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26 giugno 2017

 

Mosul, ultimo atto

di Giampaolo Cadalanu e Emanuele Satolli, Fotografie di Emanuele Satolli

 

Lo strazio delle donne soccorse dai soldati di Bagdad, la fuga disperata degli anziani dall’oppressione dello Stato islamico, lo sgomento dei bambini davanti alle bombe. Tutto questo (e altro) nel racconto di un coraggioso fotografo italiano, Emanuele Satolli

 

La tragedia di Mosul si sta compiendo: la distruzione della moschea di Al Nuri è il punto di non ritorno nella sciagurata storia dello Stato islamico. Gli ultimi dispacci d’agenzia dicono che l’epilogo sarà quello previsto, con combattimenti selvaggi, con massacro di civili, con fanatici votati al martirio. Queste ore saranno le più difficili per i centomila civili ancora intrappolati nelle zone controllate dall’Isis. Ma la fine del radicamento territoriale dell’organizzazione è cominciata. La prossima tappa sarà Raqqa, all’interno dei confini siriani, ma dopo la caduta del minareto pendente sotto il quale Al Baghdadi aveva proclamato il Califfato, il cammino della sua organizzazione è segnato. Sarà un cammino se possibile più sanguinoso, con il ritorno alla vocazione terroristica e l’abbandono – almeno per ora – delle velleità “statuali” a cui pochi avevano creduto fino in fondo.

 

Lo dicono le scelte compiute dall’Isis nei tre anni scarsi di controllo della capitale di Ninive. Secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, i lavori pubblici erano solo opere di difesa: sbarramenti, tunnel, ponti interrotti, con l’unica eccezione dell’impegno a rinnovare i locali del suq e l’arrivo di brutti lampioncini leziosi sul viale di ingresso alla città. Non volevano un futuro a Mosul, nessuno di loro: i foreign fighters che in queste ore stanno sparando gli ultimi colpi, con in mente solo il miraggio del paradiso islamico, o i fondamentalisti locali, capaci di rivolgere le armi contro i compatrioti piuttosto che lasciarli andar via. Altro che progettazione dello stato, altro che educazione dei cittadini, altro che rimpianto della purezza di un Medioevo inventato: servivano prigionieri, ostaggi, scudi umani. I sopravvissuti, quelli che da Mosul sono fuggiti in tempo, torneranno a pianificare attentati, pronti a usare ogni strumento per spargere il terrore anche in Occidente. Ma il calvario della città irachena resterà nella Storia come monito, accanto ad altri nomi evocativi di tragedie: Dresda, Coventry, Vukovar, Sarajevo, e così via.


A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. 

La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.

Nella mia ultima trasferta a Mosul sono stato “embedded” con i soldati iracheni. E ho visto combattere casa per casa. I militari avanzano lentamente, in squadre da 12-15 persone, entrano nei cortili, affrontano un isolato alla volta. Ma le case sono collegate l’una all’altra. E i miliziani dell’Isis hanno aperto dei buchi nelle pareti per poter passare da una abitazione all’altra senza essere visti. E, naturalmente, non si può sapere che cosa c’è oltre il muro. Ho visto militari sparare contro una porta, prima di passare, senza sapere chi ci fosse al di là. Ci siamo trovati a pochi metri dai jihadisti, separati solo da una parete. Un’altra volta dal buco di un muro è sbucata una famiglia intera che cercava di allontanarsi dagli uomini dell’Isis. Ci hanno raccontato che il giorno prima un gruppo di civili aveva provato a fuggire e i miliziani avevano aperto il fuoco, uccidendo quattro persone.

 

Negli ultimi giorni a Mosul, per fare fotografie dovevo avvicinarmi molto all’azione, e anche i soldati si muovevano a distanze più ravvicinate. Si correvano rischi soprattutto per vedere il minareto pendente, io l’ho ripreso qualche volta da lontano, ma adesso hanno fatto saltare in aria l’intera moschea di Al Nuri. Il minareto è distrutto. C’era un caldo feroce, una luce fortissima che rendeva complicate le riprese, ma soprattutto sono cambiate le condizioni dello scontro. Credo che anche questo sia fra le ragioni della morte del reporter francese Stephan Villeneuve e del suo fixer curdo Bakhtiyar Haddad, nei giorni scorsi. Sono finiti su una mina, anche altri due giornalisti sono rimasti feriti. Credo che sia successo perché ci si muove in spazi molto ristretti. Pensare che pochi giorni prima eravamo andati avanti assieme, proprio con questi francesi, nel quartiere di Zanjili, che ancora non è del tutto liberato.

