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27 aprile 2017

 

Il suicidio del Venezuela

di Andrea Muratore

 

Ormai la questione non è più esclusivamente il salvataggio della Rivoluzione Bolivariana: nei prossimi mesi, nelle mani di un governo tornato in gravissimo affanno e di un’opposizione estremamente radicalizzata c’è il futuro dell’intera nazione venezuelana e del suo popolo, mai quanto ora a rischio a causa di una lacerante lotta di potere.

 

Piangi per te, Venezuela. Piangi per te, perché non hai un’idea del tuo futuro e dovresti chiudere gli occhi di fronte a ciò che ti riserva il presente. È una storia tormentata quella dell’ultimo biennio della Repubblica Bolivariana, segnata profondamente dalle continue manifestazioni di una crisi sferzante sotto ogni profilo – politico, sociale e in primis economico – divenuta sindrome esistenziale, entro la quale il Paese latinoamericano si trova nuovamente inghiottito dopo che a cavallo tra fine 2016 e inizio 2017 alcuni segnali incoraggianti avevano segnato la fine del durissimo anno appena passato. Tali segnali si sono rivelati, a conti fatti, dei fuochi fatui: una nuova impennata dell’inflazione ha vanificato la manovra monetaria basata sul ritiro dalla circolazione delle banconote da 100 bolivares, la diversificazione economica stenta a prendere piede e, soprattutto, la polarizzazione politica ha raggiunto un livello tale da ritenere praticamente insostenibile qualsiasi soluzione della crisi coinvolgente, nel lungo periodo, il Presidente Nicolas Maduro, divenuto oramai una figura eccessivamente divisiva. 

Il Venezuela è stato, ed è tuttora, oggetto di fortissime pressioni diplomatiche e politiche da parte degli Stati Uniti e dei Paesi ad essi associati nell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), il cui Segretario Luis Almagro ha fatto dell’avversità al bolivarismo un caposaldo politico. Le ingerenze esterne sono innegabili:“Giù le mani dal Venezuela!”, era stato il nostro appello a favore della nazione della Repubblica Bolivariana, assediata tanto dalle brame del Segretario di Stato di Washington Rex Tillerson e dell’intera amministrazione statunitense, interessata ai ricchissimi giacimenti di petrolio del Venezuela, quanto dall’ignoranza dell’intero complesso mediatico-politico occidentale a cui, recentemente, si è unito anche l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Tuttavia, le cause originarie e i motivi scatenanti della deflagrazione della lunga crisi venezuelana, delle sue precedenti fasi di intensificazione e del suo recente, ennesimo inasprimento nascono da fattori interni al sistema politico, economico e sociale della Repubblica Bolivariana e da contraddizioni sviluppatesi nel corso della sua storia recente in seguito all’ascesa al potere del compianto Hugo Chavez. 

Inoltre, le responsabilità per la mancata risoluzione della crisi e per le nuove, gravissime turbolenze che potrebbero aver avviato il cammino del Venezuela su una strada senza ritorno sono equamente ripartibili tra un governo sempre meno in grado di portare avanti un saldo disegno strategico e di venire incontro alle esigenze della popolazione e i leader di un’opposizione strumentalmente dedita all’esacerbazione delle tensioni interne, egemonizzata da formazioni radicali come Voluntad Popular che hanno contribuito a disgregare ogni residua possibilità di dialogo con l’amministrazione di Caracas.

Allo stato attuale, Nicolas Maduro è semplicemente impresentabile per la ricandidatura ad un secondo mandato nel palazzo di Miraflores nelle prossime elezioni presidenziali di fine 2018. Di fronte a una fascia estremamente ampia della popolazione venezuelana, inclusi numerosi sostenitori del governo del Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV), egli ha finito per divenire la personificazione delle travagliate vicende vissute recentemente dal Venezuela, per le quali detiene responsabilità non secondarie. La volubile leadership di Maduro ha portato in emersione la fragilità intrinseca del “compromesso sociale” edificato dal chavismo, mai adeguatamente sostenuto da opportuni strumenti di rafforzamento: la redistribuzione della rendita petrolifera, infatti, ha rappresentato il caposaldo economico del bolivarismo nel corso della decade dorada, garantendo impeto e diffusione a un diffuso welfare redistributivo che ha consentito programmi su vasta scala per la sanità, l’educazione e la riduzione della povertà, rimanendo in ogni caso eccessivamente legato alla sua fonte primaria. L’errore primigenio di Maduro, come già più volte abbiamo ribadito dalle colonne della nostra testata, è stato compiuto proprio sul terreno economico: dall’incapacità del governo di Caracas di rispondere adeguatamente al crollo del prezzo del petrolio a inizio 2014, infatti, sono discese una serie di problematiche andate via via intensificandosi col passare dei mesi.

