazioni di intelligence debitamente ingigantite e che senza dubbio Mosca conduce ai danni degli Stati Uniti, così come però questi ultimi fanno, con ogni probabilità in maniera più aggressiva, nei confronti della Russia e di altri paesi.

 

L’intera operazione montata contro l’amministrazione Trump serve a impedire qualsiasi forma di disgelo tra Washington e Mosca, in modo da garantire che gli orientamenti strategici anti-russi promossi dall’apparato militare e della sicurezza nazionale americano, rappresentato dal Partito Democratico e da una parte di quello Repubblicano, continuino a essere al centro della politica estera americana, così come lo sono stati negli otto anni di presidenza Obama.

 

Il clima da maccartismo, alimentato da iniziative come quella inaugurata lunedì dalla commissione servizi segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha inoltre l’obiettivo di ostacolare il coagularsi di un’opposizione popolare progressista contro l’agenda ultra-reazionaria dell’amministrazione Trump, in modo da indirizzarla verso una campagna anti-russa ugualmente reazionaria e guerrafondaia.

 

La testimonianza del direttore dell’FBI segna così l’inizio di un processo politico che vedrà pendere sulla nuova amministrazione la perpetua minaccia di un’incriminazione per i presunti rapporti del presidente con il governo russo. Come ha spiegato il direttore dell’FBI, infatti, l’indagine in corso non è di natura “criminale”, bensì “contro-spionistica”, caratterizzata cioè da tempi lunghissimi, da accuse vaghe molto difficilmente dimostrabili e, soprattutto, dalla scarsa probabilità di sfociare in una qualche incriminazione formale.

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