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17 maggio 2017 

 

Quanto vale la vita d’un popolo indigeno? 

di Silvia Ribeiro

Traduzione di Daniela Cavallo

 

Una volta bastava sterminarli ma oggi, per togliere di mezzo le popolazioni che vivono nei territori necessari all’avanzata del “progresso”, certi mezzi non usano più. Così le imprese che vogliono impossessarsi della terra che indigeni e contadini non sono stati capaci di “sfruttare a dovere” hanno inventato  il concetto di “compensazione della biodiversità”. Una vera miniera d’oro perché permette alle imprese di aumentare i profitti e tingersi pure di “verde”. Guadagnano con l’attività contaminante che installano impunemente nelle terre “conquistate” e si appropriano o vanno a gestire un’area di biodiversità in un’altra zona, con la quale possono ottenere altri profitti con l’emergente mercato secondario di “buoni di compensazione”, la vendita di servizi ambientali e i contratti che siglano per brevettare piante, insetti e microrganismi vari. L’allontanamento dal proprio territorio, come sanno bene tutti i popoli che lo hanno subito, è invece una sentenza di morte per le comunità che non sono state capaci di mettersi al passo coi tempi. Il Senato messicano discute una Legge generale sulla bioversità.

 

Si può misurare quanto vale la vita di un popolo indigeno o contadino? O quanto vale la sua morte? Le imprese che vogliono sfruttare i loro territori e alle quali molesta la presenza di queste comunità, pensano di sì. Per questo hanno inventato il concetto di “compensazione della biodiversità” (biodiversity offsets). Così, un’impresa mineraria o idroelettrica, una edile, enormi piantagioni di monocolture di alberi, o qualsiasi altra mega-imprenditorialità che implica la devastazione di un territorio, potrebbe “compensare” la distruzione, presumibilmente conservando la biodiversità da un’altra parte. Quelle che stanno maggiormente utilizzando questo perverso concetto sono le miniere; altre, però, come la Cemex [1], non sono da meno.

La proposta che viene discussa al senato [messicano] su una Legge Generale della Biodiversità, della senatrice Ninfa Salinas del PVEM, sebbene non nomini espressamente questa modalità, la facilita attraverso le lacune e le nuove norme che stabilisce e soprattutto, attraverso l’assenza di riconoscimento, che predomina nella proposta, del ruolo essenziale, storico e attuale, delle comunità indigene e contadine nella cura e nella crescita della biodiversità.

Il concetto di “compensazione della biodiversità” è una miniera d’oro per le imprese, perché permette di aumentare i loro profitti e di apparire come imprese “verdi”. Primo: guadagnano con l’attività contaminante che installano e per uscirne impuni dalla devastazione causata. Secondo: si appropriano o vanno a gestire un’area di biodiversità in un’altra zona, con la quale possono ottenere profitti aggiuntivi sia per l’emergente mercato secondario di “buoni di compensazione della biodiversità”, come per la vendita di servizi ambientali, mercati di carbonio, o per contratti che potrebbero siglare con il fine di brevettare elementi della biodiversità, come piante, insetti o microrganismi che si trovano su quel “fondo”, così come dice la suddetta proposta di legge.

Per facilitare l’operazione, parte della strategia delle imprese è denigrare i popoli che vivono lì, ai quali viene mossa l’accusa che, se l’impresa non se ne fosse occupata, avrebbero devastato il loro territorio: per cui, trasferendoli altrove, si stanno prendendo cura della biodiversità.

L’allontanamento dal territorio, come sanno bene tutti i popoli che lo hanno subito, è una sentenza di morte per le comunità, le loro culture, i loro modi di vivere e lavorare. Quando vengono reinsediati, li spostano in zone che non conoscono, che non sono fertili e dove non possono praticare le loro tradizionali forme di sostentamento. Un esempio di “compensazione della biodiversità”, presentato dalla miniera Rio Tinto come modello, è il caso di una miniera in Madagascar, a partire dalla quale hanno reinsediato altrove una comunità. Non li hanno mai informati che non potevano accedere al bosco e che il luogo che gli veniva assegnato per seminare erano dune di sabbia. Il Movimiento Mundial de Bosques [WRM World Rainforest Movement] era lì e ha pubblicato un rapporto su quanto era realmente successo, che dimostra il significato di questo tipo di “compensazione”. Un modello, certo, ma di come operano le multinazionali (http://tinyurl.com/mdm4gd5).

Queste “compensazioni” partono dalle stesse premesse teoriche dei mercati di carbonio, i pagamenti per servizi ambientali e il concetto di “emissioni nette zero” nel cambiamento climatico. L’assunto di base è che le emissioni di gas, l’inquinamento e la devastazione, possono essere “compensate”. Non si tratta di fermare la devastazione e l’inquinamento ambientale né la distruzione della biodiversità, bensì di fare una contabilità corretta: se il danno prodotto si compensa presumibilmente da un’altra parte, la somma darà zero. Questo è inutile al fine di frenare il cambiamento climatico, aver cura della biodiversità e meno ancora per i popoli trasferiti o per quelli che non possono più bere l’acqua del loro fiume, quelli che perdono il loro bosco, la loro terra e il loro sostentamento. Però, quantificare la distruzione, consente di emettere buoni e crediti negoziabili.

 

Nel caso del cambiamento climatico, questa operazione elude realtà molto gravi. Non esiste alcuna prova che i mercati di carbonio abbiano migliorato il cambiamento climatico, però ci sono prove dei profitti di quelli che commerciano con le emissioni. In ogni caso, non resta più “spazio climatico” per continuare con le emissioni, perché l’eccesso di gas con effetto serra di alcuni paesi è stato talmente grande che non c’è la possibilità di “compensare” per continuare ad emettere gas; l’unica vera soluzione è ridurre le emissioni. Nel caso della biodiversità, il progetto è assurdo perché la diversità biologica e quella culturale sono processi locali, co-evolutivi e di lunga storia: non si può distruggere uno spazio e pensare che “conservarne” un altro lo compenserà, ancora meno che si possa sradicare una comunità dal suo territorio.

Nel contesto della COP 13 del Convegno della Biodiversità che si è tenuto nel 2016 a Cancún, questa modalità di “compensazione” è stato un argomento entusiasmante nell’ambito del Foro de Negocios y Biodiversidad [ Business and Biodiversity Forum], con imprese di tutto il mondo. Integra anche la prospettiva della Alianza Mexicana de Biodiversidad y Negocios, costituita poco prima della COP13, composta da imprese messicane e multinazionali come Bimbo, Cemex, Grupo México, Nestlé, Basf, Syngenta, Walmart, Banorte, CitiBanamex, Proteak, BioPappel, Televisa, Masisa, Canaco Cdmx, insieme a istituzioni e ONG come Cespedes, Pronatura, The Nature Conservancy, Rainforest Alliance, Conservación Internacional México, Reforestamos México, Fondo Mexicano para la Conservación de la Naturaleza, Biofin, Cemda, COBI e Ecovalores, molte delle quali hanno avuto un ruolo chiave nella mercificazione della biodiversità.

È importante conoscere e non permettere che vengano portate avanti queste nuove trappole che giustificano la distruzione della biodiversità e nuovi attacchi alle comunità contadine e indigene, che sono i suoi veri custodi.

nota

 [1] Multinazionale messicana del cemento

 

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