Per il 2017 si prevede una nuova impennata dell’inflazione sino al 1500% dopo che, per lo scorso anno, le statistiche hanno fatto segnare una crescita dell’800% e una contrazione del PIL vicina al 19%, mentre al tempo stesso secondo il Fondo Monetario Internazionale il tasso di disoccupazione ha superato la soglia del 25%, rendendo il livello registrato nella Repubblica Bolivariana il più alto al mondo dopo quello del Sudafrica. Cifre che segnalano molto più di un’allarmante regressione dopo la crescita continuata e sostenuta dell’era Chavez, cifre che denotano la penosa situazione in cui si ritrova la patria del “socialismo del XXI secolo” nel momento in cui, nel resto dell’America Latina, esso si difende con successo in Bolivia e Nicaragua ed è riuscito a garantirsi continuità in Ecuador. Secondo Angelo Zaccaria, studioso delle rivoluzioni bolivariane, l’atteggiamento di Maduro, nel corso degli ultimi anni, è stato improntato a una deleteria volontà di “mirare alla salvaguardia delle posizioni di una burocrazia civile-militare al potere” in cui pochi esponenti di spicco si sono messi in evidenza nel corso dell’ultimo quadriennio, rendendo ulteriormente più ampie le lacune aperte dalla scomparsa di Chavez: tra questi si segnalano il vicepresidente Tareck El Aissami, che si è coraggiosamente difeso dalle accuse che lo vedevano complice del narcotraffico, nonostante possa rivendicare risultati di ottimo livello nel corso del suo mandato da Ministro della Giustizia, e il Ministro degli Esteri Delcy Rodriguez, ferma nel sostenere il rifiuto di qualsiasi condizionamento esterno negli scenari venezuelani. 

Dal canto suo, anche l’opposizione della Mesa de la Unidad Democratica (MUD) detiene pesanti responsabilità per il progressivo deterioramento della situazione interna al Venezuela. A partire dal suo successo alle elezioni legislative del dicembre 2015, infatti, la MUD ha sfruttato l’Asamblea Nacional in maniera strumentale per provocare un’accelerata destabilizzazione del governo chavista, preferendo percorrere la via dello scontro istituzionale tra i poteri, rivelatosi in tutta la sua gravità nelle tormentate giornate di fine marzo, piuttosto che scegliere la via della riforma progressiva. Un capitale politico di rilievo è stato gettato al vento a causa delle azioni dei più aperti oppositori del governo di Caracas, che preferendo la strada dello scontro frontale hanno sdoganato le guarimbas, le violente proteste di piazza che hanno visto a più riprese l’intervento di gruppi paramilitari, come principale strumento di pressione. L’emittente latinoamericana TeleSur ha, a più riprese, segalato le arbitrarie aggressioni e le violazioni dell’ordine pubblico causate dalle forze di opposizione che a partire da inizio aprile si sono confrontate con le forze di sicurezza governative in scontri che hanno causato circa una trentina di morti. Nella giornata del 25 aprile, il leader di Voluntad Popular Freddy Guevara ha invitato l’opposizione a incrementare lo sforzo antigovernativo, seguendo in tal senso i dettami di Leopoldo Lopez, storico numero uno della formazione reazionaria detenuto dal 2014 e condannato nel settembre 2015 a 13 anni e 9 mesi per il suo coinvolgimento nelle violentissime guarimbas del 2014. L’impopolarità di Maduro è stata costantemente sfruttata dalle frange più radicali della MUD, a cui si è unito anche l’ex candidato Presidente Henrique Capriles, per favorire una lotta di potere senza quartiere che rischia di esaurire il Paese.

È oltremodo difficile comprendere quali possano essere i futuri scenari per il Venezuela, ostaggio di una serrata contrapposizione che sfocia, in maniera sempre più preoccupante, in una catena incontrollabile di violenza. Tanto alla leadership del PSUV quanto a quella della MUD si può rimproverare di non avere alcuna idea chiara sulle mosse necessarie da compiere per poter far sì che la Repubblica Bolivariana possa tornare alla stabilità, al progresso e alla crescita economica. L’accanimento dello scontro favorisce una focalizzazione sul breve periodo che fa apparire remote, quasi inarrivabili, le elezioni presidenziali previste per fine 2018, alle quali il Venezuela rischia di arrivare completamente stremato. Più volte, su L’Intellettuale Dissidente, abbiamo parlato della necessità, per Maduro, di operare nel migliore dei modi per preservare le conquiste della Rivoluzione Bolivariana. Ora, a essere messo in gioco è il futuro stesso dell’istituzione statale e dell’intera nazione del Venezuela, la cui rovina potrà essere evitata solo se, nei prossimi mesi, il governo e l’opposizione saranno in grado di terminare un duello che assomiglia a una lunga, inesorabile corsa verso il baratro.

 

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