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22 luglio 2017

 

Ninive, la via senza uscita

di Mimmo Cortese

 

Cosa si sta consumando veramente nella Piana di Ninive e con la "liberazione" di Mosul? Nemmeno l'ira del dio più furente avrebbe mai potuto immaginare quello che si sta vivendo da mesi. Non ci sono e non ci saranno vincitori

 

Forse nessuno sarà mai capace di raccontare veramente quel che è accaduto in questi mesi a Mosul e nella Piana di Ninive, la città che è alle origini della vicenda biblica di Giona, l’antica capitale assira del regno di Assurbanipal. Quel che sappiamo, malgrado l’esultanza dei presidenti e dei generali che hanno lanciato una vera competizione per poter gridare per primi e brindare a Mosul “libera” dopo un assedio più lungo di quello di Stalingrado, è che non ci sono vincitori né vinti. Non ci saranno mai più, sulle sponde del fiume Tigri, né vincitori né vinti.

 

Ninive è la città che sta alle origini della vicenda biblica di Giona, del suo dissidio, della sua incomprensione con Dio.

Ninive, Mosul. Nelle parole (1) di Laura Silvia Battaglia è racchiuso, con una chiarezza dolente ma lucida come uno specchio, ciò che è accaduto in questi mesi a Mosul. Morte e distruzione di ogni presenza umana. Paura e dolore, come una voragine cupa e illimitata che risucchia tutto l’ossigeno necessario a vivere, a respirare. Terrore e umiliazione, nel sospetto su tutti e per tutti, uomini, donne, vecchi, adolescenti.

Degradazione e vergogna, come quell’urina che intride i poveri stracci, che chiamiamo vestiti, di un ragazzo la cui sorte è quasi certamente segnata. In un altro servizio dalla città irachena, un militare affermava: “Per essere davvero sicuri dovremo lasciare vivi solo gli infanti“. Erode al contrario. In un’illusione dall’ingenuità quasi sconfinata, vicinissima alla pura irrazionalità. Nemmeno l’ira del dio più furente avrebbe mai potuto immaginare quello che sta succedendo da mesi. Giona non avrebbe tentato di fuggire a Tarsis e la città larga tre giornate di cammino, del “Palazzo senza eguali”, avrebbe compreso tutto al suo solo apparire.

Ogni volta – e sono decenni – che si ripresentano queste situazioni mi domando come sia possibile che delle persone, anche solo di minima ragionevolezza e buon senso, possano pensare che questa sia la strada con la quale verranno sconfitti Daesh, integralismi, fanatismi e terrorismi. Ogni intervento armato, ogni guerra, è un gradino nella discesa in un abisso senza fondo e senza ritorno. Tutta la storia dei conflitti militari, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, lo dimostra inequivocabilmente.

Non ci sono i vincitori. Non ci sono più i vincitori. Non ci saranno mai più i vincitori. Vinti. Solo vinti e macerie.

Eppure resto sempre stupito di quante – tante! – brave persone lascino passare, non agiscano, non si oppongano.

Case distrutte, case bombardate, case diroccate nella città dei meravigliosi giardini pensili e della finissima mussola, da cui deriva il suo nome.

Luoghi di culto e di incontro bruciati, bombardati, rasi al suolo, nella città nella quale, fino a pochi decenni fa vivevano insieme arabi, curdi, turchi, ebrei, yazidi e cattolici, protestanti, caldei, armeni, ortodossi. Chiudere gli occhi ancora una volta, non alzare la voce, pensare a quanto accade come a fatti distanti, di cui – se proprio dovremo farlo – occuparsi più avanti, o in qualche ritaglio di tempo avanzato dai nostri più importanti affari quotidiani, non aiuterà nessuno di noi. Quell’ombra polverosa, d’uno scarlatto putrido e marcescente non si fermerà.

Non se noi non lo vorremo.

 

Nota su un bellissimo reportage

Le splendide foto di Laurence Geai, pubblicate su Paris Match e da lei concesse per la pubblicazione su Comune-info, sono state scattate appena dopo la presa di Mosul ma non raccontano cos’è oggi una guerra. Ci gettano in faccia, più semplicemente, l’orrore, come una gigantesca valanga nella quale si conglomerano tutte le disumanità pensabili e possibili. Una valanga di cui siamo responsabili, come chiunque altro abbia scelto la strada della sopraffazione del nemico. Non importa quale esso sia. Ecco come si presenta oggi una città “liberata” – non importa da chi – con la forza della violenza e della devastazione, della brutalità digrignante e schiumosa che come una linfa rancida irrora ormai irrevocabilmente ogni scelta armata, ogni scelta di guerra. 

Il terrore ributta in gola l’insostenibile groppo di dolore, ma quel grumo nero rispunta negli occhi stralunati, atterriti, vitrei. Sotto quale detrito troveremo qualcosa di umano? Non c’è nient’altro da aggiungere che le parole di Samuel Beckett, in chiusura di “Come è”: (…) che io solo sì con la mia voce sì il mio mormorio sì quando smette di ansimare sì tutto questo regge sì ansimante sì sempre più forte nessuna risposta SEMPRE PIÙ FORTE sì schiacciato sul ventre sì nel fango sì nel buio sì lì niente da correggere no le braccia in croce nessuna risposta LE BRACCIA IN CROCE nessuna risposta SÍ O NO sì mai strisciato d’ambio no gamba dest braccio dest spingi tira dieci metri quindici metri no mai mosso no mai fatto soffrire no mai sofferto nessuna risposta MAI SOFFERTO no mai abbandonato no mai stato abbandonato no allora è questa la vita qui nessuna risposta È QUESTA LA MIA VITA QUI urla be’ solo nel fango sì nel buio sì sicuro sì ansimante sì qualcuno mi sente no nessuno mi sente no a volte che mormoro sì quando smette di ansimare sì non in altri momenti no nel fango sì al fango sì io sì la mia voce la mia sì non di un altro no di me solo sì sicuro sì quando smette di ansimare sì di tanto in tanto qualche parola sì qualche frammento sì che nessuno mi sente sì ma sempre di meno nessuna risposta SEMPRE DI MENO sì allora può cambiare nessuna riposta finire nessuna riposta potrei soffocare nessuna risposta inabissarmi nessuna risposta non insozzare più il fango nessuna risposta il buio nessuna risposta non turbare più il silenzio nessuna risposta crepare nessuna risposta CREPARE urla IO POTREI CREPARE urla IO CREPERÒ urla be’

 

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