 

Ora, dopo l’incidente, gli iracheni hanno ridotto l’accesso ai giornalisti. In queste condizioni, sul terreno la sicurezza non può più essere garantita: i soldati di Bagdad devono fare affidamento sulla rapidità delle manovre. Ma gli spazi ristretti impediscono l’arrivo dei mezzi blindati. A Mosul ero con i soldati della 73esima brigata dell’esercito iracheno, e ho notato che avevano un addestramento carente, ma soprattutto scarse dotazioni: combattevano con le scarpe da ginnastica, senza elmetti o giubbotti antiproiettile. Era certo un contingente meno specializzato delle forze d’élite, come la Golden Division o la Rapid Reaction Force. Combattere in queste condizioni è molto duro: i militari dormono poche ore, dove possono, senza acqua né corrente elettrica, al contrario dei corpi speciali che sono più attrezzati. E mi pare che davvero ci siano grandi differenze in termini di motivazione: gli ufficiali devono spronare con forza i soldati per mandarli avanti. Questi ultimi si svegliano al mattino, sapendo di dover andare al fronte: la loro è una sfida quotidiana, quando vai in prima linea non sai mai se la sera tornerai sano e salvo, se potrai mai rivedere la tua casa. Molti dicono che dopo Mosul lasceranno le forze armate, è una vita troppo sacrificata. I soldati sono comunque molto attenti nei confronti dei civili. Abbiamo trovato una famiglia con una donna che aveva perso una gamba per il colpo di un mortaio: i militari hanno preso l’impegno di tornare a prenderla e l’indomani erano lì, puntuali.

 

Di queste giornate conserverò ricordi molto forti, soprattutto delle persone con cui ho condiviso l’esperienza. Penso a un soldato semplice della 73esima brigata, Abas, che combatteva dopo poche ore di sonno, obbedendo agli ordini, con sacrificio. L’avevo visto caricarsi in spalla assieme ai commilitoni un’anziana che non riusciva più a muoversi. L’ho fotografato venti minuti prima che gli uomini della IX divisione corazzata ci vedessero avanzare fra le case con i soldati e ci prendessero per integralisti. Hanno aperto il fuoco con una mitragliatrice, noi ci siamo rifugiati dietro un muro. Poi un carro armato ha sparato una cannonata e Abas è stato raggiunto alla testa, è morto sul colpo. Il primo a soccorrerlo è stato il maggiore Tareq, ma non c’è stato nulla da fare. Tareq è un comandante, l’unico che parlasse inglese: comunicavo solo con lui, mi seguiva passo per passo, organizzando ogni cosa, sempre disponibile ad aiutarmi.

 

Non si tirava indietro quando c’era da avanzare nelle zone ad alto rischio: entrava nelle case ancora non bonificate, si esponeva in prima persona, non come altri ufficiali che restavano nelle retrovie. È figlio di un anziano generale di Saddam, ha voluto continuare la tradizione di famiglia. Non aveva raccontato alla moglie che si trovasse in prima linea, così doveva lasciar squillare il telefono a vuoto e non rispondeva quando si sentivano esplosioni, per non farla preoccupare. Anche il capitano Saif è rimasto ferito da un proiettile di artiglieria, non in modo molto grave. Lui non parlava inglese, quindi non potevamo comunicare molto, ma mi seguiva come un’ombra per garantire la mia sicurezza. Ricordo che un giorno ha ricevuto un pacchetto di biscotti alle mandorle, fatti in casa dalla sua fidanzata, e lui ha insistito per dividerli con noi. Abbiamo mangiato assieme, anche se era il Ramadan: i soldati sono esentati dal digiuno islamico. Un’altra volta un proiettile di mortaio dell’Isis è piombato proprio accanto a lui, a poco più di un metro dalle sue gambe, è rotolato lì vicino ma non è esploso.

 

È stato quasi un miracolo. Tareq racconta che le bombe di mortaio dell’Isis sono fatte in laboratori artigianali, in maniera rudimentale, e capita spesso che non esplodano. Ma ci vuole fortuna, sempre. Un altro viso che mi è rimasto impresso è quello di Iraq, un bambino di dodici anni che restava tutto il giorno accanto alla madre, ferita alle gambe dalla bomba di un mortaio. Di sei fratelli ne erano rimasti solo due, ma Iraq non pensava alla sua vita: stava lì, sventolava la madre con un pezzo di cartone per farle fresco, il calore era insopportabile ma lui restava lì. I civili, in questa guerra, sono quelli che soffrono di più: sono esausti, senza cibo da giorni, spesso senza nemmeno acqua. Ho visto visi stravolti, bambini emaciati, con le labbra riarse. Ma a Mosul ancora non è finita.

 

 

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